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Gli alberi stanno morendo. Cosa possiamo fare?
Da giugno ad agosto abbiamo avuto siccità e temperature quasi sempre vicine o superiori ai trenta gradi, ma troppa poca informazione ruota intorno a chi ne sta soffrendo maggiormente: gli alberi, dalla cui presenza dipende la sopravvivenza dell'intero pianeta. L'analisi di Sonia Savioli sui danni che questo clima sta arrecando alle nostre foreste di querce e frassini, ornielli e aceri, pioppi e salici, faggi e castagni. Per primi hanno cominciato i pioppi. A metà luglio avevano già innescato il processo che li porta al riposo vegetativo. Lungo i fossi asciutti e i fiumi ridotti a rivoletti, si aveva sentore d’autunno guardando le loro chiome che s’indoravano. Ma l’autunno, ahimè, era lontano. Poi, uno dopo l’altro, sempre più velocemente, come una folla che fugge davanti al nemico, sono arrivati gli altri: olmi campestri, salici, sorbi, aceri e, infine, le querce. I pendii collinari e montuosi della Toscana stanno ingiallendo. Da giugno ad agosto abbiamo avuto siccità e temperature quasi sempre intorno o superiori ai trenta gradi: non ci vorrebbe molto a capire che un simile clima è in se stesso una catastrofe per tutti i viventi non umani che abitano zone, come il centro Italia, in cui fino a pochi decenni fa vigeva un clima temperato. Zone coperte, appunto, di querce e frassini, ornielli e aceri, arrivando a pioppi e salici in fondo alle valli, faggi e castagni sulle montagne. I giornalisti dei telegiornali però lo chiamano “bel tempo”, e così gli annunciatori delle previsioni meteorologiche televisive. La catastrofe che travolge piante, animali (e contadini) sembra ininfluente per l’attuale essere umano. Io sogno una società nella quale, in frangenti come questi, nella prima pagina dei giornali, a caratteri cubitali ci sia scritto: “ALLARME. I PIOPPI ENTRANO IN RIPOSO VEGETATIVO A META’ LUGLIO”. Una società di sani di mente, che si ricordino di nuovo che l’ossigeno e l’humus sono indispensabili alla loro sopravvivenza. Invece i caratteri cubitali sono per le finanze e le economie dei paesi ricchi, per le misure prese dai governi dei paesi ricchi per salvare le tasche delle classi dominanti, almeno per un po’ ancora. Sogno una società di savi, che si sentano stringere il cuore quando vedono la sofferenza dei boschi e delle campagne, che riescano a intuire la conseguente sofferenza degli animali selvatici e le ricadute che tutto ciò avrà sulla loro vita e su quella dei loro figli. Ma che, soprattutto, siano coerentemente in grado di adeguarvi i propri comportamenti. Invece mi accorgo che la maggior parte della gente è cieca di fronte alla realtà viva e concreta. Questa cecità non è spontanea. Vige una ferrea censura sull’effetto serra, le sue cause e le sue conseguenze. I pazzi maniaci che governano il pianeta (ogni tanto bisogna chiamare le cose con il loro nome) e che tecnicamente vengono definiti “gruppi dirigenti delle multinazionali”, governano anche i mezzi d’informazione. Ogni tanto qualcosa gli sfugge, non sono onnipotenti, ma poi si affrettano a chiudere la crepa. Hanno al loro servizio gente ben pagata, lavoratori indefessi che non si prendono pause né ferie e che sono preposti alla “disinformazione globale”. Tanto per fare un esempio e darvi qualcosa di preciso su cui riflettere, le aziende biotecnologiche, Monsanto in primis, hanno al proprio servizio il gruppo Bivings, un’azienda di comunicazioni specializzata in lobbying (che vuol dire fare gli interessi di un potente gruppo) su internet: siti e mail, commenti, messaggi e addirittura scienziati falsi che danno falsi risultati di ricerche mai esistite. La fantasia non manca a lorsignori e il mezzo si presta all’oscurità e