Tratto da La Nonviolenza è in Cammino
Marco Ambrosini e Marco Graziotti Intervistano Angela Dogliotti Marasso
Angela Dogliotti Marasso, rappresentante autorevolissima del Movimento Internazionale della Riconciliazione e del Movimento Nonviolento, svolge attivita' di ricerca e formazione presso il Centro studi "Sereno Regis" di Torino e fa parte della Commissione di educazione alla pace dell'International peace research association; studiosa e testimone, educatrice e formatrice, e' una delle figure piu' nitide della nonviolenza in Italia. Tra le sue opere segnaliamo particolarmente Aggressivita' e violenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino; il saggio su Domenico Sereno Regis, in AA. VV., Le periferie della memoria, Anppia - Movimento Nonviolento, Torino-Verona 1999; con Maria Chiara Tropea, La mia storia, la tua storia, il nostro futuro, Edizioni Gruppo Abele, Torino 2003; Con Elena Camino (a cura di), Il conflitto: rischio e opportunita', Edizioni Qualevita, Torre dei Nolfi (Aq) 2004. Un'ampia intervista ad Angela Dogliotti Marasso e' nelle "Notizie minime della nonviolenza in cammino" n. 220; un'altra intervista e' nei "Telegrammi della nonviolenza in cammino" n. 345
- Marco Ambrosini e Marco Graziotti: Nella storia del Novecento la nonviolenza ha caratterizzato importanti esperienze, dalle lotte condotte da Gandhi dapprima in Sudafrica e successivamente in India, alle esperienze di resistenza nonviolenta contro il nazifascismo, alle lotte di Martin Luther King contro il razzismo, fino alla lotta di Aung San Suu Kyi. Come definirebbe e descriverebbe il contributo della nonviolenza alla storia degli ultimi cento anni? A questo si aggiunga che la riflessione nonviolenta si e' intrecciata con varie tradizioni del pensiero politico, ha apportato contributi fondamentali, ed ha costituito e costituisce una delle esperienze maggiori della filosofia politica odierna. Come definirebbe e descriverebbe il contributo della nonviolenza al pensiero politico?
- Angela Dogliotti Marasso: La storia degli ultimi cento anni ha visto l'emergere di un paradigma di azione e di cambiamento sociale che gia' era comparso in altre sporadiche occasioni nei secoli passati, ma che nel corso del Novecento ha visto la sua piena attuazione. E' il metodo satyagraha teorizzato e sperimentato da Gandhi, prima in Sudafrica e poi in India.
Vale la pena soffermarsi dunque ad analizzare nel concreto alcuni aspetti della strategia di lotta gandhiana, prendendo in esame il caso della marcia del sale del 1930.
Il testo che segue e' tratto da un mio articolo "Noncollaborazione e resistenza civile: analisi di casi storici", pubblicato nel testo Difendere, difendersi: rapporto 2005, a cura dell'"Osservatorio sui sistemi d'arma, la guerra e la difesa" e del Cisp dell'Universita' di Pisa (Plus, Pisa 2007).
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Il caso indiano
Per comprendere lo straordinario processo di disobbedienza civile che Gandhi realizza con la marcia del sale nel 1930 e' necessario richiamare, seppur schematicamente, alcuni elementi di contesto (1).
Per riuscire a controllare l'immenso sub-continente indiano, passato direttamente alla Corona britannica dalla Compagnia delle Indie orientali (la regina Vittoria e' proclamata Imperatrice delle Indie nel 1877), i colonizzatori inglesi devono trovare il modo di superare la grande sproporzione tra il loro esiguo numero e la grande massa degli Indiani.
Gli Inglesi cercano di realizzare questo obiettivo puntando su tre elementi:
- la frammentazione e la passivita' delle masse;
- la collaborazione dell'aristocrazia terriera e delle classi medie occidentalizzate, cui viene affidata parte dell'amministrazione territoriale;
- un sistema di controllo basato sulla politica "del bastone e della carota" e su quella del "divide et impera" (sfruttando a proprio vantaggio le molteplici divisioni di lingua, di casta, di religione, di posizioni politiche e cosi' via...).
