IL TUNNEL 1:4
Dopo qualche giorno, ottenuti il biglietto dell'autobus e il permesso per il tunnel, monto sul tram che si ferma sotto casa, oggi funziona. Poi, arrivato al palazzo della TV, scendo dal tram e m'incammino a piedi verso Dobrinja dove, da qualche parte c'é l'entrata del tunnel. Finalmente arrivo al check point di Dobrinja, mostro il permesso per il tunnel, timbrato dal Primo Corpo dell'Armija, e chiedo dov'é. Ma capisco solo che sono ancora lontano. La valigia é sempre più pesante, ci sono dentro il giubbetto antischegge e una dozzina di kili di posta. Arrivo al ponte che passa sulla Milijacka, ai lati del quale sono state erette delle barriere contro i cecchini, usando carcasse di vecchie auto tenute insieme al terriccio. Oltre il ponte c'é l'ospedale di Dobrinja, ricavato da un ex supermercato, il primario, dr. Hagir, é un palestinese, sacchetti di sabbia proteggono le finestre dalle schegge delle granate.

I palazzi di Dobrinja sono tutti abitati, anche se molte abitazioni sono bruciate o sventrate, alcuni palazzi hanno una fila di abitazioni completamente bruciate, mentre la fila accanto, anche se un poco bombardata, continua ad essere abitata. Non ci sono più vetri alle finestre, ma solo la plastica fornita dall'UNHCR, gli abitanti si muovono in questo ambiente spettrale con la forza dell'abitudine, mentre i bambini giocano tra le carcasse delle auto completamente sforacchiate dai proiettili. Dopo un'ora e mezzo di marcia sotto il sole, sono sudato, assetato e stanco quando, giunto ad un angolo, meraviglia delle meraviglie trovo un bar, dev'essere l'unico del quartiere, una vera e propria oasi in quell'inferno di polvere e devastazione, sbatto la valigia in terra e, sollevando uno sbuffo di polvere, mi siedo ad un tavolo sulla porta. Ho il fiato grosso, ma ben presto potrò fumarmi una sigaretta. Si sta bene seduti, non c'é fretta, sono solo le H.12.30. Non hanno alcoolici, la birra non é tollerata, ordino una cola. Il bar é affollato da militari in divisa mimetica, il fronte e’ molto vicino.

Fuori, sedute ad un tavolino sulla strada polverosa, una donna rom siede con la sua bambina, le ha comprato ben due dolci, ma la bambina non li mangia, li spilucca annoiata come solo i bambini sanno fare, mentre la madre sorseggia il caffé e fuma con calma. Alle loro spalle una lunga fila di case a tre piani completamente distrutte, si ergono come una muraglia a difesa del quartiere dai serbi che sono dall'altra parte dell'aeroporto. Guardando meglio scorgo una specie di piazza, c'é una sbarra e l'ulitma casa ha la plastica alle finestre, il traffico delle mimetiche rivela la sede del comando di compagnia che gestisce il flusso nel tunnel. Fino alla scorsa primavera, quando era in vigore la tregua, il tunnel era rimasto un passaggio segreto usato solo dai militari. Poi, a fine luglio, con la chiusura della pista blu, viene aperto al transito dei civili, molti dei quali vanno a Butmir, oltre l'aeroporto, poi a Sokolovic e a Hrasnica (sobborghi di Sarajevo) per aquistare il cibo da consumare o da rivendere in città. Di là, fuori dall'assedio, i prezzi sono almeno la metà di quelli praticati in città. Durante l'estate, saranno circa 8.000, in gran parte donne e bambini, a fare ritorno a Sarajevo attraverso quel budello fangoso, e circa 20.000 persone, in quella che si può definire un'evasione di massa, lasceranno l'assedio. Ma fuori, il futuro non é certo roseo per chi ha perso ogni bene, riuscendo a salvare solamente la vita. Ho finito di bere la cola e mi avvio alla sbarra sulla piazza, alcune persone, cariche come somari e sudatissime, arrivano evidentemente dal tunnel, hanno un sorriso di sollievo stampato sul volto. Una delle guardie alla sbarra mi mostra l'orologio, adesso é l'una, devo tornare alle cinque. Alla sinistra della sbarra, il piazzale é delimitato da un orto, la gente siede lì intorno, ai margini della strada. Me ne torno al bar un pò deluso, devo aspettare ancora quattro ore. Il pomeriggio passa lento, i volti di coloro che arrivano carichi e sudati, chiaramente contenti di essere usciti dal tunnel, non mi lasciano presagire nulla di buono. Dagli zaini sbucano le bottiglie di brandy e di grappa, mentre le mani sono occupate da due cartoni di uova, oppure da un sacco di cipolle, ci sono anche molte donne anziane che escono cariche dal tunnel e si fermano davanti al bar, ansimanti e sudate, a riprender fiato. Due giovani donne, arrivate in taxi, aspettano sicuramente qualcuno, forse il fratello o il fidanzato che ritorna dal fronte. Una ragazza e il suo vecchio padre si fermano a controllare il carico, mentre passa un manipolo di diversanti, giovani alti, robusti e fieri di sé. Si chiamano diversanti gli incursori dell'Armija, che impegnano il nemico con azioni diversive dietro le linee del fronte. Indossano mimetiche nuove e dai cinturoni pendono grossi revolvers, uno di loro é rapato a zero solo ai lati del cranio mentre conserva i capelli lunghi nella parte centrale, ha un aspetto molto truce, altri hanno un fazzoletto nero legato dietro il capo, che gli conferisce un'aria piratesca. Ormai sono le H.16.00, ho già bevuto la quarta cola, decido di avviarmi alla sbarra per vedere cosa succede. Le persone sedute in attesa nel primo pomeriggio, sono diventate una folla che preme di fronte alla sbarra. Un'auto attraversa la ressa, che si apre ondeggiando per lasciarla passare e poi si richiude inghiottendola. A bordo c'é una delegazione del governo bosniaco, anche loro sono costretti a passare il tunnel per raggiungere la loro missione diplomatica in Bosnia o in Europa.

