L'Unita del 3 Dicembre 2011
Diario da Durban - Occupy Earth contro i grandi inquinatori “Jikelele, jikelele”, circondiamo il mondo, circondiamo il mondo. Cantano le donne africane in lingua Zulu, mentre marciano per la giustizia ambientale. L’appuntamento è nello “speak corner” dinanzi alla sede ufficiale del COP17, nel cuore di Durban. Striscioni e manifesti con su scritto “occupy earth” riprendono lo slogan della protesta mondiale che con la sua onda di indignazione ha raggiunto i quattro angoli del globo. La contrapposizione è enorme tra il gigantesco Hotel Hilton che domina la conferenza ufficiale del COP17 e la piazza colorata dai canti e dalle rivendicazioni delle donne contadine. Si definiscono le guardiane dei semi, della Terra e della vita. Cantano e ballano perché è questa una delle forme di resistenza attiva. Emily, del “Land access moviment” il movimento per l’accesso alla terra, ci racconta come in realtà nelle parole di ogni loro canzone sia nascosto un messaggio di resistenza e speranza. Un’eredità dell’apartheid: “ci potete picchiare, arrestare, ammazzare, ma continueremo a lottare ed andare avanti per vincere”, questo gridavano ieri, questo ripetono incessanti oggi. Lo sfruttatore razzista del terzo millennio ha preso oggi le sembianze del modello di sviluppo che provoca il caos climatico e sociale. Nel frattempo all’interno del palazzo ufficiale va in scena la contrapposizione sulla quale rischia di rimanere impiccato il pianeta. I due temi al centro dello scontro sono l’accordo di Kyoto, in scadenza nel 2012, e la costituzione del Fondo Verde per le azioni di mitigazione, adattamento e compensazione dei danni ambientali. Sul primo punto da una parte ci sono i grandi inquinatori, Stati Uniti, Canada, Australia e Giappone, indisponibili ad un accordo di Kyoto bis con impegni vincolanti sulla riduzione delle emissioni; dall’altra i paesi più piccoli, raggruppati dal G77, ai quali si affiancano l’Europa ed il gigante Cina, disponibile a condizione che anche gli USA accettino i vincoli del trattato. Il fatto che senza un’azione radicale ed incisiva immediata come richiesto dalla scienza e dai movimenti la temperatura del pianeta salirebbe di oltre 4 gradi nei prossimi decenni e di due gradi a breve, con conseguenze catastrofiche, non sembra turbare più di tanto i negoziatori nella conferenza ufficiale. Sulla costituzione del Fondo Verde promesso al COP16 di Cancun, sembrano evaporare le promesse di Obama che intendeva stanziare 100 miliardi ogni anno sino al 2020 per far fronte alle catastrofiche conseguenze dei cambi climatici. Non c’è intesa sulla quantità di fondi e su chi li debba mettere, ma soprattutto c’è grande dissenso sul fatto di affidarli proprio alla Banca Mondiale, tra i principali responsabili della crisi economica e ambientale con i suoi prestiti alle grandi multinazionali estrattive e sulla politica miope verso le comunità locali. E poi c’è sempre la “crisi” con cui farsi scudo, qualora qualcuno ricordi gli impegni presi. È proprio vero che di crisi si può anche morire. Jikelele, jikelele, prima che sia tardi.
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