Bio-Bibliografia di Antonio Moscato
La Palestina e i suoi Abitanti, dall’antichità alla nascita dello Stato sionista
di Antonio Moscato
Tratto da "Israele, Palestina e la Guerra del golfo", Sapere 2000, Roma 1991.
Ebrei e palestinesi nella storia: miti e realtà
Testi di Antonio Moscato, Schede di Cinzia Nachira


La Palestina e i suoi Abitanti
dall’antichità alla nascita dello Stato sionista
di Antonio Moscato


Le origini

La svolta del secolo XI

Dal feudalesimo al regime di scambio

Gli Ebrei nell’età moderna e contemporanea

La "questione ebraica" nell’ultimo secolo




Le origini

E’ difficile affrontare la questione palestinese riuscendo ad evitare completamente il rischio di "eurocentrismo".
Pur essendo molto sensibile a questo pericolo, infatti, non potrò non parlare di molte vicende che si sono svolte lontano dalla Palestina, ad opera di europei, ma che hanno avuto importanti conseguenze sulle vicende di questo paese.
Una premessa: chiamiamo questa terra "Palestina" perché questo è il nome che è stato usato più a lungo nelle migliaia di anni di storia di questa terra. Non si ha d’altra parte interesse, in questa sede, a partire troppo lontano nel tempo. Abbiamo tracce di presenza umana fin da 150.000 anni fa, e queste tracce, dapprima labili, si infittiscono a mano a mano che ci si avvicina all’inizio delle vicende che tratteremo, ma forniscono elementi troppo fragili e troppo poco specifici di questa zona rispetto ad altre in cui pure esistono tracce di presenza umana negli stessi periodi.
Il termine "Palestina" comincia ad essere usato intorno al 1200 a.C., quando giungono in quella terra i Filistei, "popoli del mare", probabilmente provenienti da Creta, nel quadro di quegli immensi spostamenti di popoli che hanno investito in quel periodo gran parte del bacino mediterraneo.
Abbiamo tuttavia testimonianze più precise su questo territorio fin da un’epoca più antica. Di circa 5.000 anni fa, infatti, cominciamo a trovare testimonianze su questa terra, che è luogo di incontro e di scontro tra le civiltà che sorgono e si susseguono nei due grandi bacini fluviali, quello mesopotamico e quello del Nilo, nei quali sorge per prima l’ agricoltura e l’organizzazione collettiva del lavoro per regolare il regime delle acque, per costruire argini, per bonificare paludi, per fortificare magazzini in cui vengono racchiusi i sovrapprodotti accumulati negli anni più prosperi.
Sia le civiltà fiorite sulle rive del Nilo, sia quelle che si susseguono sul Tigri e sull’Eufrate si interessano a quella che chiamiamo Palestina, perché attraverso di essa entrano in rapporto tra di loro.
Nei loro archivi troviamo così tracce dei primi nuclei semitici, affini a quelli che oggi chiamiamo ebrei, intorno al 2000 a.C.: sono tracce di nomadi che penetrano -insieme ad altri popoli- in un territorio in cui vivono già altri nuclei umani, che parlano altre lingue, seguono altre religioni e hanno già lasciato il nomadismo.
Probabilmente si tratta di nuclei di popolazioni di lingua semitica che, confluiranno poi, in un processo complesso e tutt’altro che lineare, nella formazione di una confederazione di tribù "ebraiche", che assumerà successivamente come mito delle origini quello della discendenza dai dodici figli di Giacobbe (o Israele). È significativo tuttavia che tutti i riferimenti più antichi nella Bibbia forniscano dati contraddittori persino sul nome delle mitiche dodici tribù.
Troviamo poi altre tracce di nuclei di Ibraim in Egitto, durante quei grandi sommovimenti che quel territorio conosce con l’invasione degli Hiksos (o re pastori) e poi con la XVIII dinastia, che sconvolge le tradizioni col primo grande tentativo di costruire una religione monoteista (o almeno enoteista o monolatrica): il tentativo breve e sfortunato di Amenofis o Amenhotep IV, che regnò poi con il nome di Akhenaton tra il 1377 e il 1360. Tracce importanti della religione monoteistica che questo faraone tentò di imporre all’Egitto troviamo nel giudaismo mosaico (ad es. citazioni inequivocabili dell’inno al dio solare Aton composto da Akhenaton).
Alcuni nuclei di nomadi di lingua semitica erano giunti in Egitto sotto gli Hiksos (faraoni stranieri che hanno regnato tra il 1675 e il 1560) ed altri erano giunti successivamente, installandosi, come altri popoli, in alcuni settori del delta del Nilo con il consenso delle autorità. Ne troviamo tracce nei minuziosi archivi egiziani, che registravano e conservavano la corrispondenza con le guarnigioni di frontiera.
Ridotti successivamente in schiavitù, e costretti ai lavori forzati per la costruzione delle piramidi e di altre opere imponenti insieme ad altre popolazioni, si amalgamarono con esse intorno a un cemento religioso (la religione di Mosè ), uscendo insieme dall’Egitto. Tra il 1300 e il 1200 avviene la nuova migrazione verso est (da cui in genere provenivano) e l’arrivo ai margini di quella che la Bibbia chiamerà la "Terra promessa", nella quale, più o meno nello stesso periodo, erano giunti i "popoli del mare", sovrapponendosi e affiancandosi ad altre popolazioni preesistenti.
Sui Philistim o Filistei, o -per usare il termine moderno- palestinesi, e sulla loro presumibile origine cretese abbiamo qualcosa di più di testimonianze indirette: all’interno dell’attuale Giordania sono state trovate iscrizioni che usavano i caratteri della scrittura lineare B cretese. Comunque, il lato interessante è che più o meno nello stesso periodo compaiono tra gli altri popoli della zona i Filistei e gli Ebrei.
Anche basandoci solo su una critica filologica dell’Antico Testamento, risulta evidente che la penetrazione ebraica avviene a fianco di altri popoli, in forma spesso -ma non sempre- conflittuale e attraverso una fusione con altri nuclei che parlavano la stessa lingua o una molto affine, cementata da un processo di formazione di una religione che risulta evidentemente -dai testi più antichi- non ancora monoteistica (cioè basata sulla convinzione che esista un solo dio) ma monolatrica (esistono altri dei, ma essi non devono essere oggetti di culto).
