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Acqua: l'oro blu del mondo
scatena conflitti e liberalizzazioni Di cosa parliamo quando parliamo dell’acqua? In primo luogo di uno dei diritti dell’uomo più importanti e riconosciuti. L’assemblea generale dell’Onu ha stabilito, il 28 luglio 2010, che l’accesso a un’acqua «di qualità» è per l’appunto uno dei diritti dell’uomo. Ciò nonostante, se si esamina la situazione a livello mondiale, non c’è di che essere troppo ottimisti. Certo, dalle statistiche dell’Onu arriva un dato positivo. Fra il 1990 e oggi si è dimezzato il numero di persone che a livello mondiale non beneficiano di alcuna fonte di acqua potabile: sarebbero ora fra 800 milioni e un miliardo, poco meno di 1 su 7 abitanti della Terra. Tuttavia, queste cifre sono oggetto di discussione per varie ragioni: per esempio, perché avere dell’acqua potabile non comporta avere un rubinetto da cui esca; o perché la qualità di quell’acqua può essere molto variabile, e non è detto che non siano presenti in essa agenti portatori delle cosiddette «malattie idriche». Le quali ultime (vari tipi di diarrea, colera, tifo, epatiti, legionellosi) sono la principale causa di morte nel mondo per bambini e giovani (così come le malattie cardiovascolari in età avanzata). Calcoli meno ottimisti di quelli qui sopra riportati parlano addirittura di metà della popolazione mondiale che non ha accesso a fonti di acqua potabile esenti da malattie. Negli ultimi anni, a nutrire visioni pessimistiche del problema contribuisce sempre più la consapevolezza che la disponibilità di acque dolci cresce a un tasso decisamente inferiore a quello della popolazione. È un elemento negativo, questo, cui se ne aggiungono altri: per esempio, gli effetti del mutamento climatico, come la siccità e la desertificazione; o l’aumento della richiesta di energia (e dell’uso di acqua per ottenerla), in conseguenza della crescita demografica e dello sviluppo produttivo non solo e non tanto nei tradizionali Paesi avanzati, ma soprattutto in quelli emergenti. Ma torniamo alla domanda iniziale: di cosa parliamo quando parliamo dell’acqua? Abbiamo già cominciato a dirlo: in primo luogo, dell’acqua come diritto, dell’accesso all’acqua, dei rischi derivanti dalla sua penuria, con variazioni da regione a regione, ma anche stagionali. E accanto ai rischi da penuria, quelli da eccesso, da sovrabbondanza temporanea, imprevedibile o colpevolmente trascurata: alluvioni, tsunami, disastri di ogni tipo. Quanto ai nostri Paesi europei si discute soprattutto di liberalizzazioni, di gestione privata o pubblica dell’acqua. Esiste anche una geopolitica dell’acqua, di particolare intensità in alcune regioni del mondo: al punto che alcuni studiosi ritengono che questo secolo potrebbe essere caratterizzato soprattutto dalle guerre per l’acqua. Facciamo alcuni esempi. Dovremmo forse partire proprio dalla penuria di acqua nell’Africa Subsahariana: un problema che, se associato a quello delle malattie e alla crescita inevitabile di una richiesta di maggior benessere, potrebbe determinare situazioni esplosive in buona parte del continente. La questione arabo-israeliana fa i conti fin dagli inizi con le difficoltà dell’approvvigionamento idrico in un’area particolarmente arida. Le acque provengono soprattutto dal Lago di Tiberiade e dal bacino del Giordano, ma anche da alcuni affluenti che scendono dalle Alture del Golan. Basterebbero questi pochi elementi per capire le complicazioni geopolitiche: dai rapporti tra Israele e Siria a quelli di una suddivisione equilibrata delle forniture (oggi è ben lontana dall’esserlo) fra israeliani e palestinesi. Ma il problema delle acque è quanto mai importante in tutto il Medio Oriente. Basti citare il caso dell’Eufrate, dal quale l’Iraq trae (grazie anche a una serie di dighe) buona parte del suo fabbisogno in acqua e in energia idroelettrica. Ma l’Eufrate (come pure il Tigri) nasce in Turchia, e la Turchia ha in parte progettato, in parte già realizzato un sistema di dighe destinate a migliorare le coltivazioni