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Lunedì, 10 Ottobre 2011

Vestite di bianco
di Nella Condorelli

Quando nel 2002 Leymah Roberta Gbowee, premio Nobel per la Pace 2011,  fonda la Women of Liberia Mass Action For Peace, il suo Paese, la Liberia, piccolo stato sulla costa occidentale dell’Africa sub-sahariana, è preda di una guerra civile tra opposte fazioni che, a fasi alterne, dura da circa quindici anni. A Monrovia, la capitale fondata quasi due secoli prima (era il 1822) dalla American Colonization Society,- società statunitense che pensa a questo lembo di costa coperta da foreste di mongrovia come ad una colonia perfetta per trasferirvi gli schiavi neri emancipati -,  Leyman, femminista e pacifista, avvocata e assistente sociale, è una figura nota. Da quando è iniziata la seconda guerra civile, e poi l’assedio della capitale, gira senza sosta tra i quartieri distrutti, cerca gli orfani tra le case sventrate. Occhi di bambini e bambine laceri, affamati, senza famiglia e senza casa, piccole vittime della guerra degli adulti, le restituiscono sguardi spaventati e ostili. Tra loro c’è anche chi si porta dietro il segno di rapimenti feroci, i fratelli e le sorelle dei tanti bambini-soldato stuprati, costretti a combattere sul confine della Sierra Leone. 
E’ un giorno qualunque di prima mattina, e si odono gli spari di guerra, quando tra le bancarelle del mercato del pesce, nel quartiere di Waterside, di fronte al grande porto cittadino, là dove si affolla il distretto dei più poveri, un gruppetto di donne arrivato in silenzio si mette improvvisamente a cantare e a pregare. 
Sono le donne liberiane per la Pace, le Women of Liberia Mass Action For Peace si legge nei cartelli che portano addosso, e in testa c’è lei, Leyman Roberta Gbowee; chiedono tregua alle fazioni in lotta, chiedono l’accordo e la fine della guerra civile, la pacificazione del Paese, elezioni democratiche, ricostruzione e futuro per le famiglie e i figli. 
Quando arriva cantando con le altre al mercato del pesce, Leyman è già da tempo un’attivista dei diritti civili; conosce perfettamente l’elaborazione femminile africana e internazionale nell’ambito del contrasto ai conflitti armati e nella ricostruzione post-bellica, è consapevole della forza che le donne possono esprimere per arrivare alla pace, sa che il pacifismo femminista ai quattro angoli del mondo idealmente sostiene la sua lotta. 
Per lei, il senso delle donne verso il futuro si autodetermina nel corpo femminile che contiene il materno, là dove la specificità identitaria arriva a imporre azioni differenti.  
 
In poche settimane, la pressione sociale della Women of Liberia Mass Action For Peace, le attiviste vestite di bianco, diventa un’uragano, coinvolge donne di diversa professione di fede,  cristiane e musulmane; di giorno cantano e pregano insieme, di notte impongono a mariti e amanti lo sciopero del sesso, lo adottano e lo praticano come altrettante Lisistrate dell’antica Grecia, strategia contro la guerra, azione di lotta non violenta. 
La protesta si impone nel Paese, è la prima volta che si vedono cristiane e musulmane sfilare insieme, unite, - con Leyman ci sono Etweda “Sugar” Cooper, Vaiba Flomo, Asatu Bah Kenneth, Etti Weah, Janet Johnson Bryant, solo per fare qualche nome -, mentre veglie per la pace coinvolgono insieme moschee e chiese. 
Un documentario del 2008, “Pray the devil back to hell”, premio best documentary al Tribeca Film Festival di New York, ricostruisce la cronaca di quella lotta e ospita le loro voci: “No more war.” It was the first time in the whole history of Liberia that Christians and Muslims were coming together. Era la prima volta in tutta la storia della Liberia che cristiani e musulmani marciavano insieme. Sotto il sole caldo e la pioggia battente, migliaia di donne cristiane e musulmane sedevamo fianco a fianco, tenendo sit-in quotidiani sul campo d'aviazione di Monrovia. They wore sackcloth and ashes to represent their dedication to peace and held signs that proclaimed messages for peace. Indossavamo un sacco bianco e cenere per rappresentare la nostra dedizione alla lotta per la pace, ma il presidente President Charles Taylor was determined that nobody would be allowed in the streets “to embarrass [his] administration” and sent armed men with rattans to beat the women. Taylor stabili che nessuno era autorizzato "a mettere in imbarazzo la [sua] amministrazione",  e inviò uomini armati di rattan per picchiarci. Invano, nessuna si arrese…”.