Questo stesso processo non è incontrastato; dalla Bibbia apprendiamo che in molti momenti altri culti riaffioravano accanto a quello di Jahvé. Lo vediamo già durante l’esodo dall’Egitto, quando Aronne, fratello di Mosè, costruisce un vitello d’ oro e lo stesso Mosè utilizza un simulacro di serpente per sfuggire al morso dei serpenti del deserto. Lo troviamo ancora nel periodo di massimo splendore del brevissimo regno unitario ebraico, quando apprendiamo che Salomone onorava gli dei delle sue settecento mogli, quasi tutte straniere.
In ogni caso risulta evidente anche dalla Bibbia, che pure è un testo religioso e solo indirettamente un documento storico, che gli ebrei convivevano con altri popoli, che avevano religioni e quindi leggi diverse. Solo in alcuni momenti troviamo tentativi (che con linguaggio moderno chiameremmo "integralistici") di imporre con la forza la propria religione e le proprie leggi alle altre popolazioni (e a volte agli stessi ebrei che si sono assimilati agli altri popoli e hanno, ad esempio, rinunciato alla circoncisione).
Questo dato assume oggi un certo rilievo di fronte alla pretesa anacronistica di accampare un "diritto" su una terra solo perché 3000 anni fa presunti antenati sono passati su di essa, analogamente a molte altre popolazioni, e vi hanno instaurato il loro dominio per qualche tempo. Ritorneremo su questo dato; vorrei sottolineare ora solo due elementi: un regno ebraico pienamente indipendente è esistito solo tra il 998 e il 926 a.C. (David ha regnato sulla Giudea dal 1004 al 998 a.C., anno in cui unifica tutto il territorio palestinese sotto il suo dominio, e Salomone dal 965, anno della morte di David, al 926 a.C.).
I due regni, Israele e Giuda, (sorti dopo la morte di Salomone, durarono ancora fino al 721 a.C. il primo, e fino al 586 a.C. il secondo), furono dalla loro intrinseca debolezza costretti a continue "alleanze" con l’uno o l’altro dei paesi vicini, fino a trasformarsi in vassalli già molto prima di perdere del tutto l’indipendenza.
Ma, e questo è il dato più importante, quegli "Stati ebraici" erano ben lontani dall’essere veramente tali: la composizione etnica era tutt’altro che omogenea, fino al punto di riflettersi sistematicamente nelle stesse famiglie reali; così il predecessore di re David, Saul, era figlio di una cananea, David stesso aveva una antenata moabita e Salomone aveva una madre hittita.
Dato il sistema matrilineare con cui si trasmette l’appartenenza alla comunità ebraica e i criteri in vigore ancora oggi tra i rabbini, tutti e tre quei sovrani non avrebbero dovuto neppure essere definiti ebrei (anche l’altro requisito, quello della religione ebraica non era del tutto in regola, almeno secondo le notizie blibliche sulle frequenti concessioni al culto delle divinità delle mogli straniere). Al di là della fragilità dei "titoli storici" in base ai quali si pretende il ritorno ai confini del regno dei "padri", volevamo sottolineare sopratutto che i matrimoni "misti" erano evidentemente frequentissimi, nel quadro di quella commistione di popoli diversi che si intrecciavano sullo stesso esiguo territorio.
Comunque, dopo il breve periodo di unificazione in un regno abbastanza forte, e quello un po’ meno breve dei due regni semi-indipendenti sotto l’influenza egiziana e assira, cominciarono le "deportazioni ", che nell’ideologia sionista vengono poste all’inizio della diaspora e che dovrebbero appunto essere "risarcite" con la "Legge del Ritorno" (che consente a un ipotetico discendente degli esiliati di 2700 anni fa di scacciare il certissimo figlio, nipote, pronipote di chi ha lavorato quella terra da generazioni e generazioni).
Anche su questo nodo cruciale della storia della Palestina e dei suoi abitanti occorre dunque una precisazione, per ricondurre alla sua reale dimensione storica questo "mito delle origini". Quando gli Assiri distruggono il regno di Israele nel 721 a.C. deportano non l’intera popolazione, ma lo strato superiore, sostituendolo con funzionari stranieri. Quando cade il regno di Giuda (dopo un lungo periodo di vassallaggio, che comportava anche l’inserimento delle divinità dei dominatori nel tempio di Gerusalemme) la deportazione a Babilonia riguarda ugualmente una percentuale abbastanza ridotta della popolazione, secondo la consuetudine. Per un certo periodo, d’altra parte, il governatore scelto dai sovrani babilonesi era un giudeo. Va soprattutto sottolineato che né il re Nabuccodonosor , né i suoi successori, perseguitarono gli Ebrei deportati: solamente esigevano che riconoscessero la loro autorità e non tentassero di ricostruire uno Stato indipendente.
In cambio, lasciavano piena libertà nella vita interna della comunità e nelle pratiche religiose. Così in pochi anni, sul fiume Khedar , nei pressi di Babilonia, si sviluppò una prospera comunità ebraica dal nome di Tel Aviv. Gli esiliati comprarono terre fertili e le lavorarono, si dedicarono al commercio e all’ artigianato, si imparentarono con famiglie babilonesi e in breve tempo adottarono la lingua aramaica.
Gli esiliati eleggevano i loro capi, che venivano riconosciuti dalle autorità babilonesi (e saranno riconosciuti per secoli e secoli da quelle che si succederanno in Mesopotamia).
Questo spiega come "quando Ciro, un anno dopo la sua entrata a Babilonia, emanò per gli Ebrei il decreto di ritorno, permettendo loro di reinserirsi nella propria terra e di ricostruirvi il Tempio restituendo loro gli oggetti sacri portati via da Nabuccodonosor, l’equilibrio che i deportati erano riusciti a costruire con sforzo e fede si infranse. Alcuni furono invasi da improvviso entusiasmo e si misero immediatamente in viaggio [...] altri, già troppo radicati nella vita comoda di un grande
paese, preferirono rimanere, offrendo il loro aiuto economico a coloro che ritornavano". Sono parole di Lea Sestieri , che mi piace qui citare, anche perché non nasconde le sue simpatie per la causa sionista quando arriva a trattare le vicende del nostro secolo. La Sestieri precisa inoltre che "tra gli esiliati prende il cammino del ritorno solo un piccolo gruppo costituito probabilmente dai meno integrati, da coloro che non avevano raggiunto posizioni economiche stabili, e da alcuni particolarmente sensibili alle parole dei profeti".
