http://www.altreconomia.it L’ultima chiamata per la Terra L’Onu torna a Rio de Janeiro per parlare di ambiente, con sette temi in agenda. Complice la crisi, “Rio+20” è un summit decisivo “Le conseguenze dell’inazione” è Il titolo dell’ultimo rapporto Ocse sull’ambiente, ma anche un messaggio inequivocabile a vent’anni dalla prima Conferenza Onu su ambiente e sviluppo e in vista del Summit in programma a giugno a Rio de Janeiro, in Brasile. “Rio+20”, che si prepara in questo scenario, per le Nazioni Unite è il tentativo di riattivare una comunità internazionale ai limiti dello sfinimento, presa da una crisi economico-finanziaria che sta assumendo i contorni di una crisi sociale e dal rischio di fallimento degli Stati sovrani. Il percorso di avvicinamento al Summit ha previsto una serie di procedure formali-informali di coinvolgimento della “società civile”, dalle delegazioni governative alle organizzazioni non governative ai portatori d’interesse organizzati in diversi “Major Groups”, ognuno dei quali è stato coinvolto nel processo di confronto e di redazione del documento negoziale. È lo “zero draft”, un testo su cui si svolge -in questi mesi- il confronto verso Rio. Se la prime bozza è stata definita dai più di “basso profilo” o di scarsa ambizione, anche le successive rischiano di lasciare nel vago il reale obiettivo della Conferenza, che dovrebbe dotarsi di una bussola più precisa e di mappe più sincere, se l’obiettivo fosse quello di cambiare rotta. Sono una decina i settori chiave d’intervento, ma al centro del contendere ci saranno la governance globale e la Green Economy. La prima perché un sistema globalizzato senza un adeguato sistema di gestione e controllo è destinato ad aumentare i problemi, piuttosto che a risolverli. Oggi solamente istituzioni come l’Organizzazione mondiale del commercio, grazie al suo tribunale interno, e il Fondo monetario internazionale, grazie al suo potere di concedere o meno prestiti, sono in grado di condizionare le politiche dei Governi. Il sistema delle Nazioni Unite, con le sue organizzazioni dalle armi spuntate, come l’Organizzazione mondiale del lavoro, o con la sua pletora di programmi come l’Unep, focalizzato sull’ambiente ma senza una struttura consolidata, nulla può davanti alle scelte autonome dei singoli Paesi. Se si riuscirà ad ottenere un’Organizzazione mondiale dell’ambiente, trasformando l’Unep da programma a vera agenzia specializzata, ciò dipenderà da come virerà l’ago della bilancia tra i cento e passa Paesi che lo sostengono e i big player che appaiono freddi se non decisamente contrari. I “grandi inquinatori” come Stati Uniti d’America e Cina sono anche i grandi attori sullo scenario multilaterale, assieme alle nuove potenze emergenti come il Brasile e l’India, Paesi che erano semplici comparse ai tempi del vertice del ‘92 e oggi rappresentano il profilo della nuova globalizzazione, non tanto dissimile, come modello di sviluppo, da quella old-style. Forse, o quasi certamente, di colore diverso se consideriamo che la Green economy è la nuova frontiera cui Rio vorrebbe muovere l’umanità. “Ecocompatibilità” e “sostenibilità” sono i nuovi mantra. Anche se i concetti sono ridimensionati a processi meno inquinanti, a produzioni meno energivore e a una maggiore attenzione alle emissioni. Ma quello che non si mette in discussione è il paradigma della crescita, neppure davanti all’evidenza della sempre minore disponibilità delle risorse naturali. Come se la fede nella tecnologia, e nei mercati, ci permetta di non considerare che gli ecosistemi, e soprattutto la biosfera e l’atmosfera, stanno raggiungendo punti di non ritorno (detti “tipping point”), che potrebbero trasformare il Pianeta in senso quasi irreversibile. E anche se si arriverà a Rio de Janeiro con una prospettiva di progressivo abbandono del petrolio, ciò avviene solo perché il greggio è oggetto di manovre speculative ed è in mano a Paesi poco inclini a soddisfare le esigenze dei Paesi industrializzati. Molte potenze si orientano così su nuovi combustibili come i gas da scisti o le sabbie bituminose. Poco sostenibili dal punto di vista ecologico, ma molto convenienti a livello economico e geopolitico, come insegnano Usa e Canada. In questo scenario preoccupante, nessuno tocca la centralità dei mercati e la loro liberalizzazione, attraverso i negoziati Wto e -laddove non sia possibile a causa dello stallo sui tavoli multilaterali- attraverso accordi bilaterali. La Green economy che emerge è ancora quella neoliberista, dove l’ecocompatibilità è più un vantaggio competitivo che una vera politica. E non è un caso che Major Groups come quello dei popoli indigeni o dei movimenti contadini abbiano voluto contrapporre alla Green economy le loro “green economies”, fatte di mercati locali, economie ecologiche e sovranità alimentare.
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