Cisgiordania, At-Tuwani Non Si Arrende La resistenza non violenta dei palestinesi di un villaggio poverissimo minacciato da anni dai coloni israeliani di Havat Maon. L'impegno dei volontari di Operazione Colomba At-Tuwani (Hebron), 19 luglio 2010, Nena News - Hamze, Sameha, Zeinab e Mohammed giocano con la nonna sul terrazzo di casa. La campagna di Hebron è bruciata dal sole. A pochi metri da loro, oltre la rete, un isolato boschetto di pini che di giorno fa un po’ meno paura. I fratellini Rabai lo tengono d’occhio, sanno che il bosco è pericoloso. Questa casa araba – 43 persone tra fratelli, mogli, figli e nipoti – è una delle più esposte alla violenza dei coloni nazional-religiosi di Ma’On e del suo avamposto Havat Ma’on, costruito tra i pini. Siamo nel villaggio palestinese di At-Tuwani in West Bank, un pugno di case color della roccia affogate nel sole. Fino a pochi anni fa i pastori vivevano nelle grotte. L’ultimo attacco violento risale allo scorso 12 giugno, era di shabbat. Una trentina di coloni israeliani dall’avamposto di Havat Ma’on, col viso coperto, armati di fionde e bastoni, raggiunta la casa araba più vicina, hanno aggredito donne e bambini della famiglia Rabai. Gli uomini quel mattino erano a Yatta per un funerale. L’esercito e la polizia sono arrivati tardi. Le violenze si ripetono al villaggio ormai da anni, quotidianamente, nel tentativo mal riuscito di allontanare gli arabi dalla propria terra. Le prime vittime, i bambini: i più vulnerabili, soprattutto quando la mattina lasciano casa por andare a scuola a piedi lungo il tragitto che passa tra la colonia e l’avamposto. La zona è chiamata South Hebron Hills, a sud della città di Yatta, ed è compresa tra la fine dell’espansione urbana e la Linea Verde, in una zona C della Cisgiordania, sotto il completo controllo civile ed amministrativo israeliano. Gli abitanti di At-Tuwani però non ci stanno, non cedono alle provocazioni e combattono tramite la resistenza non-violenta. Il villaggio è diventato il fulcro di una reazione fatta di riunioni, di decisioni collettive, di coinvolgimento dei mass media e dei gruppi di attivisti. Come Operazione Colomba, il Corpo Nonviolento di Pace dell’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII. I ragazzi italiani vivono in una casetta bianca dove non c’è elettricità e l’acqua è poca. Giorno e notte sorvegliano il villaggio, stanno con le famiglie, filmano le violenze con le telecamere e controllano che i militari israeliani della scorta che dovrebbe difenderli portino effettivamente i bambini a scuola sani e salvi. Dopo varie segnalazioni, infatti, il caso dei bambini presi di mira dai coloni è finito alla Knesset, il Parlamento israeliano, che dal novembre del 2004 ha imposto ai militari di fare da scorta armata lungo il tragitto da casa a scuola. Eppure i soldati spesso non fanno il loro dovere fino in fondo, denuncia Operazione Colomba. “Ogni giorno monitoriamo la scorta – racconta una volontaria di Operazione Colomba – il che vuol dire che due di noi aspettano i bambini in un punto e altri due li controllano con i binocoli finchè non li vedono sparire. Poi ci messaggiamo, contiamo i tempi, ogni giorno contiamo i bambini, annotiamo il numero della jeep dei militari e quindi documentiamo i ritardi, se la scorta arriva, se è puntuale, quanto tempo devono aspettare ecc…”. Dai dati di un report, che verrà divulgato a giorni, emerge che durante quest’anno scolastico i bambini sono stati vittime degli attacchi da parte dei coloni per ben 19 volte. I soldati sono venuti meno al loro compito nel 75% dei casi, evitando di camminare a fianco dei bambini, come predispone il loro incarico, si sono rifiutati di completare la scorta fino alla fine dell’insediamento nel 94% dei casi. Le continue vessazioni fanno parte di una strategia che “tende a spingere noi arabi fuori dalla nostra terra – spiega Hafez Huraini, coordinatore del comitato popolare non violento di Tuwani - hanno fissato un confine e vogliono ributtarci dall’altra parte della strada. L’amministrazione militare usa questo metodo per confiscarci la terra, sostenendo gli insediamenti e tollerando che usino violenza e soprusi“. Loro rispondono con la legalità e l’informazione. “Non possiamo cadere nella loro trappola: vorrebbero che rispondessimo alle provocazioni con la violenza, ma è esattamente quello che noi non facciamo”, dice Huraini. “Ci concentriamo su due cose: le vie legali e i mass media. In questo modo abbiamo ottenuto molta più solidarietà da parte degli internazionali e della società israeliana che se avessimo reagito”. Il contatto con gli attivisti israeliani che partecipano alla tutela dei diritti della popolazione palestinese per loro è fondamentale, conferma uno dei volontari italiani. “Noi abbiamo numeri di emergenza da chiamare che spaziano dal District Coordination Office ad organizzazioni pacifiste israeliane”. I volontari se serve dormono nelle case arabe, e normalmente fanno da sentinella, riposando a turno. “Noi dormiamo qui sul tetto di casa- spiega una ragazza di Operazione Colomba– stanotte alle tre, ad un certo punto ho sentito fermarsi dei camion, proprio qui su questa strada, apro gli occhi e vedo sei militari tutti vestiti di nero venire giù dalla collina. Non li avevo sentiti….Hanno fatto un checkpoint. Avevano tirato fuori l’immondizia dal cassonetto e avevano bloccato la strada, solo che non ci eravamo accorti di niente”.
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