all’anonimato. La Bivings ha come scopo della sua vita quello di vanificare le notizie vere e le informazioni serie che scienziati indipendenti e organizzazioni ambientaliste mettono a disposizione del pubblico. La Exxon, del resto non spese cinquanta milioni di dollari per comprare scienziati che negassero l’effetto serra? Questa notizia divenne di dominio pubblico grazie a una grossa crepa che si aprì nel loro muro di omertà qualche anno fa, quando l’IPCC lanciò l’allarme sul riscaldamento del pianeta. Oggi, per quel che riguarda l’effetto serra, la scelta vincente, più che di negarlo sembra essere di ignorarlo. Riempirci la testa di altri problemi, di allarmi continui, di notizie spesso futili e contraddittorie. E tutti noi, drogati di notizie perlopiù false e tendenziose, ciechi di fronte alla realtà, vagoliamo nella nebbia. Come va? Bene, bene. E quando parli del caldo esagerato ed esageratamente prolungato, dei fiumi asciutti, dei boschi ingialliti e impolverati, vedi qualche attimo di smarrimento: “Ma di che cosa mi sta parlando, questa?” Poi, insistendo e argomentando, ogni tanto fortunatamente senti il 'clic clac' dell’ingranaggio arrugginito che si mette in moto: il cervello parte, lo sconcerto diffidente si trasforma in pensiero semicosciente, il punto interrogativo muta lentamente in punto esclamativo. È vero, è vero, ormai succede sempre più spesso, come si può fare? Cosa possiamo fare, noi? Domanda pleonastica, detta con tono scoraggiato. È infatti sempre più difficile rispondere a questa domanda in tutti i campi, ridotti come siamo a misere rotelline dell’ingranaggio capitalista globalizzato, ininfluenti e impotenti di fronte alle decisioni di cartelli multinazionali e di governi fittizi. Senza un partito né un sindacato che ci rappresenti. Certo, possiamo partecipare alle manifestazioni contro il TAV, opporci alla discarica nel parco naturale, fare un referendum perché l’acqua torni pubblica… Continuare a lottare, non rassegnarsi anche se si viene sconfitti, è importante, lascia una porta aperta al futuro e alle future generazioni. Ma c’è una domanda a cui è più facile rispondere e che è altrettanto importante: “Cosa possiamo non fare?” Non fare, per quella parte di umanità iperattiva e iperconsumista a cui apparteniamo, tende ad essere l’arma vincente. Possiamo, per esempio, non fare viaggi di migliaia di chilometri in auto per vedere tutte le città di una nazione straniera in due settimane, chiamando ciò “vacanze”; possiamo non prendere l’aereo per andare un fine settimana a Londra o a Parigi, tanto costa poco alle nostre tasche, anche se l’aereo consuma uno sproposito di carburante e crea una marea di anidride carbonica che nessun albero assorbirà. Possiamo non scalare l’Everest e neanche il Monte Bianco senza sentirci per questo degli sfigati non abbastanza “in” e non abbastanza competitivi, e così non facendo non comperare vagoni di attrezzature ipertecniche e iperinquinanti e iperconsumatrici di risorse del pianeta, non seminare rifiuti sulle vette, non affollare strade e autostrade che portano alle Alpi, aerei e aereoporti per Katmandu. Possiamo non prendere il Freccia Rossa e nemmeno Italo, non mangiare polli allevati in batteria, non correre in moto per i passi alpini e appenninici, non comprare il camper, la fuoristrada, la “barca” con un bel motore da 'nonsoquanticavalli', e nemmeno l’acqua minerale o la Coca Cola e compagnia bella. E senza sentirci inetti, dato che poi, per ogni “non fare” c’è in realtà qualcos’altro che dobbiamo fare. Come viaggiare sull’intercity o sul pullman di linea, comperarci una borraccia e magari regalarne un’altra, camminare sui sentieri e vedere, conoscere, comprendere, ammirare quelle montagne così belle e così minacciate, invece