In questo contesto nasce un movimento nazionale indiano composito ma guidato dalle componenti moderate ed occidentalizzate, nel quale, al suo rientro dal Sudafrica, si inserisce Gandhi, operando una svolta fondamentale che trasformera' il nazionalismo indiano in movimento di massa.
Gandhi comprende infatti che il punto critico per gli Inglesi e favorevole per gli Indiani e' proprio questa sproporzione quantitativa: "Come possono centomila Britannici controllare piu' di 350 milioni di Indiani? Il sistema funziona per l'acquiescenza degli Indiani. Se smettiamo di fare tutto quello che vogliono come possono cavarsela?" (2). E ancora: "Non ce l'hanno presa loro (l'India), siamo noi che gliel'abbiamo consegnata" (3).
Cio' che Gandhi vuole sottrarre e' il consenso indiano a un governo straniero, recidere il legame di collaborazione dei dirigenti locali indiani che gli Inglesi utilizzano per realizzare il loro sistema di controllo dell'India e attivare il potere dei villaggi indiani.
Nell'ambito del Congresso, la componente politica radicale di Bal Gangadhar Tilak aveva gia' da tempo espresso posizioni analoghe, nel tentativo di mobilitare le masse e sottrarre il consenso alla dominazione inglese. Cosi' si era infatti espresso Tilak nel 1902: "Sebbene oppressi e dimenticati, dovete essere consapevoli del vostro potere di rendere impossibile il controllo britannico se solo decidete di agire in tal senso... Siete voi che mandate avanti le ferrovie e il telegrafo, siete voi che stipulate accordi e raccogliete le imposte" (4).
Ma per Gandhi la politica di non-cooperazione si fonda su una visione ancora piu' profonda del cambiamento. Egli e' convinto infatti che l'indipendenza non possa essere intesa solamente come un nuovo status politico, ma richieda profonde trasformazioni dal basso delle radici stesse della societa' indiana, realizzabili solo attraverso una vasta e capillare azione nonviolenta.
Per lui swaraj comporta un risveglio in ogni settore della vita, che deve iniziare dalla presa di coscienza di ogni singola persona. Presuppone unita' tra le caste e le comunita' religiose, amore per tutto cio' che e' indiano e profondi cambiamenti nell'amministrazione locale, nell'educazione, nell'igiene pubblica, nella condizione delle donne, cosi' come riforme sociali nel senso di una piu' equa redistribuzione economica delle risorse, in primo luogo della terra.
Per sperimentare questo modello di vita e renderlo concretamente visibile a tutti fonda comunita' di persone disponibili ad accogliere questi principi nel proprio stile di vita. Sono gli ashram gandhiani, punti di forza della lotta nonviolenta; uno dei piu' importanti e' quello di Ahmedabad, l'ashram Sabarmati, da cui partira' la marcia del sale.
Le prime azioni politiche significative di Gandhi stesso nel processo di lotta per l'indipendenza sono azioni di disobbedienza civile e di non-collaborazione. Il suo primo satyagraha in India, infatti, e' il rifiuto di lasciare il distretto di Champaran, nel Bihar, dove si era recato nel 1917 per condurre un'inchiesta sulle condizioni dei contadini, pesantemente sfruttati. All'ingiunzione delle autorita' locali di lasciare la regione, rifiuta di obbedire ed e' citato in giudizio, vincendo la causa in tribunale. A questa prima azione seguiranno gli scioperi a sostegno dei lavoratori tessili di Ahmedabad, e l'organizzazione dell'auto-riduzione delle imposte da parte dei contadini del Kheda, in seguito agli scarsi raccolti del 1917.
La non-collaborazione diventa cosi' una nuova strategia complessiva di lotta per l'indipendenza che, attraverso la mobilitazione delle masse e insieme agli altri elementi della politica gandhiana (conquista del Partito del Congresso, ricerca dell'alleanza indo-musulmana, programma costruttivo) portera' l'India al raggiungimento del suo obiettivo.