Altri ancora, in quello stesso periodo, si erano già installati spontaneamente in Egitto (si trattava in primo luogo di esponenti del "partito" filo-egiziano, che aveva avuto sempre un certo peso nel regno di Giuda). Da questa sintetica ricostruzione della prima dispersione degli Ebrei fuori della Palestina emerge chiaramente che è cominciata molto prima della distruzione del Tempio da parte dei Romani, è stata largamente spontanea e dettata da ragioni economiche e politiche (il caso dell’Egitto) e che, anche quando è stata avviata con la coercizione, si è rapidamente trasformata in base a una notevole capacità di adattarsi al nuovo ambiente.
Contrariamente al mito caro alla propaganda sionista, riecheggiato recentemente perfino in un volumetto apparso tra i "libri di base" degli Editori Riuniti, le vicende del popolo ebraico risultano così non particolarmente diverse da quelle di altri popoli toccati da migrazioni, conquiste, imposizioni di vassallaggio con deportazione di una parte della classe dirigente, ecc.
Al momento della conquista romana non più di due milioni di Ebrei (prevalentemente agricoltori) vivevano in Palestina, mentre oltre quattro milioni si trovavano nell’Africa del Nord, in Mesopotamia e in gran parte del Mediterraneo. Una parte notevole di essi erano commercianti, ma in alcune zone (soprattutto nell’Africa del Nord) erano numerosi anche gli agricoltori e non mancavano colonie di soldati di origine ebraica sviluppatesi ai confini meridionali dell’Egitto.
Anche la deportazione romana dopo la rivolta ebraica del 66-70 d.C., pur tanto più massiccia delle precedenti, non spopolò la Palestina; ancora al momento della conquista islamica una parte notevole degli abitanti della regione erano Ebrei che accolsero favorevolmente i conquistatori, convertendosi in poco tempo alla nuova religione e arabizzandosi rapidamente dal punto di vista linguistico e culturale (sono una parte degli antenati dei palestinesi dei giorni nostri, che tra l’altro conservano nel lessico, nel folklore, in alcune particolari tradizioni religiose intrecciate a quelle musulmane e cristiane non poche tracce di quella origine).
Riassumendo gli elementi essenziali che risultano da questa velocissima panoramica sulla storia più antica della Palestina, gli ebrei sono arrivati nel territorio quando esso era abitato da tempo immemorabile da altri popoli, con i quali i nuovi arrivati hanno più o meno pacificamente convissuto, attraverso un alternarsi di egemonie e attraverso un mosaico di piccole entità tribali e statali che si dividevano la regione. Tranne per periodi brevissimi, sulla Palestina si sono susseguiti dominatori diversi, in genere indiretti (attraverso tributi imposti ai capi locali), a volte come veri e propri sovrani in grado di nominare dall’alto i governatori.
Anche nel secolo in cui la rivolta dei Maccabei contro Antioco IV Epifane (e gli Ebrei collaborazionisti ed ellenizzanti) diede vita a un nuovo Stato ebraico, esso era in realtà da un lato solo apparentemente indipendente, giacché per affermarsi ebbe bisogno del consenso di Roma, dall’altro si scontrava con una realtà assai poco omogenea: oltre che dalla persistenza di nuclei di altri popoli preesistenti alla colonizzazione ebraica della Palestina, il progetto di restaurazione di un regno di Israele era limitato dall’esistenza di settori importanti della stessa popolazione ebraica ormai disinteressati od ostili alla vecchia religione. Il racconto di Maccabei I (II,43-46) è rivelatore: "messo insieme un esercito, colpirono con ira i peccatori, e gli iniqui con indignazione, e quelli che scamparono si salvarono con la fuga presso le genti. E Matatia e i suoi amici andarono attorno, a distruggere le are, a circoncidere i fanciulli non circoncisi, quanti ne trovarono nei confini d’Israele, con gran fermezza".
Abbiamo ricordato questo episodio non tanto per sottolineare l’intolleranza verso le minoranze (o maggioranze? non erano facili rilevazioni statistiche), quanto per mettere in evidenza la precarietà di quel tentativo, stritolato tra i regni ellenistici che lo circondavano (e dai quali non
si emancipò mai totalmente), le ingerenze di Roma, le resistenze degli "assimilati" alla cultura (e alle religioni) ellenistiche a cui si aggiunge inoltre la fronda dei settori più ortodossi dello stesso ebraismo, che tenevano molto più alla legge ebraica che allo Stato ebraico, e finirono per preferire un dominio straniero.
In ogni caso, al di là dell’etereogeneità religiosa ed etnica delle popolazioni che si trovarono all’interno degli effimeri regni ebraici, è la loro stessa durata a rendere ridicola la pretesa di fondare su di essi, nel XIX e XX secolo, un "diritto al ritorno". In base a criteri di questo genere non c ‘è dubbio che avrebbe più diritti alla Palestina un "discendente dei Romani" che vi esercitarono il loro dominio più a lungo di tutti i sovrani ebrei! Attualmente, dopo la parentesi del fascismo, che accampava diritti sul "Mare Nostrum", appunto in base a una presunta discendenza dagli antichi romani, nessuno in Italia si sogna di rivendicare le terre che duemila anni fa furono conquistate dalle legioni di Roma. E’ una misura di buon senso, che oltre alla prudenza (pensate se gli arabi rivendicassero la Sicilia, e così via) si richiama all’impossibilità di concepire una precisa discendenza di un popolo da un altro di 2000 anni fa: pensate quanti Visigoti, Longobardi, Arabi, Normanni, Svevi, Turchi, Francesi, Spagnoli figurano tra i nostri reali antenati!
In realtà l’unica continuità possibile è quella di un territorio, all’interno del quale si sono succedute, combattute, amalgamate, fuse culture e popolazioni diverse, i cui apporti sono così strettamente intrecciati da essere se non indistinguibili, certo inseparabili.