2:4
Le guardie che presidiano la sbarra sono agitate, innervosite da tutta quella gente che preme per passare. - Non dovrebbero concedere tanti permessi! - esclama uno di loro. Devono faticare non poco per allontanare tutta quella gente che assedia la sbarra, la situazione si carica di tensione e, all'improvviso una raffica di Kalashnikov convince la folla ad indietreggiare di qualche metro.

Poco dopo, due ragazzine che abitano in una delle case oltre la sbarra, quelle che guardano sull’aeroporto, la oltrepassano con naturalezza senza chiedere alcun permesso. Uno dei poliziotti impreca e loro lo mandano all'inferno dicendo - Sei forse un maniaco? Non bastano i cetnici a spararci addosso? - e continuano verso casa, sotto lo sguardo esterrefatto del poliziotto. Mi metto il giubbetto antischegge, così alleggerisco la valigia. Seduta su di una pietra accanto a me, c'é una ragazza molto carina, con la maglietta gialla e i pantaloni neri. I nostri sguardi si incrociano per un momento, poi lei scompare sulla sinistra, mentre cerco di infilarmi nella ressa per vedere se riesco a capirci qualcosa. Sta cominciando ad imbrunire, quando i gruppi con il permesso in comune, vengono chiamati, messi in fila e poi avviati al tunnel. La massa tende ad aumentare, i soldati si agitano, urlando e sbraitando contro i civili. Il comandante, un tipo dall'apparenza mite, rimane calmo e paziente con tutti, ma quando quell'orda di fuggiaschi gli invade l'orto, monta su tutte le furie e i civili sgombrano la posizione in men che non si dica. Non sono comunque riuscito a capirci nulla di cosa devo fare per attraversare quella dannata sbarra. Così esco fuori dalla massa brulicante di umanità stressata in ansiosa attesa, pensando al rischio che tutta quella gente corre, me compreso, a radunarsi così vicino al fronte. I cetnici potrebbero facilmente provocare un massacro senza precedenti.

D'un tratto rivedo la ragazza dalla maglietta gialla che mi lancia uno splendido sorriso, distogliendomi dai pensieri paranoici che mi occupavano la mente, la ricambio e mi avvicino, così ci mettiamo a parlare. Si chiama Fatima e ha 19 anni, é la seconda volta che attraversa il tunnel, abita a Sokolovic, dall'altra parte, é andata a Sarajevo per iscriversi al liceo linguistico che ha dovuto abbandonare quando é scoppiata la guerra, infatti parla l'inglese molto bene. Neanche lei sà bene come fare a passare, non ha neppure il permesso, se non ci riuscirà andrà a dormire dalla zia che abita lì vicino. Si é fatto buio, un'ennesimo sparo fà indietreggiare la folla, Fatima propone di corrompere una delle guardie ... mah! Comunque le dò venti marchi, li prende e scompare nella ressa. Nel frattempo la folla ha riconquistato la sbarra, neanche gli spari in aria servono granché. Fatima ritorna sconfitta, allora le dico del mio permesso timbrato dal Primo Corpo, che sarebbe scaduto a mezzanotte e lei riparte alla carica della sbarra, più gasata di prima. La osservo da lontano mentre parla con un grosso poliziotto, questa volta l'omone si dirige verso il comando e quando torna, il comandante ci permette di passare oltre la sbarra, -L'italiano e la piccola passeranno alle sette.- ordina.