Una delle forme di non-collaborazione e' il boicottaggio dei tessuti e delle merci straniere. Simbolo di questa lotta ed emblema dello swadeshi (self-reliance, autosufficienza) e' l'uso del kadi, il vestito di filato di cotone locale, che diventa l'uniforme dei satyagrahi e di tutti gli Indiani coinvolti nella lotta (importanza dei simboli!).
Queste azioni simboleggiavano il profondo cambiamento causato dal movimento gandhiano: le persone riconoscevano la propria responsabilita' per il male che cercavano di cambiare e quindi cambiando se stesse erano in grado di cambiare la loro situazione (5).
Ma il culmine della strategia gandhiana e' la marcia del sale. Essa esemplifica in modo emblematico le tappe e le caratteristiche di una lotta nonviolenta di massa. Vediamone i passaggi essenziali.
- L'avvertimento. All'inizio del marzo 1930 Gandhi scrive al vicere' Irwing per comunicargli la sua decisione di contestare la tassa sul sale, presa come simbolo del potere britannico, con un atto di disobbedienza civile: andare sulla costa a produrre sale illegalmente infrangendo il monopolio inglese e invitando tutti gli Indiani a fare altrettanto;
- il piano di sviluppo dell'azione. Gandhi traccia un itinerario di circa 400 km, dall'ashram Sabarmati di Ahmedabad a Dandi, sulla costa, cercando un coinvolgimento di popolo e un crescendo graduale che non faccia precipitare le cose con gli Inglesi (ricerca dell'unita' al di la' delle differenze; gradualita');
- la presenza della stampa straniera: serve per coinvolgere delle terze parti esterne (opinione pubblica occidentale, in particolare) e portarle dalla propria parte;
- l'azione simbolica (raccolta di una manciata di sale), che diventa azione di disobbedienza civile di massa, espressione della determinazione al raggiungimento dell'indipendenza da parte di un intero popolo;
- l'uso politico della repressione subita. Gli arresti, le brutalita', la repressione, accettate come parte della lotta, vengono usate come un boomerang e si ritorcono contro chi le esercita: "Volevamo dimostrare tutta la brutalita' e la ferocia del governo e ci siamo riusciti; ... se un'autorita' si crogiola nel suo potere e si scontra con una disobbedienza diffusa, il suo potere si svuota" (6);
- la coercizione nonviolenta al negoziato. La lotta si estende, il commercio inglese cala del 25%, tre negozi di tessuti stranieri su quattro chiudono. Nel febbraio del 1931 il primo ministro britannico Ramsey McDonald e' costretto al negoziato, e ordina il rilascio di Gandhi e dei dirigenti della resistenza. Gandhi interrompe la disobbedienza civile rimandando a successivi incontri, a Londra, le questioni costituzionali.
"L'azione nonviolenta non era riuscita a cacciare gli Inglesi nel 1930-'31, e non aveva funzionato come Gandhi aveva sperato, ma aveva funzionato. La sofferenza di coloro che avevano messo in atto la protesta non aveva cambiato la mente degli Inglesi, ma aveva cambiato la mente degli Indiani verso gli Inglesi. Per decine di milioni di Indiani la lotta satyagraha e i suoi risultati avevano trasformato la cooperazione con il raj da una fortuna a una empieta'. Il vecchio ordine, nel quale il controllo britannico si reggeva sull'acquiescenza indiana si era definitivamente sfaldato..." (7).
L'India resta sotto dominio britannico, ma la marcia del sale ha posto fine alla pretesa legittimita' di tale dominio. Essa ha permesso agli Indiani di diverse regioni, classi e provenienze religiose di stabilire una forte unita' di azione e ha risvegliato in loro la consapevolezza del proprio potere. In questo modo ha impresso una svolta, un punto di non ritorno al processo di indipendenza, che giungera' a compimento sedici anni dopo, nel 1947.