In Palestina, la pretesa di uno dei popoli passati nel corso dei secoli su di essa come nomadi infiltrati e come guerrieri conquistatori di avere "diritti particolari" sul territorio a prescindere da tutti gli altri che si sono avvicendati e che si sono immessi nel crogiuolo da cui è nata la popolazione palestinese contemporanea, è paradossalmente ancor più infondata di qualsiasi altra rivendicazione territoriale riscontratasi nella nostra epoca. Ma lo è ancora di più perché, se abbandoniamo insieme alla diaspora ebraica la Palestina e ne seguiamo le vicende nel bacino del Mediterraneo e in Europa nel corso di venticinque secoli, ci accorgiamo che il legame tra quelli che si definiscono Ebrei oggi e gli abitanti della Palestina antica è fragilissimo, e in minima parte riconducibile a un’eredità biologica, a una discendenza fisica degli abitanti antichi di quella che viene definita dai sionisti la "terra dei nostri padri".
Gli Ebrei dispersi in tutto il mondo mediterraneo già da parecchi secoli prima che gli sfortunati esiti delle due rivolte antiromane del 66-70 e del 132-135 d.C. provocassero nuove deportazioni, erano molto più numerosi, come abbiamo già accennato, di quanti restavano in Palestina. Ma anche quelle due più drastiche riduzioni in schiavitù di parti importanti degli abitanti della Palestina, ai quali i Romani non rimproveravano le credenze o qualche altra particolarità "razziale" (giacché erano tolleranti o indifferenti sul piano religioso, e privi di pregiudizi etnici al punto di avere non pochi imperatori appartenenti a gruppi nazionali estremamente minoritari) bensì la fierezza nel rivendicare un’indipendenza a cui molti altri popoli avevano più facilmente rinunciato, non avevano determinato la scomparsa degli ebrei dal territorio.
Infatti, come tutte le altre deportazioni di popolazioni consuete nell’ antichità, quelle del 70 e del 135 avevano coinvolto gli strati superiori degli Ebrei palestinesi, mentre gran parte degli abitanti, dediti all’agricoltura, non erano stati toccati. Una parte delle stesse classi dominanti aveva rapidamente trovato un accordo con i Romani, che avevano consentito l’apertura di una importante scuola rabbinica a Jabne, e avevano riconosciuto il suo capo come nasi (principe), cioè rappresentante degli Ebrei di tutto l’Impero Romano (ad esso venivano versate le decime originariamente inviate al Tempio). Anche dopo la repressione della seconda insurrezione, che comportò l’allontanamento degli Ebrei da Gerusalemme e dalla Giudea, i Romani ribadirono il riconoscimento del nasi, affiancato da un Sinedrio di 70 rabbini. Anche se l’autorità dei rabbini e dei nasi della Galilea finì per essere riconosciuta, su importanti questioni, perfino dalla ricca comunità mesopotamica, la fine di Gerusalemme accrebbe di fatto il peso dei centri periferici; il prestigio dei saggi di Jabne prima e poi di Tiberiade era riconosciuto solo per il loro intrinseco valore e non era più legato al monopolio sacerdotale del sacrificio nel Tempio.
Le discriminazioni antiebraiche più volte riproposte in età cristiana, e in particolare il divieto di ritornare nell’antica capitale, resero la pur sempre numerosa colonia ebraica palestinese (da 300 a 400.000 persone alla metà del VII secolo) disponibile ad accogliere con entusiasmo prima i Sassanidi, poi gli Arabi. Durante i 14 anni di dominazione persiana (614-628) pare anzi che il governatore di Gerusalemme fosse un ebreo, e che una folta guarnigione ebraica affiancasse i nuovi signori, vendicandosi sulla maggioranza cristiana per le antiche vessazioni. Duramente colpiti nel decennio di restaurazione bizantina, gli Ebrei di Palestina, come gran parte di quelli sparsi nel bacino mediterraneo, accolsero con sollievo la conquista islamica, che assicurava loro parità di diritti con i cristiani e restituiva ad essi la possibilità di organizzarsi autonomamente sul modello già introdotto dai Romani (e basato sull’assegnazione di funzioni amministrative e giudiziarie ai capi religiosi, che divenivano responsabili per l’intera comunità di fronte ai governatori). Prima e dopo la conquista turca non mancarono neppure governatori e altissimi funzionari di religione ebraica, in Palestina e altrove. Se il numero degli Ebrei presenti in Palestina si ridusse progressivamente a poche decine di migliaia (in certi periodi anche meno) non fu dunque dovuto a persecuzioni o a discriminazioni (con l’unica eccezione del periodo delle Crociate, giacché la conquista cristiana fu accompagnata da grandi massacri di Ebrei) ma a conversioni e più in generale a un processo di assimilazione culturale, di adattamento all’ambiente. D’altra parte si tratta di un fenomeno non esclusivamente palestinese: dopo la conquista islamica -ma a volte già nei secoli immediatamente precedenti- si perdono le tracce di importanti comunità ebraiche, sopratutto nell’Africa settentrionale; in genere scompaiono o si riducono ai minimi termini tutti i gruppi ebraici prevalentemente dediti all’agricoltura o alla pastorizia.
Un altro elemento di riflessione è fornito dal fallimento di tutti i tentativi di ricolonizzare la Palestina con Ebrei, tentati prima della fine del XIX secolo. Il caso più significativo è quello di Juan Miguez, rampollo della potente famiglia marrana dei Mendes, fuggito dall’Europa nel 1553 e ritornato all’ebraismo a Costantinopoli (col nome di José Nassi), dove raggiunse un’enorme influenza alla corte del Sultano.
Nominato signore di Tiberiade (successivamente fu anche duca di Naxos e per qualche tempo aspirò alla carica di re di Cipro), José Nassi tentò di organizzare una sistematica colonizzazione della regione, di avviare manifatture e fattorie, di ridare a Tiberiade l’antico splendore ricostruendola e ripopolandola esclusivamente con Ebrei. Tuttavia, in quegli anni di persecuzioni (che soprattutto nella penisola iberica colpivano in nome della "purezza del sangue" -anche gli Ebrei convertiti al cristianesimo da decenni), anche se un gran numero di Ebrei cercava rifugio nell’Impero Ottomano, pochissimi accettarono la proposta del loro potente correligionario, giacché la maggioranza preferì disseminarsi nelle città in cui trovava spazi per le proprie attività e dove magari era accolta da vecchi soci in affari.
Ancor più ignorato dalla maggioranza degli Ebrei d’oriente e d’occidente fu l’appello lanciato da Napoleone durante la campagna d’Egitto per ottenere il sostegno in cambio dell’appoggio per la ricostruzione di un regno ebraico in Palestina.
