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il 21 nov 2011

Controrivoluzione e morte in piazza Tahrir
di Francesco Peloso

I numeri non lasciano spazio a dubbi: domenica 20 novembre in piazza Tahrir al Cairo, c’è stata una strage. E’ lo stesso governo a fornire i dati ufficiali di quanto è avvenuto. Secondo una nota del ministero della Sanità egiziano, infatti, le persone uccise sarebbero 20 e quelle ferite 425, ieri si era parlato prima di 3 poi di 4 morti, e via via nella mattinata di oggi il bilancio di sangue è stato aggiornato.

Il quadro è quello di uno scontro forse definitivo fra le forze del cambiamento che vogliono portare l’Egitto sulla faticosa strada della democrazia tenendo conto delle varie e complesse componenti della società egiziana – dai partiti islamici ai cristiani copti, dai movimenti liberali a quelli di sinistra – e un establishment militare e burocratico intenzionato a fermare tutto con ogni mezzo, per tornare al modello del passato regime, magari con il volto di qualche generale al posto di Hosni Mubarak. Il governo provvisorio ha confermato le elezioni legislative del prossimo 28 novembre, a questo punto, tuttavia, è in dubbio il loro stesso svolgimento. Se invece le consultazioni dovessero davvero tenersi fra una settimana, c’è da chiedersi in quale clima avverrà il processo elettorale, se la paura e il disordine preverranno sulla libertà.

Nel dicembre di un anno fa prendeva il via quel processo inaspettato e straordinario che andava sotto il nome di Primavera araba: iniziava la fine dei despoti che, con l’appoggio dell’Occidente in nome del sacro terrore di Al Qaeda, avevano governato col tallone di ferro i loro popoli abolendo ogni forma di rappresentanza, di libertà, di democrazia, di giustizia, di dibattito pubblico e civile. Intanto le carceri – da Tripoli a Tunisi, dal Cairo a Damasco, si riempivano di dissidenti di ogni colore e orientamento. Di nuovo, quando ha preso il via il processo ancora in corso, anche qui in Europa, in Italia, c’è chi ha rimpianto Ben Ali, Mubarak, altri difendono oggi Assad, magari perché al suo posto  – si insinua – possono arrivare gli estremisti islamici. Delle circa 3600 vittime del regime di Damasco solo negli ultimi mesi, delle violenze terribili sui bambini, come degli immigrati torturati in Libia, nessuno sembra più preoccuparsi.

Nel mondo arabo è l’ora della controrivoluzione che si gioca nelle piazze, con le armi degli eserciti e la repressione. Fermare tutto, è la parola d’ordine, prima che il contagio della rivolta tocchi La Meccca e Teheran. Lì entrerebbero in gioco gli equilibri energetici del Pianeta e nessuno, per ora, ha la voglia o il coraggio, di affrontare il tema di fondo della posta in gioco: interi popoli devono sottostare a violente e arretrate dittature per non sconvolgere patti di potere e accordi internazionali. Ma tutto è ormai sull’orlo del precipizio. Nel frattempo, però, qualcosa si muove. La stessa Lega araba ha chiesto in queste ore al governo egiziano impegni precisi e rapidi per una transizione che porti il Paese verso libere elezioni; i candidati alla presidenza chiedono giustizia dopo i fatti di piazza Tahrir. Sarà difficile, ora, rimettere a tacere le voci che, da un anno a questa parte, hanno cominciato a parlare senza paura nel nuovo Egitto.

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