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Se la marcia del sale ben rappresenta il modello di lotta nonviolenta praticato da Gandhi, ancor piu' sorprendente e' analizzare un altro caso di resistenza civile, quello del salvataggio degli ebrei danesi durante l'occupazione nazista, che si sviluppa come movimento spontaneo, al di fuori di ogni teorizzazione, e poi confrontare i due casi (anche questa parte e' tratta dall'articolo di cui sopra).
Il caso danese
Quando il 9 aprile 1940 i Tedeschi invadono la piccola Danimarca, essi si presentano come "protettori" e alleati del governo danese contro il "pericolo" di invasione inglese, e promettono di non interferire con la vita politica interna, sperando, in tal modo, di non incontrare opposizione all'occupazione.
Il re e il governo decidono di accettare lo stato di fatto per evitare danni maggiori al paese e alla popolazione. L'obiettivo di questa prima fase e' "riuscire a sopravvivere" e a mantenere la sovranita' danese, seppur sotto occupazione nazista. Ma ben presto la politica di cooperazione, attuata dal governo come male minore, viene avvertita come insufficiente dai gruppi piu' attivi della societa' civile. Essi danno inizio ad azioni di resistenza, come quelle esemplificate nel volantino redatto da un giovane studente diciassettenne, Arne Sejr, il Decalogo del buon danese, che esprime una chiara insofferenza per l'occupazione tedesca e invita ad atti concreti di resistenza antinazista.
Tra la popolazione si diffondono rapidamente comportamenti di presa di distanza dalle truppe di occupazione ("tattica della spalla fredda", cioe' ignorare i tedeschi, farli sentire isolati, indesiderati...), si organizzano cori tradizionali danesi in concomitanza con i concerti della banda militare tedesca; i Danesi si riuniscono nei parchi cittadini per cantare inni nazionali e per acclamare al re, come simbolo della propria identita' e fondamento delle proprie istituzioni indipendenti.
La resistenza cresce e si organizza nel corso del 1941, per rispondere alla pretesa nazista di coinvolgere la Danimarca nella guerra a fianco dei Tedeschi, inviando soldati danesi sul fronte orientale. Si formano gruppi di sabotatori, si diffonde la stampa clandestina, si organizzano scioperi e manifestazioni: e' la resistenza civile aperta, che pone il governo danese guidato da Scavenius in un dilemma sempre piu' insostenibile. Se reprime la resistenza si delegittima rispetto al proprio popolo, se non lo fa si mette contro i Tedeschi.
La svolta avviene il 28 agosto 1943, quando, di fronte all'ultimatum tedesco che impone al governo la proclamazione dello stato di emergenza, Scavenius si dimette, e i Tedeschi assumono il controllo diretto della Danimarca. La politica di cooperazione non e' ormai piu' possibile, e non c'e' piu' spazio per un "cuscinetto" costituito dal governo danese tra la popolazione e i nazisti occupanti.
E' a questo punto che avviene una delle manifestazioni piu' straordinarie della resistenza civile europea. Quando, alla fine del settembre 1943, il plenipotenziario tedesco Best ordina l'arresto di tutti gli Ebrei presenti in Danimarca, tutta la societa' danese si mobilita e riesce ad impedire la retata, prevista per il primo ottobre, nascondendo gli Ebrei ovunque: nelle case private, negli ospedali, nelle ambulanze, nelle cantine...
"La notizia [che gli Ebrei dovevano essere nascosti] si diffuse con la velocita' della luce, grazie anche a molti Danesi non Ebrei. Il guidatore di ambulanze Jorgen Knudsen cerco' nelle guide telefoniche gli indirizzi di famiglie con nomi ebrei. Poi ando' a prenderli con la sua ambulanza e porto' all'ospedale o nelle case dei medici attivi nella resistenza quelli che non avevano posto dove nascondersi. Altri Ebrei furono avvicinati per la strada da sconosciuti che offrivano loro le chiavi delle loro case..." (8).
"Gli Ebrei danesi erano scomparsi dietro il muro vivente innalzato dal popolo danese nello spazio di una notte" scrive Leni Yahil, professore di storia ebraica moderna all'Universita' di Haifa (9).
