Caro Gianmarco e cari collaboratori del Gruppo di Lavoro per lo Standard e l'Istituzionalizzazione del Tavolo: ”Interventi Civili di Pace” Ho letto con molta attenzione il vostro documento : “Proposta per la definizione di Profilo, Criteri e Standard per gli Interventi Civili di Pace Italiani” che ho trovato molto interessante e ben documentato ed organizzato. Ma c'è un punto che non mi convince e che mi auguro accettiate di modificare. Si tratta del vostro frequente uso (almeno tre volte, se non sbaglio, nel corso del documento) , del concetto di “equivicinanza”. E' un concetto che non mi convince molto fin da quando l'ho sentito pronunciare a Pristina da parte dei membri dell'Operazione Colomba e dei Beati Costruttori di Pace, a proposito del conflitto del Kossovo. Era il 10 dicembre del , durante la marcia “I care”, organizzata da queste organizzazione con l'aiuto della Campagna Kossovo di cui facevo parte, e per la quale era stato, per circa due anni, Ambasciatore di Pace a Pristina. Era l'incontro finale, alla quale hanno partecipato sia rappresentanti delle Nazioni Unite sia dei comitati per la difesa dei diritti umani di Pristina e di Belgrado, oltre al nostro caro amico Don Gierji Lush che presiedeva l'incontro. Parlare, in quel momento, di equivicinanza tra gli albanesi del Kossovo che erano occupati da anni da oltre 60.000 uomini armati, tra esercito, polizia e paramilitari (le famose tigri di Arkan che si erano macchiate di molti dei crimini più efferati), sembrò a me, ed agli amici dell'Università di Lecce che con noi avevano portato avanti ricerche in quella zona, un errore, un non tener conto dei reali equilibri di potere. In particolare vivendo in quella zona a lungo avevamo potuto constatare giorno per giorno i continui abusi di potere fatti dai serbi verso gli albanesi, dall'eliminazione del tutto incostituzionale delle autonomie statuali previste dalla costituzione del 1974, dal licenziamento di tutti i docenti di quella etnia e della occupazione da parte della minoranza serba di tutte o quasi tutte le strutture educative universitari e di altri livelli, tanto che gli albanesi erano costretti a fare scuola o in piccole parti di quelle strutture (tanto che i bambini delle elemetari avevano turni di scuola che duravano fino a sera) per le scuole elementari e medie, oppure in garage ed altre scrutture private , per i livelli di studio superiori. Ed oltre che gli insegnanti anche la maggior parte degli ex-dipendneti delle poste e di alotre strtture pubbliche era stata licenziata e non aveva diritto ad alcuna assistenza. Era un vero e proprio regime di “apartheid”. In quella condizione parlare di equivicinanza ci sembrava una assurdità. A me venivano in mente gli insegnamenti che ci aveva portato un quacchero inglese, Adam Curle, che aveva fondato uno dei più importanti dipartimenti di studi per la pace in Inghilterra (Bradford), che ha operato concretamente nella mediazione dei conflitti, sulla quale ha scritto molti libri fondamentali, e che è venuto varie volte alla nostra scuola estiva di nonviolenza (a San Gimignano) per insegnarci la mediazione dei conflitti. Lui ci fece capire che prima di mediare è fondamentale riequilibrare i conflitti, che una mediazione fatta senza il riequilibrio precedente dei rapporti di potere tra le due parti va sempre a favore del più forte. Come del resto è successo in Kossovo con la mediazione fatta dalla Comunità di Sant'Egidio che ha portato ad eliminare le sanzioni verso la Serbia ma che non ha risolto i problemi del Kossovo ma che,a nzi, ha contrinuito all'esplosione del conflitto armato. Ritornando al vostro documento questa insistenza sul ruolo degli operatori di pace come mediatori dei conflitti, e sul concetto di “equivicinanza”, e più tardi di “imparzialità”, messo quest'ultimo sempre accanto a quello che preferisco di “non partigianeria” (che non è una mia invenzione ma che viene da una riflessione delle PBI sul lavoro da loro svolto) come se questi due concetti fossero equivalenti rischia di trascurare il lavoro da fare nei conflitti squilibrati che, secondo me, sono molto più diffusi e frequenti di quelli equilibrati. Ci sono nel vostro documento accenni all'importanza di questo lavoro, soprattutto quando parlate dal lavoro da fare per la protezione e promozione dei diritti umani, e dell'importanza del lavoro di empowerment per la prevenzione dei conflitti etnici. Ma nel complesso dal documento sembra emergere la vostra preferenza per un lavoro in conflitti equilibrati, sottovalutando