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19 giugno 2011

Siria, continua la rivolta contro il regime
di Enrica Garzilli

In Siria sta accadendo una vera e propria insurrezione armata contro il regime del presidente Bashar Assad sostenuta più o meno apertamente da Stati Uniti, Europa e Turchia. La portavoce del Dipartimento di Stato americano Victoria Nuland ha dichiarato: “Abbiamo iniziato a estendere i contatti con tutti quei siriani dentro e fuori il paese che chiedono il cambiamento.” Ha anche ribadito che il presidente Barack Obama si è rivolto ad Assad perché inizi le riforme oppure si dimetta dal potere. Venerdì scorso la Turchia ha esortato Assad ad attuare delle riforme radicali e a interrompere immediatamente l’azione repressive contro gli insorti.

Il centro dell’insurrezione siriana si è spostato dalla capitale alla piccola città di frontiera di Jisr al-Shughour, circa 44.000 abitanti a 10 chilometri del confine con al Turchia. Gruppi di insorti armati hanno valicato il confine, probabilmente supportati dai militari e dai servizi segreti turchi. Pare che non si sia trattato di un movimento di ribelli civili. La popolazione locale si è trovata presa fra due fuochi, quello dei ribelli armati e quello delle forze governative leali ad Assad. Il governo turco appoggia infatti i gruppi di dissidenti siriani in esilio, che a loro volta sostengono l’insurrezione armata. Lungo il confine vi sono anche gruppi di dissidenti rifugiati che cercano di passare in Turchia. Secondo la Reuters già 10.114 persone sono riuscite a oltrepassare il confine, mentre 10.000 sono accampate ai confini del territorio siriano.

Sabato truppe leali ad Assad e uomini armati hanno fatto irruzione a Jisr al-Shughour, bruciando case e arrestando decine di persone. L’assalto è seguito a un altro venerdì di protesta, quando decine di migliaia di persone hanno manifestato in diverse città del paese, sfidando la repressione del governo e ignorando la promessa di Rami Makhlouf di rinunciare al suo impero commerciale per donare tutto in beneficienza. Makhlouf è un cugino materno di Bashar Assad ed è considerato dal popolo un simbolo di corruzione dell’elite al potere. Degli attivisti riportano che durante la protesta di venerdì le forze governative hanno ucciso almeno 19 dimostranti.

“Sono arrivati alle 7 di mattina con 9 carri armati, 10 camion, 20 jeep e 10 autobus. Ho visto i tiratori di Assad dare fuoco a due case”, ha detto Saria Hammouda, un avvocato che vive a Bdama, la cittadina al confine della regione di Jisr al-Shughour dove si sono rifugiati migliaia di siriani dopo l’incursione dell’esercito. Bdama è un punto nevralgico per la distribuzione di cibo e rifornimenti alle migliaia di siriani fuggiti dalle cittadine di frontiera che hanno cercato rifugio nelle campagne. Rami Abdulrahman, dell’Osservatorio siriano per i diritti umani, ha detto alla Reuters che i residenti di Bdama non osano portare cibo ai rifugiati. A loro volta i rifugiati hanno paura ad andare a cercarlo a Bdama. Le truppe governative danno anche fuoco ai campi di cereali, attuando una campagna che mira a fare letteralmente terra bruciata. La situazione si starebbe quindi trasformando in un’emergenza umanitaria.

A Damasco vi sono state anche manifestazioni di protesta a supporto del governo come quella del 15 giugno scorso, quando migliaia di dimostranti hanno sfilato nella strada principale della capitale reggendo uno striscione lungo 2,3 chilometri che rappresentava la bandiera siriana con il volto di Assad. Nonostante la natura autoritaria del regime, il presidente è una figura popolare, che ha ancora un largo sostegno da parte della popolazione siriana.

La Siria è retta da un’oligarchia autoritaria e corrotta che usa la forza per trattare con i cittadini. Le rivolte attuali hanno però una natura complessa. Non possono essere viste soltanto come una richiesta popolare di libertà e democrazia.

Secondo il generale in pensione Wesley K. Clark l’obiettivo degli Stati Uniti è da almeno dieci anni quello di destabilizzare la Siria, insieme all’Iraq, il Libano, la Libia, l’Iran, la Somalia e il Sudan, per attuare un cambio di regime realizzato attraverso il sostegno dell’insurrezione armata e della milizia islamica. I rapporti sulle vittime civili servirebbero da pretesto e da giustificazione per un intervento armato, seguendo il principio della “responsabilità di proteggere”, una nuova norma di sicurezza internazionale per prevenire, e se necessario fermare, i crimini di guerra, i crimini contro l’umanità, i genocidi e la pulizia etnica.

Il movimento di protesta di Daraa iniziato il 18 marzo scorso non sarebbe quindi solo genuinamente animato da cittadini e attivisti che richiedono maggiore libertà, democrazia e un freno alla ricca oligarchia al potere, ma anche da gruppi di infiltrati armati al soldo dello spionaggio occidentale e, forse, anche saudita. Lo scopo sarebbe quello di creare delle emergenze umanitarie per giustificare un intervento armato da parte dell’amministrazione statunitense e i suoi alleati.

Data la situazione di instabilità e il caos che regna in Siria, il Foreign and Commonwealth Office ha già allarmato i cittadini britannici perché lascino immediatamente il paese a causa delle dimostrazioni nelle città e delle truppe e i carri armati ammassati nell’area di Jisr al-Shughour. I britannici dovrebbero andarsene adesso che ancora funzionano le linee aree commerciali, perché se la situazione peggiorasse sarebbe “molto improbabile” che l’ambasciata a Damasco sarebbe in grado di aiutarli.

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