Il salvataggio degli Ebrei galvanizza i Danesi e rafforza la loro resistenza. Si diffondono proteste nelle Universita', si leggono lettere dai pulpiti delle chiese e, di fronte all'ordine tedesco che il 2 ottobre intima di consegnare gli Ebrei all'autorita', si formano gruppi di cittadini che ne organizzano la fuga verso la Svezia, su piccole barche di pescatori.
Dei 7.695 Ebrei presenti nel paese, ben 7.220 riescono a sottrarsi alla cattura e a mettersi in salvo; solo 475 sono arrestati.
L'obiettivo nazista della "soluzione finale" per gli Ebrei, in Danimarca fallisce clamorosamente.
A proposito di queste vicende, Hannah Arendt, scrivera': "La storia degli Ebrei danesi e' una storia sui generis, e il comportamento della popolazione e del governo danese non trova riscontro in nessun altro paese d'Europa... Su questa storia si dovrebbero tenere lezioni obbligatorie in tutte le universita' ove vi sia una facolta' di scienze politiche, per dare un'idea della potenza enorme della nonviolenza e della resistenza passiva, anche se l'avversario e' violento e dispone di mezzi infinitamente superiori" (10).
Il Consiglio della Liberta', nato nel settembre 1943 per coordinare le azioni di resistenza, si era conquistato il riconoscimento di "governo di fatto" della nazione. Rivolgendosi al popolo danese, il Consiglio sottolinea in un suo documento il valore e l'importanza primaria della resistenza nonviolenta, che, a differenza di quella in armi, e' accessibile a tutti i cittadini e in cio' trova la sua forza e la sua efficacia.
Negli ultimi mesi del '44 e nei primi del '45 la lotta diventa sempre piu' dura, con manifestazioni di massa come i due minuti di silenzio a mezzogiorno durante i quali tutta Copenhagen si ferma; il blocco delle ferrovie per impedire il trasporto di prigionieri danesi in Germania; gli scioperi, come quello in risposta all'arresto dei diecimila poliziotti danesi, fino al primo maggio 1945, giorno della Liberazione.
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Elementi di confronto tre i due casi
Il confronto tra i due casi presi in esame e' interessante perche' consente di individuare sia aspetti comuni nella strategia di lotta, sia elementi diversi o complementari.
Se in entrambe le situazioni si possono riconoscere alcune caratteristiche tipiche di una lotta di resistenza nonviolenta come l'uso di simboli, le forme di protesta e di noncollaborazione, diversificate in relazione al contesto, ma uguali nell'intento di svuotare il potere dell'occupante, emergono anche alcune differenze interessanti, che arricchiscono il quadro delle tipologie di resistenza.
Si puo' cercare di elencare alcuni punti di confronto.
1. La diversa struttura della leadership resistente e dell'organizzazione. Nel caso dell'India c'e' un leader carismatico, Gandhi, che si muove in modo organizzato e strategicamente preparato, anche sulla base di una teoria del conflitto e di una cultura di nonviolenza specifiche. Nel caso della Danimarca c'e' invece una leadership diffusa che sorge in modo spontaneo e decentrato e solo in un secondo tempo si coordina, si organizza e trova un riferimento unitario e centralizzato nel Consiglio della Liberta'.
2. La natura della coesione resistente. In India l'unita' e' fortemente centrata sul leader carismatico, che riesce momentaneamente a superare le profonde divisioni interne, senza peraltro riuscire a risolverle (la nascita del Pakistan e' espressione della piu' profonda, forse, di queste: quella tra Indu' e Musulmani). In Danimarca, i tre cerchi della resistenza civile (11), quello delle istituzioni, della resistenza attiva dal basso e della complicita' passiva, realizzano una coesione sociale che diventa inespugnabile, anche per un esercito come quello nazista. L'identita' nazionale e una forte coscienza civile hanno in cio' un ruolo essenziale, che sopperisce anche alla mancanza di preparazione iniziale.