di cercare di conquistarle e sopraffarle, ecc. Vivere la natura invece di sfidarla o ignorarla. Comprendere i nostri limiti invece di fingere che limiti non ci siano e tentare continuamente di superarli. Accettare i limiti vuol dire anche che, se non hai i soldi o il tempo per andare a Londra o Parigi con mezzi meno inquinanti dell’aereo o del TAV, fai a meno di andarci. Rinunci. Queste sono le rinunce che lasciano una porta aperta al futuro. E che aprono qualche porta anche nei nostri cervelli. Rinunci, e lo fai per i pioppi, per i faggi, per i fiumi e tutte le loro creature. Perché essi sono la nostra vita, lo sono materialmente: senza di loro siamo morti. E devono esserlo anche moralmente: senza di loro siamo morti. I pioppi vanno in riposo vegetativo. Vuol dire che sono al limite tra la vita e la morte per mancanza d’acqua. Il riposo vegetativo può salvarli. Con un po’ di fortuna, si risveglieranno la prossima primavera e torneranno a nuova vita. È una possibilità di sfuggire alla morte, il riposo vegetativo. Una possibilità di cui i sempreverdi non godono. Il 2003 fu un’ecatombe di pini. Sono sempreverdi i magnifici abeti delle nostre Alpi e dell’alto Appenino, i tassi che spandono le loro chiome oscure nell’ombra delle foreste, i fiabeschi agrifogli dalle bacche splendenti. Quanti di loro soccombono nelle estate torride e aride che il nostro “scollegamento” mentale ci ha regalato? Non ci sono solo gli apocalittici incendi dell’Amazzonia e della Siberia, il delirante aumento (160% in più) degli incendi boschivi nel nostro paese: quanti alberi muoiono ogni anno, inosservati e negletti, a causa del cambiamento climatico? Gli alberi, il nostro ultimo baluardo contro il disastro ambientale, stanno morendo o hanno sempre più difficoltà a sopravvivere e ciò è dovuto, in maniera preponderante, al nostro stile di vita. Persino quel povero Gesù Cristo sulla croce pregò suo padre di perdonare “coloro che non sanno quello che fanno”, e un po’ prima disse: “Chi è senza peccato, scagli la prima pietra”. Non sarò dunque io, che ho l’automobile e persino il computer (comprato usato, ve la dò come attenuante, spero), a scagliare pietre su coloro che non sanno quello che fanno, col rischio che qualcuna mi rimbalzi in testa. Ma qualche sasso nello stagno permettetemi di buttarlo: guardateli, gli alberi! Mentre siete incolonnati in autostrada, mentre andate all’aeroporto, mentre ascoltate il telegiornale blaterare di bond e di spread e fuori dalla finestra i platani dei giardini pubblici stanno schiattando. Guardateli e provate a immaginare, come in una fiaba, che il vostro destino, o quello del vostro bambino, sia legato alla sopravvivenza di quegli alberi davanti a voi. Le fiabe non servivano ad altro che ad insegnare la vita. …Al confine delle terre degli avi, là dove un sentiero sale, scavato dalle piogge, stanno tre pini uno in disparte e gli altri due vicini e qui quando passavo a cavallo al chiar di luna, il familiare fruscio delle loro chiome mi salutava. Proprio su quel sentiero sono passato ora e li ho rivisti. Sempre gli stessi, sempre il noto fruscìo ma intorno alle ormai vecchie radici (dove un tempo era tutto vuoto e nudo) ora un boschetto nuovo s’infittisce. Verde famiglia, i pini novelli si affollano sotto il loro riparo, come bimbi… Benvenuta, nuova generazione! Di certo io non vedrò la tua possente tarda età, quando sarai cresciuta più alta dei miei vecchi amici, nascondendo il loro vecchio capo agli occhi del viandante. Ma forse un mio nipote udrà il vostro stormire di saluto, ritornando da un incontro con gli amici, colmo di lieti e graditi pensieri. Passerà accanto a voi nel buio della notte e si ricorderà di me. A.S. Puskin
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