invece quello da fare nei tanti conflitti squilibrati che sono presenti al mondo. E' una scelta strategica la vostra per fare accettare più facilmente questo ruolo alle istituzioni che hanno sempre paura di un ruolo più attivo che invece di superare i conflitti sembra, almeno nella prima fase (quella dell'aiuto ai più deboli ad organizzarsi), un aiuto a farlo emergere, oppure no? Mi piacerebbe saperlo. Questo dibattito mi ricorda quello interno all'accademia sulla neutralità della ricerca. Anche in questo campo c'è un grande retorica sull'importanza di essere “neutrali” tanto da portarmi a scrivere nei miei testi di metodologia della ricerca per la pace (materia che ho insegnato per anni) che non è possibile essere neutrali tra chi opprime il suo popolo ed il popolo oppresso. In tal caso infatti , la neutralità è , in realtà, un appoggio all'oppressore. In conclusione, ad integrazione di quanto da me detto sull'equivicinanza vi accludo parte della mie conclusioni all'incontro di Pisa organizzato dai Berretti Bianchi, incontro al quale alcuni di voi hanno partecipato attivamente. 4) Quarta domanda: “Come operare in un conflitto sbilanciato tra vittime ed aggressori?” Le risposte a questa domanda hanno tenuto conto di quanto già detto che non sempre il confine tra queste due categorie è netto, e molto spesso succede che le vittime di prima diventino i carnefici di domani. Per evitare di essere responsabili delle angherie commesse dalle vittime di oggi che magari sono state aiutate da noi a superare il loro stato di soggezione, è importante tener presente le indicazioni della risposta precedente, e cioè di lavorare con le due parti in lotta tra loro aiutandole a creare un clima, definito di “mitigazione del conflitto”, nel quale le due parti, con l'aiuto di una terza che applichi il principio di “non ingerenza” e cerchi seriamente di aiutarle a trovare una soluzione accettabile per ambedue i contendenti, contribuisca anche ad individuare quelli che, nella teoria della trasformazione nonviolenta dei conflitti, si definiscono gli “obbiettivi sovraordinati”, quelli cioè che non possono essere raggiunti senza un accordo ed un lavoro comune delle due parti. Ma la mitigazione significa anche aiutare a far passare il conflitto dalla forma spesso cruenta e disastrosa attuale ad un confronto, sempre serrato, ma fatto attraverso le armi della nonviolenza. Ma questo richiede anche, se le due parti non conoscono ancora i principi ed i metodi della nonviolenza, di aiutarle a conoscerli e saperli usare. Questa impostazione è stata definita da molti come “equivicinanza” alle due parti in conflitto, proprio per l'attenzione data dall'operatore esterno a non farsi coinvolgere esso stesso nel conflitto e non diventarne parte. Ma la maggior parte dei conflitti attuali è tra attori squilibrati: uno di questi ha il potere ed è molto più attrezzato militarmente, l'altro non lo ha e subisce il dominio del primo (come spesso succede in paesi non democratici tra la cittadinanza ed i detentori del potere), oppure risponde in forme non convenzionali, con attentati, kamikaze o simili (poco costosi in termini monetari ma molto dannosi nei termini delle vite umane e della sicurezza delle persone). Le PBI, che sono intervenute in moltissimi conflitti di vario tipo, hanno elaborato un nuovo concetto che secondo me risponde meglio al lavoro necessario in queste situazioni, e cioè “la non partigianeria”. Il compito principale, nei conflitti squilibrati nei quali la mediazione e la ricerca di accordo va sempre a vantaggio del più forte, è quella di lavorare per riequilibrare il conflitto stesso, aiutando la parte più debole a prendere coscienza del conflitto stesso, ad organizzarsi ed a prepararsi all'azione nonviolenta con la quale confrontarsi con l'avversario da posizioni di parità e non di dipendenza. Si aiuta il più debole a riequilibrare il conflitto, ma quando questo è avvenuto ed i due avversari possono confrontarsi alla pari, si lascia al confronto l' esito dello stesso. In caso contrario si cadrebbe nell'errore di essere partigiani di una delle due parti. Ma come hanno sottolineato tutte le organizzazioni presenti per operare bene nella zona è necessaria una lunga preparazione dei volontari, sia per l'apprendimento della lingua, sia per la conoscenza del luogo e della sua cultura, sia anche infine per superare le proprie debolezze interne e rinforzarsi anche, e soprattutto, per superare le proprie paure quando ci si trova in una situazione difficile e complessa.” Alberto |