Per capire le ragioni di questo atteggiamento, occorre ritornare indietro nel tempo e vedere i fattori che determinarono lo sviluppo delle comunità ebraiche in Europa mentre negli stessi secoli incominciava a declinare quella palestinese.
Abbiamo già ricordato che all’origine della diaspora c’erano state molte ragioni, tra cui prevalentemente quelle economiche.
La Palestina, se era potuta apparire una "terra di latte e miele" ai pastori nomadi che si affacciavano su di essa dal deserto, non era tuttavia un paese in grado di nutrire una popolazione molto numerosa; gran parte dei primi emigrati si offrivano come mercenari, analogamente a quello che accade in epoche successive ad altre popolazioni abituate a una vita non troppo facile in terre relativamente povere (caso più famoso, ovviamente gli Svizzeri, che per secoli furono i mercenari per antonomasia). Altri gruppi di Ebrei si installarono in varie zone del bacino mediterraneo come artigiani o mercanti e costituirono una parte importante della popolazione di città come Alessandria già vari secoli prima della conquista romana.
Tuttavia, in tutta l’età classica, le pur ricorrenti polemiche antigiudaiche non insistono mai su un particolare ruolo degli Ebrei nel commercio: a volte vengono denunciati come rissosi, per l’aggressività nel proselitismo, per i legami di gruppo molto forti, per l’ignavia (agli schiavisti romani, che non lavoravano neppure un giorno all’anno, pareva uno sperpero incredibile il riposo sabbatico), per una presunta sfrenatezza sessuale (la stessa che veniva incredibilmente addebitata ai primi cristiani dai polemisti pagani), ma non per un eccessivo arricchimento. E infatti ancora nei primi tre secoli della nostra era i mercanti ebrei erano lontanissimi dal detenere il monopolio del commercio nel Mediterraneo, nel quale erano attivi molti altri popoli, prevalentemente orientali, soprattutto fenici e siriani.
Secondo Baron, la percentuale degli ebrei che partecipavano alla vita commerciale dell’Impero Romano "non era notevolmente superiore alla percentuale che essi rappresentavano rispetto all’insieme della popolazione". D’altra parte il numero degli schiavi ebrei era esiguo, anche dopo le grandi deportazioni seguite alle rivolte giudaiche, giacché i proprietari romani, infastiditi per il basso rendimento provocato dal rifiuto, anche a prezzo della vita, di lavorare il sabato, preferivano accettare il riscatto pagato dalle comunità della zona per i loro confratelli in cattività.
Non mancavano neppure i casi di liberti di origine ebraica affermatisi come funzionari imperiali o come esattori delle imposte. Insomma, nessun ruolo particolare, nessun elemento che distinguesse la sorte degli ebrei disseminati nell’Impero Romano da quella di tanti altri popoli ugualmente presenti in vaste aree lontane dal territorio di cui erano originari. Le persecuzioni che cominciano a subire le comunità ebraiche subito dopo l’affermazione del cristianesimo sono a volte gravi, ma anch’esse non eccezionali: non solo i "pagani" recalcitranti, ma tutte le confessioni cristiane volta a volta bollate come eretiche subiranno attacchi non meno gravi.
In ogni caso, nella società ellenistica e in quella romana, la polemica antiebraica è solo religiosa o culturale, mai "razzista". Oltre alle ragioni più generali (il carattere etnicamente assai composito degli stessi gruppi dirigenti negli Stati ellenistici e nello stesso Impero Romano), non poteva non pesare il fortissimo proselitismo ebraico, che trasformò profondamente la composizione del "popolo di Israele" nella diaspora. Tutta la penetrazione ebraica nel bacino mediterraneo è legata a conversioni non meno che a una diretta colonizzazione. In epoca romana, il proselitismo ebraico aveva raggiunto perfino la famiglia imperiale (la stessa Poppea pare ne fosse stata conquistata) e, nel corso dei primi secoli della nostra era, le conversioni continueranno a toccare spesso personaggi altolocati, tra i quali il re dello Yemen, Dhu Nuwas, nel VI secolo, e la dinastia reale cazara, nell’VIII secolo.
A proposito della Gallia romana, e più in generale dell’Europa, Poliakov afferma che è possibile che "cristianesimo ed ebraismo si siano impiantati in Occidente in modo analogo, essenzialmente
attraverso conversioni, e che l’ebraismo abbia preceduto il cristianesimo e ne sia stato, come in Oriente, l’indispensabile veicolo". Baron afferma ancor più categoricamente che la penetrazione ebraica, legata ai viaggi dei mercanti, avvenne spesso perché "diventare ebreo sembrava costituire un vantaggio più che un inconveniente per molte carriere economiche", giacché offriva "contatti complessi" e una protezione efficace basata sulla solidarietà, ma anche su organizzazioni comunitarie e istituzioni assistenziali. È evidente che una così profonda commistione etnica rendeva poco verosimile qualsiasi attacco in chiave "razzista".
Una trasformazione profonda e la definizione di una nuova fisionomia delle comunità ebraiche si delineerà soltanto nei secoli che intercorrono tra le invasioni barbariche e le Crociate, nei secoli cioè che hanno lasciato una più esigua traccia documentaria. Al termine del primo millennio troviamo ormai nettissima la specializzazione nel commercio e nel prestito di denaro, che verrà presentata poi dagli antisemiti come una caratteristica innata nell’ebraismo.
I fattori che hanno determinato quella trasformazione sono molteplici e non esclusivamente riducibili alle prescrizioni legali.
In primo luogo, le comunità ebraiche si sono trasformate in seguito alle conversioni al cristianesimo prima e poi all’islamismo. Il cristianesimo si sviluppa nei primi secoli tra gli strati più diseredati della popolazione ebraica dispersa nelle grandi città del Mediterraneo; l’effetto combinato delle conversioni e delle deportazioni, in seguito alle grandi rivolte del I e II secolo (da cui gli Ebrei cristiani si erano clamorosamente dissociati), aveva ridotto fortemente le comunità ebraiche palestinesi e soprattutto egiziane (mentre in Palestina rimarrà una buona presenza ebraica fino al VII secolo, ad Alessandria, dopo la rivolta antiromana del 115-117 d.C., il peso degli Ebrei si riduce a poca cosa).