Mi siedo su di una seggiola abbandonata, le guardie hanno riconquistato qualche metro, sospingendo la massa di gente sul marciapiede di fronte. E' ormai l'ora di avviarci, ma Fatima é scomparsa, chiedo all'omone se l'ha vista, lui risponde di no, poi và a cercarla. Finalmente riappare, raccogliamo i bagagli e ci avviamo sotto lo sguardo tranquillo del comandante. Svoltato l'angolo iniziano i camminamenti tra le macerie del fronte, Fatima preferisce seguirmi. Faccio strada tra le case diroccate, sopra di noi il cielo stellato illumina il sentiero. Infine, Fatima mi indica una casa semidistrutta, l'imbocco del tunnel é situato nel garage sotterraneo. Entriamo, scendiamo le scale, nel sotterraneo é buio, in fondo alle scale uno spiraglio di luce disegna una porta chiusa, ci sono già altre persone che aspettano. Fatima si fà coraggio e affronta cinguettante il piantone, il quale le sbatte la porta in faccia.

Sono seduto nel buio, sugli scalini e controllo i bagagli, - Nema problema Fatima, aspettiamo il nostro turno.- intanto anche gli altri cercano di parlare con il piantone, ma quello continua a sbattere la porta. Passa un pò di tempo e Fatima riesce a eludere la sorveglianza del piantone uscendo nella luce oltre la porta che ci separa dal tunnel, riuscendo a guadagnare il comandante, al quale spiega, sempre più gasata la storia dell'italiansko ... Intanto dagli spiragli di luce che filtrano dalla porta, che non riesce a stare ne chiusa ne aperta, si vedono passare per un attimo quelli che stanno uscendo dal tunnel, con il loro bel sorriso liberatorio stampato sul volto accaldato. Fatima ritorna nel buio, dicendo che dobbiamo aspettare che passi un ferito, infatti quando siamo arrivati, fuori c'era un'ambulanza in attesa. Ma non c'é solo il ferito, ci sono anche 160 soldati della 105° brigata, non é per niente facile inserirsi nel flusso, regolato come un senso unico alternato. Comunque dopo un'oretta, quasi tutte le persone davanti a noi riescono a superare la porta e ad uscire nella luce, poco dopo passiamo anche noi. L'imbocco del tunnel ha le dimensioni di una porta, ma dopo pochi metri diventa alto un metro e settanta circa e largo non più di un metro e mezzo. Cominciamo la discesa, Fatima é dietro di me. Travi di ferro sorreggono la galleria, le pareti sono coperte da ondulato in alluminio allo scopo di trattenere lo smottamento della terra corrosa dall'acqua che si allarga in grosse pozze fangose, che sommergono, in alcuni tratti, i piastrelloni di marmo sui quali corrono le rotaie per i carrelli, che trasportano le merci e i feriti.

3:4
Una lampadina ogni dieci metri circa illumina il percorso, lungo le pareti scorrono i cavi elettrici, quelli del telefono e quant’altro. Quel camminamento sotterraneo é in realtà un vero e proprio cordone ombelicale. Camminiamo piegati in due, più si é alti, più é faticoso rimanere abbassati, per me che sono alto un metro e novanta non é affatto facile camminare piegato in due con la valigia in mano e Fatima dietro che preme. Alla fine della discesa, lunga due o trecento metri, siamo nelle viscere della terra sotto la pista dell’aeroporto e il tunnel si fà ancora più basso, inizia un tratto in piano che taglia in diagonale la pista dell'aeroporto, l'altezza é diminuita di almeno dieci o quindici centimetri, con il fiato che si fà sempre più corto, sono costretto a camminare piegato a quota un metro e cinquanta. Tenere il ritmo di quelli che mi seguono, comincia ad essere faticoso, non c'é molto ossigeno qui sotto, la valigia mi pesa e la stanchezza mi obbliga a fermarmi, almeno per un attimo. Fatima da dietro mi chiede subito se sono già stanco e mi sollecita a ripartire. Riparto mio malgrado, ma sono sull'orlo della paranoia, continuo a ripetermi che se ce la fanno quegli anziani che ho visto là fuori, carichi come muli, devo farcela anch'io.

