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1 novembre 2011

Al-Qaeda, la Penisola Araba e la rivolta yemenita
di Ludovico Carlino

Mentre il caos continua ad imperversare nello Yemen, un altro attore sta gradualmente cercando di emergere nella rivolta contro il regime di Ali Abdullah Saleh. Al-Qaeda nella Penisola Araba (AQAP), estensione territoriale del network qaedista nello Yemen sembra attualmente aver cambiato strategia iniziando a presentarsi come parte integrante della primavera araba nel paese.

Nelle prime fasi della rivolta, il movimento di protesta pacifico e guidato prevalentemente dalla gioventù yemenita grazie alle sue istanze democratiche aveva in un certo senso marginalizzato la retorica jihadista e violenta dell’AQAP.

L’organizzazione era già presente in diverse aree dello Yemen ben prima dell’esplosione del movimento di protesta, con basi concentrate principalmente nei governatorati di Abyan, nel sud, Marib e Shabwan ad est della capitale Sana’a, e cellule sparse a nord nelle regioni dominate dagli Zaiditi, Jawf e Sa’da.

Tuttavia tra il marzo ed il giugno di quest’anno, mentre le proteste aumentavano di intensità e le tensioni incrementavano la debolezza del Governo centrale, l’AQAP è riuscita a capitalizzare a proprio favore la situazione di incertezza estendendo la propria influenza ancora più a sud ed ad sst, nella aree di Hadramawt e Aden.

Alla fine di maggio l’organizzazione è arrivata a sottrarre al controllo di Sana’a la stessa capitale della provincia di Aden, Zinjibar, riuscendo ad allontanare dalla città diverse divisioni dell’esercito yemenita che da allora continuano a scontrarsi con i militanti approfondendo ulteriormente la crisi del paese.

Diversi osservatori hanno segnalato come la decisione del Presidente Saleh di ritirare parte dell’esercito dal sud per richiamarlo a difesa di Sana’a, abbia contribuito a questi sviluppi. Altri hanno suggerito come la mossa di Saleh sia stata in realtà uno stratagemma, una consegna volontaria del sud agli islamisti nel tentativo di amplificare la minaccia di al-Qaeda e spingere l’Occidente a reiterare il proprio supporto a favore del suo regime.

La verità, come spesso accade, sta nel mezzo. Quella della minaccia jihadista è stata più volte una carta utile da giocare per i regimi autocratici del Medio Oriente per attirare gli aiuti dell’Occidente, ed il caso dello Yemen non rappresenta un’eccezione.

Gli Stati Uniti hanno versato lo scorso anno nelle casse del paese circa 82 milioni di dollari in aiuti militari, mentre quelli destinati allo sviluppo si sono limitati a 20, denaro che non ha fatto altro che finanziare incessantemente la macchina repressiva del regime di Saleh.

Per contro lo Yemen continua ad essere il Paese più povero del Medio Oriente, la sua popolazione è costretta ad affrontare la cronica mancanza di servizi, la disoccupazione è al 40% (una cifra seconda nell’area solo alla Striscia di Gaza) ma la percentuale del PIL nazionale dedicato alle spese militari lo pone al settimo posto nel mondo. Questo non vuol dire ridimensionare la minaccia di al-Qaeda nella Penisola Araba, ma semplicemente contestualizzarla in un quadro come quello yemenita che si presta a molteplici contraddizioni.

Saleh ha ancora una volta tentato di giocare la carta al-Qaeda per mantenere salda la sua posizione al potere, ma questa volta il suo tentativo di “bluff”, diversamente dal passato, non gli ha garantito alcun beneficio.

La repressione del suo regime sembra al contrario aver fatto il gioco dell’AQAP che, per voce di uno dei suoi più importanti operativi, lo Sheikh Fahad al-Quso comandante dei mujaheddin ad Abyan, sta “combattendo per difendere la popolazione yemenita da un Governo che uccide innocenti e distrugge raccolti e bestiame”.

Al-Quso, intervistato dal giornalista yemenita Abdulzaeaq al-Jammal, ha sottolineato che l’AQAP non aveva altra scelta se non prendere le armi contro il governo di Sana’a, aggiungendo che i mujaheddin “sono parte integrante del viaggio intrapreso dalla popolazione yemenita verso la dignità e la libertà sotto la bandiera dell’Islam”.

Il tentativo dell’AQAP di strumentalizzare la rivolta yemenita per i propri obiettivi è andato ad ogni modo ben oltre la retorica. Il gruppo sta operando per presentare la propria ideologia agli yemeniti, soprattutto quelli del sud, come un’alternativa concreta al regime di Saleh, governando le aree sotto il proprio controllo mediante la sharia.

Adottando uno schema ben lontano dalle modalità operative di al-Qaeda, l’AQAP avrebbe anche iniziato a fornire servizi pubblici come la gestione della giustizia e la distribuzione di acqua e cibo in aree dove inefficienza e povertà sono generalmente associate alla corruzione ed alla prepotenza del governo centrale di San’a. In questo contesto l’attività militante del gruppo continua del resto a rimanere preponderante.

Nel sud del paese gli scontri tra islamisti e forze di sicurezza yemenite continuano ad un ritmo quasi quotidiano. Lo scorso 28 di ottobre il capo dell’antiterrorismo della città di Aden è rimasto vittima di un attentato con un’autobomba. La morte del maggiore Ali al-Haji sembra essere parte di une recente ondata di assassinii mirati contro funzionari del governo, una dinamica che incrementa i timori di una possibile avanzata verso Aden dei militanti dalle proprie basi di Zinjibar, aggravando la già instabile situazione del sud dove anche il movimento secessionista opera sempre più in chiave anti-Saleh.

Il quadro yemenita appare quindi sempre più complesso, conseguenza del fatto che le forze destabilizzatrici nel paese continuano a moltiplicarsi. Nel caso specifico dell’AQAP la risposta violenta del regime di Saleh nei confronti del movimento di protesta pacifico appare al momento uno dei principali fattori in grado di ridare spinta al messaggio qaedista che mira a presentarsi come difensore contro la repressione governativa.

 

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