La conquista islamica è stata appoggiata dalla popolazione ebraica in i Siria, nell’Africa del Nord e soprattutto in Spagna: la stragrande maggioranza degli Ebrei dediti all’agricoltura si convertono alla nuova religione. Soprattutto in Palestina, per alcuni secoli non rimangono che alcuni nuclei ebraici numericamente insignificanti, mentre il grosso della popolazione diventa musulmana, assume l’arabo come lingua (sono gli antenati degli attuali palestinesi).
Che la resistenza all’assimilazione da parte delle altre religioni monoteistiche fosse più facile nelle grandi concentrazioni urbane rispetto ai gruppi dispersi nelle campagne o nelle steppe semidesertiche (come le tribù ebraiche dell’Arabia), è ovvio, non foss’altro che per le difficoltà poste dal rispetto delle minuziosissime prescrizioni alimentari, rituali e igieniche -bibliche e talmundiche- per nuclei familiari isolati.
Ma il problema storico non è solo quello della sopravvivenza del giudaismo nelle città, bensì quello della sua trasformazione in "popolo-classe" per usare la definizione di Abram Léon, che sviluppa efficacemente spunti già presenti in Kautsky).
Gli ebrei, infatti, che erano già presenti nel commercio mondiale prima della caduta dell’Impero Romano (e, anzi, addirittura prima del suo apogeo), raggiunsero una prosperità ancora maggiore dopo la fine di questo. Léon osserva a questo proposito che gli ebrei si sono preservati "non malgrado la loro dispersione, ma proprio come conseguenza di essa".
Se fosse rimasta solo la comunità palestinese, senza che la diaspora avesse disseminato in tutto il mediterraneo comunità ebraiche, "non ci sarebbe ragione di credere che il loro destino sarebbe stato diverso da quello di tutte le altre nazioni dell’antichità", che si sono mescolate con le varie ondate di dominatori, assumendone costumi e religione: anche se gli attuali abitanti della Palestina avessero continuato a portare il nome di Ebrei, avrebbero avuto pochissimo in comune con gli antichi ebrei, così come gli abitanti attuali dell’Egitto, della Siria o della Grecia hanno poco in comune con i loro antenati dell’antichità, osserva Léon.
L’Impero Romano ha portato con sé, nella sua caduta, tutti i suoi popoli. Solo gli Ebrei si sono preservati, perché portarono nel mondo barbarico, che segui quello romano, le vestigia dello sviluppo commerciale che aveva caratterizzato il mondo antico. Dopo lo smembramento del mondo mediterraneo, essi continuarono a legare fra di loro le sue parti sparse.
Ma perché solo gli ebrei, se non erano gli unici a esercitare il commercio nel mondo antico? La risposta fornita da Léon (ma con elementi presenti in Baron) è: perché sono gli unici ad avere un elemento di coesione nella propria religione e nella stessa organizzazione comunitaria, e perché attraggono e incorporano i resti di almeno due altre popolazioni che nell’antichità avevano avuto un grande peso nel commercio mediterraneo, i Fenici e i Siriani.
Il fattore religioso è importantissimo: tutte le altre religioni del bacino del mediterraneo finiscono per essere soppiantate dal cristianesimo tra il IV e il VII secolo (e dall’islamismo a partire dal VII secolo). E il cristianesimo non si afferma solo con la repressione e le conversioni forzate, ma anche con la superiorità di una religione monoteistica che, per giunta, sa incorporare al proprio interno non pochi elementi dei culti precedenti.
Il giudaismo resiste in parte per il suo rigore monoteistico (come l’Islam, accuserà il cristianesimo di aver fatto concessioni al politeismo attraverso l’enorme spazio riservato al culto dei santi nella devozione popolare), ma soprattutto perché offre una legittimazione del commercio e dell’usura (a esso strettamente legata), che il cristianesimo respinge e condanna, pur senza poterne fare ameno.
È noto che anche nei secoli immediatamente successivi alla fine dell’Impero Romano il commercio mediterraneo, pur ridotto drasticamente, non sparisce completamente. L’insicurezza delle vie marittime e di quelle carovaniere aumenta straordinariamente i costi e riduce ulteriormente il mercato: la circolazione delle merci si riduce quasi esclusivamente alle spezie e ai prodotti di lusso, provenienti da centri artigianali ad alta specializzazione. Il rischio individuale per una nave o una carovana di mercanti diventa altissimo, in assenza di un’autorità centrale in grado di assicurare protezione dai pirati, dal brigantaggio, dai soprusi e dalle razzie di signori locali. Il divieto espresso nel Deuteronomio ( "Non presterai a interesse a un tuo fratello né denaro, né alimenti né un’altra cosa; allo straniero si. Al fratello tuo invece presterai senza interesse ciò di cui lui ha bisogno", Deut XXIII, 19-20), fatto proprio dal cristianesimo nella sua interpretazione più ampia, rendeva impossibile qualsiasi investimento di capitali nel commercio tra "fratelli" cristiani.
È questo che determina il rafforzamento e la "specializzazione" nel commercio e nel prestito a interesse delle comunità ebraiche, che assorbono in più occasioni altri nuclei di mercanti di altra origine etnica (come i siriani, che vengono condannati insieme agli ebrei da San Gerolamo e di cui alcuni secoli dopo non troviamo più traccia nelle attività commerciali). La società basata sull‘economia naturale ha bisogno del tesoro dell’usuraio, che costituisce la riserva a cui la società attinge allorché intervengono circostanze accidentali. Se, dal punto di vista legale, l’usura è permessa teoricamente a qualunque non cristiano, di fatto lo stato di guerra permanente con l’ Islam esclude, salvo casi sporadici, che possano installarsi mercanti o usurai musulmani all‘interno dei paesi cristiani. Gli Ebrei, invece, non solo sono già presenti nell’Europa cristiana, ma mantengono legami religiosi, culturali e commerciali con quei nuclei di correligionari che hanno resistito all’assimilazione dopo la conquista islamica di gran parte dell’Oriente e del bacino mediterraneo, dalla Spagna al Nord Africa e alla Sicilia. Dall’VIII secolo, in particolare, il centro dell’ebraismo diventa la Spagna musulmana, dove le comunità ebraiche prosperano e si sviluppano, fornendo tra l’altro uomini di cultura e di governo ai conquistatori, ma soprattutto diventando il tessuto connettivo tra il mondo islamico e quello cristiano.
