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“Sceglieremo noi il prossimo Dalai Lama”
Nuovo affronto cinese alle tradizioni tibetane “Il prossimo Dalai Lama lo sceglieremo noi.” Questo il succo del discorso di Hong Lei, portavoce del ministro degli Esteri della Cina. “ll XIV Dalai Lama ha ricevuto il suo titolo dal governo della Repubblica cinese e designare il successore senza l’approvazione del governo cinese è illegale. Non si è mai verificato che un Dalai Lama nominasse il suo successore ha aggiunto Hong Lei la reincarnazione del Buddha vivente è una speciale forma di successione del buddhismo tibetano e la politica di libertà delle varie religioni osservata dalla Cina ovviamente include il rispetto e la protezione di questa forma di successione”. Le affermazioni del governo cinese sono l’arrabbiata reazione al discorso tenuto sabato scorso dal Dalai Lama Tenzin Gyatso all’11esima conferenza delle quattro maggiori scuole buddhiste e della tradizione Bon, la religione autoctona dell’ex Tibet antecedente al buddhismo, che si è tenuta il 22-24 settembre a Dharamsala, in India, sede del governo tibetano in esilio. Tenzin Gyatso ha affermato che “se viene deciso che la reincarnazione del Dalai Lama deve continuare e che c’è bisogno di riconoscere un 15esimo Dalai Lama, la responsabilità del procedimento sarà prima di tutto del Gaden Phodrang Trust. I suoi membri devono consultare i capi delle varie tradizioni del buddhismo tibetano e gli affidabili e giurati Protettori del Dharma (Protettori della Legge, ndr), che sono inseparabilmente legati alla tradizione dei Dalai Lama (la scuola Gelugpa, ndr). Devono ascoltare i consigli e la guida di quelli interessati e devono portare avanti la procedura e il riconoscimento, in accordo con la tradizione. Su questo lascerò chiare istruzioni scritte. Tenete a mente che, a parte la reincarnazione riconosciuta con questo metodo legittimo, non sarà né riconosciuto né accettato un candidato scelto da qualcuno per ragioni politiche, incluso da quelli nella Repubblica popolare cinese”. Ha anche ricordato che la reincarnazione è un fenomeno che ha luogo o attraverso la scelta volontaria della persona interessata come è noto il bambino in cui si è reincarnato il precedente Dalai Lama riconosce istintivamente gli oggetti personali appartenuti al suo predecessore o in base al suo karman, dei suoi meriti spirituali e delle preghiere. Quindi, solo la persona che si reincarna ha la legittima autorità di decidere dove e come lui o lei rinascerà e come deve essere riconosciuta la sua reincarnazione. “La realtà è che nessuno può forzare la persona in questione né può manipolarlo o manipolarla” e ha sottolineato che “è particolarmente inappropriato per i comunisti cinesi, che rigettano esplicitamente anche l’idea di vite passate e future, non parliamo poi del concetto dei Tulku (i reincarnati viventi, che hanno la facoltà di scegliere la loro prossima forma di reincarnazione, come i lama di alto status, ndr), immischiarsi nel sistema della reincarnazione e specialmente in quella dei Dalai Lama e dei Panchen Lama.” Riguardo al suo successore, il Dalai Lama ha affermato che quando avrà circa 90 anni si consulterà con i capi delle altre scuole, con il popolo tibetano e con i credenti e rivaluterà se l’istituzione del Dalai Lama deve continuare o no. Con un Panchen Lama designato dal governo cinese e non riconosciuto dalla popolazione tibetana, la separazione fra potere religioso e potere temporale e la successiva elezione del primo ministro laico Lobsang Sangay, non riconfermare l’istituzione del Dalai Lama sottrarrebbe ulteriori spazi di manovra sulla possibilità da parte della Cina di manipolare l’opinione pubblica tibetana sia nella Regione Autonoma del Tibet cinese, che copre gran parte della passata nazione indipendente del Tibet, sia dei circa 100.000 rifugiati che vivono a Dharamsala e in altre regioni dell’India e delle comunità che vivono in Nepal, in Bhutan e nel resto del mondo. Mentre la Cina tenta di affermare un nuovo “diritto”, quello di scegliere il prossimo Dalai Lama, la protesta dei monaci tibetani contro l’occupazione cinese non si ferma. Lunedì altri due monaci si sono dati fuoco. Il primo è Lobsang Kalsang, fratello minore del monaco Lobsang Phuntsok, che il 16 marzo scorso si è ucciso per protesta dandosi fuoco. L’altro si chiama Lobsang Kunchok. Entrambi appartenenti al monastero di Kirti, situato nella contea di Amdo Ngaba, nel Tibet orientale. Entrambi di 18 anni. Secondo fonti tibetane, a Kirti, assediato da marzo dalle forze dell’ordine cinesi, si contano anche molte sparizioni di monaci, a cui sono stati sentenziati lunghi periodi di carcere. I monaci sono stati anche obbligati dalle autorità cinesi a seguire incessanti sessioni politiche di rieducazione e negli ultimi cinque mesi sono stati tenuti praticamente prigionieri. Le linee telefoniche di Ngaba sono state interrotte. Il comunicato stampa dell’Amministrazione centrale tibetana ha dichiarato che “queste recenti serie di auto immolazioni attestano la disperazione del popolo tibetano, che nasce dalla spaventosa situazione in cui vive attualmente”.
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