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Ecco i veleni Ilva Altroché che corro dei rischi, guardi qui»: Fabio Matacchiera si accarezza la calibro 9 che sta nella fondina, sotto alla felpa. Non gli servirebbe, probabilmente, se non facesse l’ambientalista e non cercasse di liberare Taranto dalla diossina e dagli altri veleni. Ha ricevuto minacce piuttosto serie, da quando ha creato il Fondo anti-diossina, una onlus che ha scelto la trasparenza (tutti la contabilità è sul web) per raccogliere fondi e usarli per fare analisi e rilievi. Per misurare, cioè, quanti veleni ci sono nell’aria e nell’acqua della città dei due mari, del castello aragonese, ma anche delle nuvole rosse che di notte si muovono nel cielo sopra alle ciminiere, inquietanti e rumorose. L’Ilva e le sue 10 milioni di tonnellate di acciaio all’anno, la più grande d’Europa, è una cattedrale gotica che produce ricchezza e preoccupazioni a ritmo industriale. «Vent’anni fa era un ambiente di lavoro altamente nocivo, ora la situazione è ancora oscura e l’azienda non fa nulla per chiarirla»: il professor Giorgio Assennato non è ecologista barricadero, ma il direttore dell’Arpa regionale per la prevenzione e la protezione dell’ambiente. Da i dati che hanno raccolto in primavera sul quartiere Tamburi relativi alle emissioni di benzoapirene, oltre il 90% accertato viene proprio dalla cokeria dell’Ilva, si è messo in moto la macchina politica che ha portato il governo, a cavallo di Ferragosto, ad emettere a tempo di record un decreto che ha messo il bavaglio a norme e controlli fino al 2013. Un provvedimento che è difficile non immaginare scritto su misura per una grande impresa, quella che cinquant’anni fa nasceva come Cosider e poi è diventata Italsider, e che unica nel panorama italiano non ammette nel suo perimetro monitoraggi o controlli, come ricorda Assennato, a parte quelli previsti per legge sui camini per le emissioni standard. L’Arpa ha messo tre sensori due anni fa, ma tutti rigorosamente fuori dai muri e dai cancelli della fabbrica. Diventeranno presto sette e serviranno per tenere d’occhio gli Ipa, idrocarburi policiclici aromatici tra cui il famigerato benzoapirene. Capita allora che passeggiando per il Tamburi, dove nei secoli scorsi percuotevano appunto quegli strumenti per avvisare la città dell’arrivo via mare dei saraceni, si cammini dentro un paesaggio lunare, anzi da Marte, con marciapiedi, strade e muri arrossati in modo innaturale da sbuffi di polveri, in termine tecnico «sloppate», che scappano via durante il ciclo produttivo da crepe, fessure e altri punti di cattivo funzionamento. Una coppia di signori è affacciati al primo piano della loro appartamento Iacp di Via Lisippo, un budello di case basse che stanno letteralmente sotto all’Ilva, sul lato del parco minerario dove per chilometri vengono stivate le materie prime necessarie al ciclo produttivo. C’è un costone di terra coperto da una pallida erba e una rete arrugginita a dividere queste abitazioni dal mostro di ferro, l’Ilva è grande due volte e mezzo Taranto. «Non c’è una famiglia dove non ci sia un morto o un malato di tumore o di altre malattie gravi: io sono stato operato due volte alla gola, molti hanno problemi di tiroide» racconta Oronzo, ricordando il pappagallino che per sbaglio una notte di qualche tempo ha dimenticato in balcone, con la gabbia. «La mattina l’ho trovato seccato, morto. Siamo costretti a vivere barricati in casa, perché di notte scoppia l’inferno tra nuvole, fumi e rumori e dobbiamo sigillarci dentro». Tra gli effetti collaterali che sono il prezzo pagato da questo rione per una cattedrale industriale che impiega migliaia di tarantini, ci sono anche le ondate di scarafaggi che di notte escono dalle vasche dove finiscono, mescolati alle materie prime che le navi portano da tutto il mondo, e marciano su queste stradine fino a ricoprirle completamente: «Qualche notte fa ho visto l’asfalto che si muoveva, tutto nero, mi sono spaventata, erano quegli insetti» rincara Ornella, che vive qui dal ’56 e ci ha cresciuto due figli, ma come il marito non vede vie d’uscita. Non sanno dove andare e nessuno vuole più venire qui, dove le case sono fuori mercato per i prezzi precipitati e per un sentimento diffuso di abbandono, in questo rione di operai e lavoratori che negli anni 70 era una roccaforte del partito comunista. Perfino l’asfalto si è contaminato, con gli anni, e rifarlo è diventato un problema. Qualche centinaio di metri alle spalle, passando per un mucchio di eternit abbandonato a cielo aperto, come se l’amianto in tutto questo fosse problema trascurabile, c’è il cimitero di San Brunone, il camposanto di Taranto. Tombe nuove e vecchie, ornamentali, tutte ricoperte da un velo di ruggine rossa che si posa in modo incessante. Il grande cimitero è ai piedi della fabbrica e tempo fa l’Ilva, per dimostrare il suo cuore, regalò delle fontanelle a chi va a trovare i defunti: un cilindro di cemento e un rubinetto, il tutto su piattaforma di ghisa rigorosamente della casa, certo non uno sforzo enorme per una delle principali imprese italiane. Ma non ci sono solo le notti colorate e rumorose di questa gente che vive sotto al parco minerario, i paurosi sfiati e le esplosioni, le urla degli operai e dei capireparto. Ci sono anche i tumori aumentati del 600% negli ultimi 5 anni, anche se poi si scopre che a Taranto non esiste un registro per queste malattie, come se dimenticare fosse più semplice che viverci. C’è il 93% di emissioni da polveri sottili che proviene dall’area industriale, l’unica città d’Europa che vive questo vassallaggio verso la sua zona produttiva e per i reparti e le filiere che portano pane, ma anche tutto il resto. C’è il mercurio che finisce in acqua dall’Ilva e che è un’incognita su cui, come tanti altri aspetti di questa città di mare e veleni, associazioni come PeaceLink danno battaglia e bussano alle porte dei magistrati. C’è un’inchiesta penale, nella procura guidata dal dottor Franco Sebastio, che attende gli incidenti probatori su diossina e benzoapirene, i grandi imputati alla sbarra di Taranto e e delle nostre coscienze.
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