In questa situazione era logico che gli ebrei si andassero concentrando nel commercio, soprattutto internazionale, tra mondo arabo e Europa occidentale. Oltre alla loro neutralità culturale nel conflitto tra musulmani e cristiani, giocava a loro favore il fatto che i loro nuclei esistessero quasi ovunque come colonie commerciali prive di qualsiasi struttura politico-militare, sia pure a livello di città-stato; il che significava evidentemente che erano utili e nel contempo per niente pericolosi.
Anche nell’Europa carolingia il peso degli ebrei aumenta e, accanto a mercanti o artigiani specializzati nella lavorazione dei metalli preziosi e delle gioie, troviamo sempre più frequentemente banchieri o usurai (come distinguere le due attività se la Chiesa in quel periodo condanna come usura qualsiasi prestito, anche se a interessi inferiori a quelli oggi normalmente praticati da qualsiasi banca?), esattori di imposte o di gabelle, scrivani o amministratori dei beni reali e, a volte, "diplomatici" inviati presso sovrani lontani.
Se la Chiesa cattolica continua, a volte con asprezza accresciuta, la sua polemica religiosa contro gli Ebrei in quanto miscredenti, la frequenza con cui deve ribadire il divieto di intrattenere rapporti amichevoli con essi conferma che, in realtà, non esiste nessuna separazione reale, mentre esiste un frequente confronto culturale. Alcuni vescovi della Francia carolingia si accanirono nel condannare la pericolosa familiarità dei cristiani con gli ebrei: "molti di noi dividono volentieri con loro i cibi del corpo e si lasciano anche sedurre dalla loro nutrizione dello spirito [...] Le cose sono arrivate al punto che i cristiani ignoranti pretendono che gli ebrei predichino meglio dei nostri preti; dei cristiani arrivano a festeggiare il sabato con gli ebrei e a violare il sacro riposo della domenica.
Molte donne vivono come domestiche o salariate presso gli Ebrei, che ne distolgono alcune dal loro dovere. Degli uomini del popolo, dei contadini si lasciano trascinare in un tale mare di errori da vedere gli Ebrei il solo popolo di Dio e trovare in esso l’osservanza di una religione pura e di una fede molto più sicura della nostra".
Ma questi appelli allarmati non trovarono molto ascolto presso il gregge cristiano e, tanto meno, presso i sovrani carolingi, che assicurarono protezione alle minoranze ebraiche (almeno fino a quando essi mantennero una qualche autorità, prima dello sprofondamento dei loro territori nell’anarchia feudale). il proselitismo ebraico, pur vietato, toccava perfino ecclesiastici di un certo peso, come il confessore di Ludovico il Pio, Bodo, che nell’829 si rifugiò a Saragozza, assumendo il nome ebraico di Eleazar e sposando un’ebrea.
In nessun modo, fino all’XI secolo, si può parlare di persecuzioni antiebraiche o di antisemitismo diffuso.


La svolta del secolo XI

La I Crociata, bandita alla fine del secolo XI, segna tragicamente una svolta radicale nella condizione degli Ebrei d’Europa. Ben prima che la spedizione, decisa nel 1095 a Clermont, potesse anche solo avvicinarsi alla "Terra Santa" e agli odiati musulmani, bande di facinorosi, capeggiati dal "nobile" avventuriero Emicho di Leisingen, spazzano via come un uragano le comunità ebraiche della valle del Reno. In precedenza, sono state attaccate le comunità di Rouen e di Metz, che invano hanno lanciato messaggi di allarme ai confratelli renani. A Spira, a Worms, a Magonza, a Colonia, a Treviri le turbe di crociati assaltano gli ebrei fin nelle residenze dei vescovi che hanno offerto loro protezione. La scia di sangue si sposterà poi con la "crociata popolare", verso Oriente: lungo la strada saranno spazzate via intere comunità ebraiche, tra cui quella di Praga. Anche la presa di Gerusalemme vedrà un massacro generalizzato di Ebrei, insieme ai musulmani.
In molti casi, intere comunità ebraiche assediate e minacciate di conversione forzata preferiranno il suicidio collettivo.
La II Crociata avrà conseguenze meno drammatiche e un bilancio di morti meno alto, soprattutto perché le comunità ebraiche si sono premunite arroccandosi in zone appartate o fortificate durante la predicazione e il passaggio dei crociati. Ma è proprio durante la II Crociata che comincia a essere diffusa in tutta l’Europa la leggenda dell’omicidio rituale praticato dagli ebrei, che innescherà periodici assalti ai quartieri ebraici in molte città.
Per comprendere le ragioni di questo mutamento nella condizione ebraica in Europa, occorre guardare al di là del contesto religioso specifico -che pure ovviamente incise- della "guerra santa" contro gli infedeli.
In realtà, già da più di un secolo stanno cambiando molte cose in Europa e si sta modificando la stessa collocazione sociale degli Ebrei. Sono comparsi altri mercanti, altri banchieri, una nuova borghesia non più legata esclusivamente al commercio di pochi prodotti provenienti da paesi lontani, ma interessata direttamente alla produzione di merci particolarmente apprezzate: le lane inglesi, i drappi fiamminghi, i tessuti fiorentini e veneziani, il sale veneto: "l’evoluzione dello scambio dell’economia medioevale fu fatale alle posizioni degli Ebrei in campo commerciale. Il mercante ebreo importatore di spezie in Europa ed esportatore di schiavi veniva rimpiazzato da rispettabili commercianti cristiani a cui l’industria urbana forniva i prodotti principali del loro commercio. Questa classe indigena di commercianti si scontrò violentemente con gli Ebrei, che occupavano una posizione economica sorpassata, retaggio del passato" (A. Léon).
A Venezia, già ne1945, si vieta ai mercanti ebrei l’accesso alle navi che facevano rotta per l’Oriente. il commercio via terra, più rischioso ed esposto a infiniti prelievi da parte di ciascun signore feudale (prima ancora di essere minacciato dall’incontro con qualche banda di crociati), diventa sempre più difficile per gli Ebrei, che, a differenza dei mercanti italiani o anseatici, non potevano contare sulla protezione delle città d’origine.
