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Il vescovo di Tunisi: non gettate a mare la nostra speranza State attenti: se la crisi in Libia non si risolve alla svelta, l’Italia sarà letteralmente invasa. Per questo, oltre a tifare per una rapida uscita di scena di Muhammar Gheddafi contro cui il 29 marzo Usa, Francia e Gran Bretagna hanno annunciato la possibilità di armare massicciamente i ribelli è necessario che l’Italia rispetti i tunisini che si ammassano a Lampedusa: sono “profughi della fame”, spiazzati dal disordine esploso nel loro paese che ha comunque assistito alle frontiere 120.000 persone in fuga dalla Libia. A parlare è l’arcivescovo di Tunisi, portavoce dei 30.000 cattolici liberi di professare la loro fede in Tunisia: per favore, non rigettate a mare chi oggi chiede aiuto e ha bisogno di tempo per risollevarsi. Le parole di monsignor Maroun Elias Lahham risuonano direttamente dalla Sicilia, «l’unica regione “quasi araba” che non ha mai mosso guerra a Israele». Ai siciliani, l’arcivescovo chiede di «avere spirito di accoglienza, aspettando che la situazione si tranquillizzi e che i tunisini si sentano un po’ più sicuri: dopo la rivoluzione di gennaio, in Tunisia l’economia è al punto zero. Solo il turismo dà lavoro a mezzo milione di persone, soprattutto ai giovani che quindi, in questo momento, vivono nella disperazione». Il prelato, racconta la “Gazzetta del Sud”, auspica che il «virus della democrazia infetti l’intera Africa» e invita la Sicilia a «non aver paura degli immigrati», tantomeno quelli tunisini: un paese di 10 milioni di abitanti, il larghissima maggioranza musulmani, dove vige la piena libertà di culto. Ma le «rivoluzioni per la democrazia», puntualizza monsignor Lahham, «vanno sostenute: non c’è nessun paese arabo che abbia vissuto un regime democratico» e, per l’arcivescovo Lahham, «è motivo d’orgoglio che la Tunisia sia in tal senso un laboratorio: questo non deve lasciare nessuno indifferente, né l’Europa né l’America, né l’Africa». L’alto prelato esorta inoltre l’Occidente a far sì che la guerra avviata in Libia «per i diritti civili» venga condotta in modo tale da non creare le condizioni perché si scateni una «nuova jihad». Un timore concreto, perché «in Libia s’è presa un’altra strada rispetto alle rivoluzioni pacifiche di Tunisia ed Egitto, Gheddafi ha impugnato le armi contro il suo popolo e l’Europa sta conducendo attacchi militari. Non so se sia questa la migliore soluzione». L’arcivescovo di Tunisi poi si sofferma su ciò che ha scatenato la “rivoluzione dei gelsomini”, che dato il via alla grande rivolta araba tuttora in corso: «La famiglia di Ben Alì ha accumulato nel complesso il 40% delle ricchezze del paese, una situazione inaccettabile». Ogni impresa, e quelle italiane impegnate in Tunisia sono migliaia, è stata «costretta a versare per decenni una “mancia” del 20% alla famiglia di Ben Ali sull’importo dei lavori», racconta Lahham. «Nei primi giorni della rivolta, uomini e donne chiedevano pane e lavoro; dal terzo in poi, le rivendicazioni sono state spostate sul piano dei dei diritti civili», contro il presidente-dittatore “inventato” dall’Italia e sostenuto dall’Europa, Francia in primis. La Tunisia, insiste l’arcivescovo, è «l’unico paese arabo che riconosce libertà di culto e di coscienza: una popolazione giovane e colta, che evidentemente non poteva tollerare ancora l’oppressione di un regime nel quale influenza enorme aveva la moglie di Ben Ali, Leila Trabelsi». I due, dopo la perdita del potere, si sono separati: Ben Ali oggi vive in Arabia Saudita, la moglie a Dubai. Il 25 luglio, ricorda la “Gazzetta del Sud”, si vota per l’Assemblea costituente: i partiti ammessi al voto hanno dovuto sottoscrivere un documento in cui si riconoscono i valori della democrazia, la libertà di culto e i diritti delle donne. Alla fazione islamica si dà un consenso presunto compreso tra il 10 e il 12%: «Non c’è ragione per temere sbocchi terroristici in Europa», conclude l’arcivescovo di Tunisi. |