di una parte dell’Anatolia, suscitando comprensibili timori nei paesi a valle, e cioè nello stesso Iraq e in Siria. La storia del Lago d’Aral è un esempio sconvolgente di ciò che possono produrre scelte errate (per non dire suicide) di natura geopolitica, ma anche economica e ambientale. Ancora una quarantina d’anni fa era indicato come il quarto lago del mondo, superato solo dal mar Caspio, dal lago Superiore e dal lago Vittoria. La sua superficie era di 66.500 chilometri quadrati. Oggi, nella classifica mondiale dei laghi, occupa il 31° posto, essendosi la sua superficie ridotta a 5.000 chilometri quadrati. Quello che era un tempo il suo più importante porto peschereccio, Aralsk, dista ormai dalle rive del lago una trentina di chilometri. La fauna acquatica è scomparsa e al posto di buona parte del lago c’è un deserto di sale, che i venti trasportano fino nell’Artide. Alle origini del fenomeno c’è la scelta del governo zarista, e poi soprattutto di quello sovietico, di fare della regione (oggi divisa fra Kazakistan e Uzbekistan) una gigantesca distesa di piantagioni di cotone. E poiché si trattava di una regione arida, si costruirono grandi canali d’irrigazione che sottraevano acqua all’Amu Darya e al Syr Darya: di fatto, al Lago d’Aral, del quale i due fiumi erano immissari. Così cominciò la riduzione del lago. Questo prezzo non fu sufficiente per risolvere il problema dell’irrigazione e proteggere le coltivazioni di cotone. Si elaborarono nuovi progetti, costosissimi ed ecologicamente pericolosi, come la deviazione dei grandi fiumi siberiani, o l’accelerazione artificiale dello scioglimento dei ghiacciai del Pamir. Il Cremlino ha frenato questi progetti nella seconda metà degli anni Ottanta, ma già Putin aveva accennato a riprenderli nel 2002, imitato di recente dal presidente-tiranno kazako Nursultan Nazarbayev. Le acque del Nilo con i suoi due rami (Nilo Bianco e Nilo Azzurro), interessano, dalla nascita al delta, sette Paesi, la qual cosa pone complicati problemi di distribuzione delle acque (che provengono per l’85% dall’Etiopia). Non a caso è stato necessario regolarli mediante convenzioni fra l’Egitto e gli altri Paesi, periodicamente ridiscusse e rinnovate. Di recente, il problema ha conosciuto nuove complicazioni: le crisi politiche che hanno attraversato l’Egitto, e che hanno comportato anche un suo indebolimento a livello diplomatico; un elevato tasso di crescita dell’Etiopia, indotta anche da questo a rivendicare un importante ruolo politico nella regione, che comprende il progetto di una grande diga sul Nilo Azzurro, e la conseguente ambizione ad essere il maggior fornitore di energia per i Paesi vicini; e ancora, la nascita del nuovo stato del Sud Sudan. Da qui, la ricerca non facile di nuovi equilibri tali da coinvolgere l’intera Africa del nord e centro-orientale. Ma è l’Hindu Kush e l’Himalaya la regione del mondo più gravemente minacciata dalla possibilità di conflitti a causa dell’acqua, la regione che unisce una parte della Cina (soprattutto il Tibet) alle regioni settentrionali del Pakistan e dell’India. Anche qui si tratta prevalentemente di conflitti reali o potenziali legati all’altitudine. Due dei tre grandi fiumi del subcontinente indiano, l’Indo e il Brahmaputra, nascono nel Tibet, così come molti altri fiumi minori. Questo spiega come l’India sia preoccupata dalla costruzione da parte dei cinesi di dighe o di canali che sottrarrebbero acque al Brahmaputra per incanalarle verso le regioni aride della Cina del nord. A parti invertite, analoghe iniziative dell’India (per la costruzione di dighe o di serbatoi sul Brahmaputra e sul Gange) alimentano preoccupazioni e ostilità nel Nepal e nel Bangladesh. Qui è l’India ad essere «a monte» e non più «a valle». E qualcosa di analogo accade più a ovest tra India e Pakistan, grazie agli affluenti dell’Indo che attraversano il Kashmir. Ma in questo caso, l’uso dell’acqua non è che uno degli elementi di un conflitto che affonda le sue radici molto più in profondità.
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