Qualcuno mi ha raccontato di una donna in preda ad una crisi epilettica, che ostruiva il tunnel ed é stata uccisa sul posto con un colpo di pistola, da quel budello infernale si esce solo in avanti. Gli ingorghi non sono tollerati, anche perché mettono a repentaglio la vita degli altri. Mi faccio forza guardando avanti, il percorso non é rettilineo ma avanza a zig zag e non se ne vede mai la fine. Più avanti scorgo la sagoma di un uomo che cammina davanti a me e continua a scomparire, là in fondo, nel buio. Stiamo ancora marciando sul tratto piano, l'inizio della salita indicherebbe che siamo vicini alla fine. Intanto arrivano tre soldati in controsenso, hanno fretta e chiedono strada a gran voce, finisco con il sedere a bagno. Quando, passati i tre rambo, riprendiamo la marcia, raggiungo l'uomo che mi precedeva, é l'ultimo di un gruppo che, con mia grande gioia, procede un pò più lentamente, così posso riprendere un pò di fiato. Inoltre non sono più il capofila e quando gli altri si fermano, nessuno si può lamentare con me.

Poi d'un tratto ricomincia la salita e il tunnel ritorna ad essere alto un metro e settanta, la situazione migliora, anche se di poco, ma non riesco più a tenere la testa abbastanza bassa e continuo a sbatterla contro le travi di ferro. Finalmente, un poco intontito dalle testate, mi affaccio all'uscita, che dà su di un cancello, dietro il quale la stessa umanità in ansiosa attesa, affolla una serie di trincee che squarciano le rovine di un gruppo di case diroccate. Oltre il cancello Fatima incontra la zia che, come la vede, fà il gesto di darle un ceffone, - Dove sei stata, sei impazzita? Sono sei ore che ti aspetto, tuo padre non sapeva più dov'eri ... - Fatima cinguetta senza scomporsi che era con l'italiansko ...

Attendiamo nella trincea per una mezz'oretta prima di uscire, perché dalla collina di Gavrice, a meno di un kilometro dietro alle trincee, i cecchini tirano sulla spianata che dobbiamo attraversare per raggiungere Butmir. Più tardi senza un'apparente ragione razionale attraversiamo la spianata, mentre le due donne continuano a discutere animatamente sotto un'ineffabile cielo stellato di fine estate. Sono sudato fradicio e ho, stampato sulla faccia, lo stesso sorriso di sollievo che osservavo qualche ora prima su coloro che uscivano dall'altra parte. L'aria aperta ha un'effetto elettrizzante, oltre che liberatorio, dopo mezz'ora in quel budello infernale, che è così determinante per la sopravvivenza di tutta quella gente. Arriviamo alla strada, da lì, con un taxi, accompagno a casa Fatima e la zia, sono le H.21.20 circa, ma i caffé sono già tutti chiusi, non posso neppure bermi una birra, pazienza. Chiedo al tassista se mi può portare sull'Igman, dove si ferma l'autobus per Spalato, sono solo pochi kilometri. Lui risponde che é molto rischioso, ma per cento marchi si può fare. Così ci avviamo e dopo pochi minuti ci fermiamo dietro ad una lunga fila di veicoli fermi in attesa, più avanti la solita sbarra delimita l'accesso alla pericolosa pista che sale sul monte Igman. Fù aperta il secolo scorso dagli austriaci, é sempre stata un via marginale, una mulattiera impervia e piena di grosse buche causate dalla pioggia e dal recente traffico pesante. Oggi é l'unica via che permette ai bosniaci di scendere o di uscire dalla valle di Sarajevo. L'autista mi spiega che danno il permesso di salire solo ad un veicolo ogni cinque, dieci minuti, quando quelli da sopra hanno smesso di scendere. Fumiamo in silenzio, in attesa del nostro turno, quando di colpo, una serie di tuoni sibilanti ci investe da vicino, le scie dei traccianti passano sulle nostre teste, cercando un bersaglio invisibile nel buio. Lassù qualche camionista stà rischiando grosso per portare il suo carico di polli surgelati a valle. I colpi, assordanti, partono dalla scuola forestale di Ilidza, poco più di un kilometro sulla nostra destra, evidentemente non tutte le armi pesanti sono state messe a tacere. Sul monte di fronte a noi, i lampi di luce dei veicoli che scendono si alternano all'infragersi scintillante dei traccianti. Uno dei camions ce l'ha fatta, nonostante una gomma delle due gemellate posteriori sia stata colpita, i resti stracciati del copertone sbattono contro il telaio.


4:4
Sono già le prime ore del mattino quando arriva il nostro turno di salire, la contraerea tace da più di un'ora, il tassista si lancia a fari spenti sù per la ripida salita a tutta velocità, con la vecchia Golf che sobbalza continuamente. Il sentiero davanti a noi é appena visibile, per fortuna il mio autista conosce bene la strada. Sulla sinistra, uno strapiombo di alcune centinaia di metri ci separa dalle poche luci di Sarajevo, che brillano nella valle sotto di noi. La contraerea tace. Finalmente raggiungiamo Osmica, dove l'autobus per Spalato mi porterà nel mondo libero. E' alba, Sarajevo é lontana.

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