La Women of Liberia Mass Action For Peace riuscirà ad ottenere un incontro con Charles Taylor,  presidente in carica e uno dei protagonisti primari dei quindici anni di guerra civile, e gli chiederà il cessate il fuoco e negoziati di pace. Taylor, che per farla sgombrare è arrivato ad offrire 5.000,00 dollari ottenendo in cambio un solenne rifiuto, “il denaro non compra la pace”, sarà costretto a capitolare. Si avviano negoziati di pace.
2003. Una delegazione di donne con Leymah Roberta Gbowee in testa arriva ad Accra, capitale del Gana, dove i previsti colloqui stanno languendo e inscena una protesta silenziosa davanti al Palazzo presidenziale: è la molla che determinerà l’accordo tra le fazioni e la fine della guerra civile liberiana. 
E’ la chiave di volta che porterà alle elezioni del 2005, ed alla prima presidente donna del Paese e dell’intero continente africano, Ellen Johnson Sirleaf. 

Chissà a cosa avrà pensato, Leymah Roberta Gbowee quando, venerdi 7 ottobre, ha appreso di aver ricevuto con la stessa presidente Sirleaf, e con l’attivista yemenita Tawakkol Karmanm, il Premio Nobel per la Pace 2011. Forse al suo compagno di lotta Comfort Freeman, luterano come lei, il primo uomo che l’ha seguita nella protesta di Monrovia, oppure alle parole della Dichiarazione d’intenti con cui la Women in Peacebuilding Network (WIPNET), la Rete emersa da quella prima azione non violenta, continua a sfidare il potere patriarcale rivendicando il ruolo delle donne nella risoluzione del conflitto e nella gestione della ricostruzione: “In passato siamo state in silenzio, ma dopo essere state uccise, violentate, disumanizzate, contagiate da malattie insopportabili, e guardando ai nostri figli e alle famiglie distrutte…, la guerra ci ha insegnato che il futuro sta nel dire No alla violenza e Si alla pace! A non cedere sino a quando la pace non prevarrà.”. 
Oggi, Leyman Roberta Gbowee, che negli anni successivi alla fine del conflitto è stata  designata alla Commissione Verità e Riconciliazione della Liberia, continua nella sua attività a favore della pace, dalla parte della società civile delle donne. E’ direttrice esecutiva del Women in Peacebuilding Network, con sede ad Accra, e l’organizzazione si è espansa nell’Africa occidentale dove opera nella prevenzione e fine dei conflitti armati. Un tema oggetto delle numerose Risoluzioni dell’Onu che rafforzano anche il diritto delle donne alla gestione della ricostruzione post-bellica con interventi mirati alla differenza di genere. 

A Monrovia, l’azione della storica Women of Liberia Mass Action For Peace risuona nel palazzo presidenziale con il governo della presidente Ellen Johnson Sirleaf,arrivata alla presidenza sull’onda di quella protesta, e anch’essa Premio Nobel per la Pace 2011.  
Economista di primo piano, Master of Public Administration presso l'Università Harvard nel 1971, Johnson-Sirleaf ha conosciuto negli anni Ottanta l’esilio politico e la prigione. Riparata a Washington, da dove è tornata nel 1997 con incarichi di top-management nell’organico africano della Banca Mondiale e della Citibank, è stata eletta presidente della Liberia nel 2005, con una votazione che nessuno ha mai sospettato di brogli. 
73 anni, quattro figli e molti nipoti che vivono tra gli Stati uniti e la Liberia, Ellen Johnson Sirleaf ha messo al primo posto nella scala delle priorità del suo governo la pacificazione del Paese e la sua ricostruzione. La commissione per la Verità e la Giustizia creata con l’obiettivo di valutare i crimini di guerra commessi e confessati, al tempo commissaria designata Leyman Roberta Gbowee, non prevede la pena di morte, proprio perché la giustizia prevalga sulla vendetta. 
Un modo di governare nel segno della differenza femminile che il Premio Nobel per la Pace concesso ad entrambe sancisce, riconoscendo nella loro azione la lotta per i diritti civili di tutte le donne dei Paesi in via di sviluppo.    

