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Chi ce lo fa fare Gino, chi ce lo fa fare? «Potrei dare duecento risposte. La tua, direttore?». Una sola: me l’ha chiesto la famiglia Strada e non potevo dire di no. E adesso, qualcuna delle tue duecento. «La rabbia, la delusione, il vedere lo schifo che è l’Italia, la voglia di reagire, la voglia di avere qualche piccolo sogno, qualche speranza piccola piccola, alle cose grosse ormai non credo più. Almeno, smettere di essere inerti». Concordo sulla piccola speranza. Tu vedi uno spazio? «Non so se ci sia ancora uno spazio, una possibilità di recupero per un discorso culturale. Forse abbiamo aspettato troppo tempo e dire che l’Italia s’è imbarbarita è come offendere i barbari». Cultura è una parola che fa paura. «Almeno ci proviamo». Adesso proviamo a definire il nostro mensile con due aggettivi. Comincio io. Ricordo che per il tuo primo libro, Pappagalli verdi, avevo usato due aggettivi, caldo e asciutto, che ti erano piaciuti, anche se potevano sembrare la réclame di un pannolino. Per il giornale, dico utile e bello. Utili i contenuti, belle le immagini ma anche la scrittura e prima ancora la pulizia della scrittura. Vorrei un giornale in cui tutti scrivono qual è senza apostrofo, in cui non si sbagliano le parole straniere, in cui c’è la stessa cura dei testi, dal grande reportage al piccolo box. «Aggiungo un altro aggettivo: intelligente. L’intelligenza non è una qualità innata, la si coltiva. Quindi io vorrei un giornale che si facesse leggere, che facesse riscoprire il piacere della lettura e dell’informazione». Emergency fin qui ha svolto un certo tipo di lavoro e ora si affida alla carta stampata. Ammetterai che è una posizione di minoranza, perché sulla carta stampata non punta più nessuno. «Non sono un esperto di mercato e ammetto che è una posizione di minoranza. Credo però che la crisi della carta stampata non dipenda né dalla carta né dalla stampa, ma da quello che c’è scritto. Se si riesce a fare un giornale bello, utile e intelligente non è poca cosa, in un Paese in cui l’80 per cento degli abitanti e il 140 per cento dei politici ignora il congiuntivo». La trasmissione di Fazio in cui Saviano monologa per tre quarti d’ora sui rifiuti a Napoli o sui preti coraggiosi in Calabria, cioè una tv anti-tv, l’hanno seguita nove milioni e più di italiani. Viene il sospetto che ci sia qualcosa di più d’una nicchia per un giornale fatto come il nostro, sospetto unito alla certezza che esiste un’altra Italia che non si ritrova né sulle prime né sulle ventiduesime pagine dei giornali. «C’è sicuramente un’altra Italia non intossicata dall’informazione di regime. L’opera di distruzione è stata lunga, sistematica e, ahimé, molto efficace. Ma continuano a esistere persone perbene, coscienze vive che credono in una civiltà che riconosce, su un terreno comune, diritti comuni a tutti gli esseri umani. È quello che abbiamo scritto nel cosiddetto ‘manifesto di Firenze’, indicando il mondo che vogliamo. Ma anche l’Italia che vogliamo. Da ragazzo davo per scontate la persistenza di valori fondanti, la direzione che avrebbero scelto il mondo e l’Italia. Mi sbagliavo. E ho nostalgia di quei valori, e li vorrei ben vivi nel mondo che abiterà mio nipote Leone, che ha un anno, e i bambini come lui». Penso che molto dipenda dalla progressiva scomparsa della classe operaia, che molto badava alla cultura e ai valori, e sapeva trasmetterli. Si era felici di includere, non fieri di escludere. Uguaglianza era una parola molto diffusa. Lo dico pensando a Sesto San Giovanni, dove siete nati tu e Teresa. «Ricordo i discorsi dei miei genitori, a tavola: “Dobbiamo muoverci a pagare la bolletta della luce, sennò cosa dice la gente?”. Qualcosa si è rotto. Se poi un ministro va in tv a dire “evadere le tasse, che male c’è?”, qualcosa ancora si rompe». Nei confronti dei valori, come l’onestà, c’è stata la stagione dell’indifferenza, ma adesso siamo all’irrisione aperta. «Guarda quello lì, crede nell’onestà: bel pirla». «Non si insegna il bello della diversità, del fare il bene, dell’aiuto agli altri. E non c’è da stupirsene, in un Paese governato da uno sporcaccione e con un Parlamento pieno di delinquenti condannati, di papponi, di soubrette. Sarebbe strano il contrario. Ecco perché non si può restare a guardare». |