3. Le motivazioni della lotta. In India la motivazione alla lotta e' anticoloniale e da cio' scaturisce una presa di coscienza della propria forza e della necessita' di rivendicare la propria indipendenza politica, di contare sulle proprie forze, sviluppando le risorse interne e la struttura economico sociale fondata sul villaggio, cuore profondo dell'India. In Danimarca si inserisce nella lotta contro l'occupante un elemento nuovo: la protezione verso una parte distinta della societa' danese costituita dalla sua popolazione ebraica o dagli Ebrei che in essa si erano rifugiati. Qui l'elemento che scatta e' la solidarieta' verso il debole, il perseguitato, da sottrarre alla barbarie dell'invasore, anche quando e' straniero. E' in questo presente un elemento culturale rilevante: l'assenza di antisemitismo e in generale la scarsa presa delle teorie razziste sulla maggioranza della societa' civile danese.
4. La presenza di terze parti. In entrambi i casi giocano un ruolo importante delle terze parti. In India sono soprattutto giornalisti stranieri, operai e partiti inglesi, anche persone singole che appartengono al campo avverso, come l'inglese Mirabel, figlia di un alto militare, che sposa la causa indiana e diventa collaboratrice di Gandhi. In Danimarca, tra le terze parti interne c'e' anche un addetto all'ambasciata tedesca, stretto confidente di Best, Georg Duckwitz, che opponendosi alla cattura degli Ebrei perche' teme che possa pregiudicare ulteriormente le relazioni tedesco-danesi, rivela i piani di Best ad un politico socialdemocratico danese suo amico, sollecitandolo ad agire.
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Considerazioni conclusive
In entrambi i casi qui brevemente esaminati, la forza della resistenza nonviolenta costringe un avversario, assai piu' potente e militarmente attrezzato, a venire a patti o a rinunciare ad un proprio obiettivo.
In entrambi i casi l'avversario e' portato fuori dal terreno a lui congeniale, quello dello scontro militare diretto, e' spiazzato da un approccio indiretto e asimmetrico, che non punta a contrapporre una forza dello stesso tipo, ma a sbilanciare l'avversario piu' forte svuotandone il potere dall'interno. Sia in India che in Danimarca partecipano alle azioni di disobbedienza civile e di resistenza grandi masse, ma diversi episodi dipendono dalle scelte personali di singoli.
Nella dinamica della lotta si cerca di rompere il fronte avversario, di evitare le polarizzazioni (Gandhi sottolinea piu' volte che non e' contro gli Inglesi, ma contro l'occupazione britannica dell'India: i cittadini del Regno Unito saranno sempre i benvenuti in un paese indipendente).
Combinando la disciplina nella lotta con la solidarieta' e la resistenza, l'azione nonviolenta rende esplicita la repressione e la usa a proprio favore per spostare il rapporto di forza: la nonviolenza fa in modo che la repressione funzioni come un boomerang che si ritorce contro chi la compie, sottraendogli consenso. E' lo sbilanciamento che Gene Sharp chiama ju-jitsu politico (12).
Esso smuove le terze parti e le induce a schierarsi a favore del gruppo di protesta, crea dissenso nel campo dei sostenitori, rendendolo meno compatto, mentre consolida il gruppo di protesta, realizzando in tal modo uno spostamento di potere a favore della dissidenza.
L'astenersi dalla violenza, l'evitare di umiliare l'avversario, il compiere sacrifici palesi per la causa, sono atteggiamenti che possono mettere in crisi l'avversario, rendendo possibile un cambiamento.
In sintesi, presupposti fondamentali per organizzare una lotta nonviolenta sono dunque la liberazione dalla paura, l'accettazione della sofferenza, il rifiuto di odiare, distinguendo la persona dal problema, la consapevolezza di possedere una forza, diversa dalla violenza, da cui deriva un potere che si puo' usare per sbilanciare l'avversario, recidendo le fonti su cui si basa il suo dominio.
Sia in India, sia in Danimarca questi presupposti erano in vario modo presenti e sono stati alla base del successo dei rispettivi movimenti di resistenza nonviolenta; essi rimangono come un esempio della capacita' della nonviolenza di incidere nella lotta politica, in maniera efficace e significativa.