Lontano da Monrovia, nella Sana’a capitale dello Yemen, Tawakkol Karmanm, giornalista, animatrice della protesta democratica contro il regime del presidente Saleh che, da mesi, vede in piazza migliaia di persone, donne e uomini, con centinaia di vittime, è la terza Premio Nobel per la Pace 2011, e la prima donna araba di ogni tempo insignita di questo riconoscimento.   
Di Sana’ e delle sue donne ho un ricordo preciso, e Tawakkol si inquadra in esso senza sbavature. Era la primavera del 1997, e lo Yemen si apprestava ad andare a votare per le legislative. Arrivai a Sana’a con una delegazione dell‘Unesco di Parigi, con a capo l’allora responsabile, l’algerina Wassila Tamzali, e giuristi del calibro di Nourredine Saadi, per partecipare ad un colloquio con le donne e le associazioni femminili yemenite dal titolo preciso, “ Donne e rappresentanza politica.”.  
Era la stagione pre-monsonica, Sana’a ci accolse con un cielo che già s’incupiva all’improvviso rovesciando lenzuoli di pioggia fitta. Con le docenti dell’Università della capitale, velate e con il viso scoperto (a differenza delle saudite), secondo la moda islamica in uso anche nella regione iraniana, parlammo di elezioni e di liste elettorali, di uguaglianza, di rappresentanza e di democrazia paritaria,  di diritto musulmano e diritti delle donne, di femminismo islamico e femminismo laico, di occidente e oriente. 
C’era, tra loro, una giovane donna all’epoca appena nominata ministra della Comunicazione, ci parlò dell’avanzata delle yemenite, dei limiti e delle difficoltà nella richiesta di politiche di parità. 
Andai con lei a seguire per strada la campagna elettorale al femminile; appiccicammo piccoli cartelli formato A4 con lo slogan “La forza è delle donne” sui muri della case-torri della medina, con le pareti cieche delle stanze delle donne, e le cascate di preziosi merletti di pietra sui vetri ricamati delle finestre dell’ultimo piano, sù nel majliss, il salotto della conversazione degli uomini, nello spazio separato e aperto di loro dominio. Bottegai e passanti per lo più ci ignoravano. 
Di quelle giorni a Sana’a e nelle aree rurali dell’altipiano ho molti ricordi; ricordo per esempio le bambine dei villaggi aggrappate alle vesti di uomini più che adulti, credevamo fossero i padri, invece erano i mariti; ricordo l’anziana che per strada tirò fuori un bastone tutto nodi e si mise a picchiare di brutto l’ometto piccolo e frastornato che sino ad un  attimo prima le camminava ruminando a fianco e che, poi, si mise a correre a zig zag cercando di evitare i colpi di lei che correva più forte. Ricordo i pomeriggi molli con gli uomini in conversazioni interminabili, le donne dei quartieri ricchi sontuosamente abbigliate in casa, le cene, i fumi, i profumi, le musica, i poemi e le danze frenetiche; ricordo i quartieri poveri e le donne frettolose serrate sotto mantelli consumati dagli anni; ricordo Asma e le sua storia. Ripudiata dal marito, madre di un bambino di quattro anni, “custode pro tempore” del figlio: “il padre se lo riprenderà a sette anni,- si lamentava -, è la legge, ma io voglio stare con mio figlio, non voglio perderlo, questa norma è ingiusta, sta scritta solo nel dominio degli uomini, chi mi aiuta?”. 
Penso che questo Premio Nobel per la Pace 2011, tutto al femminile da ovest ad est, fornisca alle donne del mondo un puntello e uno stimolo in più sul cammino del riconoscimento dei diritti che, o sono per tutte e tutti o non sono veramente per nessuna e nessuno. E’ sempre una questione universale.

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