In questo modo, nel corso del X e XI secolo, l’usura cessa di essere un’attività marginale e collegata al commercio (sotto forma di credito al nobile bisognoso di mantenere il suo status sociale di fronte ai nuovi ricchi) e diventa per molti ebrei l’attività prevalente o esclusiva. A ciò essi sono spinti da molteplici fattori: le facilitazioni (rispetto ai concorrenti cristiani) derivanti dall’assenza di divieti religiosi, la disponibilità di denaro accumulato precedentemente nel commercio (e, "nella rudimentale economia dell’epoca, quasi esclusivamente d’uso, gli scambi commerciali -e la moneta- hanno un ruolo insignificante, mentre invece il ruolo dell’usuraio è molto più importante che al giorno d’oggi, proprio perché il denaro è raro, ed è possibile procurarsene in caso di bisogno solo dalla gente del mestiere" (A. Léon).
Dopo l’inizio dei massacri con cui si avvia la I Crociata, nel l096, comincerà inoltre a pesare un altro fattore: gli ebrei, permanentemente in pericolo, minacciati di distruzione odi confisca dei beni immobili (quasi sempre, al termine di un massacro, i signori feudali o lo stesso vescovo, che magari aveva offerto una qualche protezione, incameravano i beni degli uccisi o di coloro che erano stati costretti a fuggire), cominciarono a privilegiare l’accumulazione di averi facilmente dissimulabili in caso di pericolo: cioè oro e argento. Così, a mano a mano, cominciano a diradarsi le tracce di proprietà terriere in mano a ebrei, molto tempo prima che esplicite norme neghino loro formalmente il diritto di possederne.
In ogni caso, ad accelerare questa riconversione del commercio verso
1’usura, sarà decisiva la "protezione" accordata agli ebrei da sovrani e signori feudali, che li utilizzeranno praticamente come prestanome, attraverso un prelievo sempre più forte di percentuali elevatissime sui loro utili.
L’insicurezza dei prestiti, per giunta, contribuirà a un’ulteriore specializzazione nel piccolo prestito a pegno, particolarmente odiato da chi è costretto a ricorrervi. Non è difficile immaginare come fosse facile, per i nobili indebitati, raccogliere tra la plebe cittadina una turba sufficiente per assaltare i quartieri degli ebrei.


Dal feudalesimo al regime di scambio

Nelle città più prospere commercialmente, nuovi banchieri -"Lombardi" e "Caorsini" (ma anche Fiorentini, Genovesi, ecc.)- strappano la terra sotto i piedi ai concorrenti Ebrei, che si concentrano nelle zone ancora marginali rispetto ai nuovi poli di sviluppo.
In Inghilterra, ad esempio, i banchieri ebrei prosperano ancora nel XII secolo, e il più famoso di loro, Aaron di Lincoln, aveva accumulato una immensa fortuna: il solo re Enrico II gli doveva ben 100.000 sterline, somma equivalente al bilancio annuale del regno di Inghilterra in quel periodo. Ma erano ricchezze estremamente insicure. Nel 1187 il re stesso, invece di saldare il debito, confiscò con un pretesto tutti beni di Aaron. D’altra parte, tutti i debiti contratti da privati cittadini venivano registrati nello Scaccarium Judaeorum e, su ciascuna somma prestata, veniva effettuato un prelievo del 10% a favore del tesoro reale, spesso aggravato da sovrimposte di varia natura.
Seguendo l’ esempio reale, per giunta, nel 1189 i nobili indebitati organizzarono una sommossa per massacrare i loro creditori e, nel 1190, distrussero lo di York, bruciando tutte le promesse di pagamento ivi conservate. Gli Ebrei, assediati nel castello, si suicidarono in massa. Tuttavia, il re continuò a esercitare la sua benigna protezione sugli Ebrei anche dopo la loro morte, e pretese il versamento integrale delle somme ad essi dovute, incamerandole in virtù del fatto che gli Ebrei erano "schiavi del suo tesoro"! Il periodo iniziato con i massacri che accompagnano la I Crociata segna duramente la sorte degli ebrei in tutta l’Europa e si conclude con l’espulsione in massa dall’Inghilterra, alla fine del XIII secolo; dalla Francia alla fine del XIV secolo e, alla fine del XV secolo, dalla Spagna.
Gli ebrei furono progressivamente espulsi da quasi tutte le città dell’Europa occidentale (a volte, in più riprese, con riammissioni temporanee in cambio di fortissime indennità, che preludevano a più feroci spoliazioni). Quasi sempre, la persecuzione si ammantava di motivazioni religiose e si intrecciava a conversioni forzate, che daranno origine in Spagna al fenomeno dei marrani.
Lungi dall’essere, quindi, promotori e beneficiari dello sviluppo capitalistico, gli Ebrei europei cominciarono a subire persecuzioni e massacri proprio agli albori della formazione di una borghesia autoctona, che non può essere considerata estranea a tali vicende (anche se, indubbiamente, a determinarle confluivano motivazioni religiose radicate e anche una spontanea ostilità, diffusa tra i ceti popolari a causa dell’esercizio del prestito a pegno).
Nel XVI secolo non ci sono più nuclei consistenti di Ebrei nell’Europa più progredita.Il rifugio principale è divenuta la Polonia, immersa nel caos feudale, anche se alcune comunità sopravvivono nelle zone più arretrate della Germania e dell’Italia. Nel nostro paese, ad esempio, gli Ebrei non sono quasi mai presenti nelle ricche repubbliche di Venezia, Genova e Firenze, mentre trovano spazi negli Stati Pontifici, dove il divieto di usura per i cristiani era, ovviamente, più rigidamente rispettato.
Molti gruppi di Ebrei, tuttavia, sono fuggiti in Oriente, dove hanno trovato ospitalità e protezione presso le comunità inserite nell’Impero Ottomano. Il fatto che alcuni di essi siano arrivati a posizioni di grande rilievo economico e politico presso il Sultano non poteva certo migliorare la sorte dei loro correligionari rimasti in paesi cristiani.
La condizione della maggior parte degli Ebrei in Europa, fino al XVII secolo, risulta quindi, per varie ragioni, precaria. Nel complesso marginali rispetto ai grandi centri di sviluppo capitalistico e concentrati nei pori di società semifeudali, essi subiscono ovunque pesanti limitazioni legali, che accentuano la loro "specializzazione" professionale, mentre possono relativamente prosperare solamente dove vengono ancora una volta utilizzati come strumenti indiretti delle classi dominanti. In questa condizione subalterna e al tempo stesso, associata al potere, maturano le condizioni per l’esplosione di nuove e ancor più pericolose forme di odio antigiudaico o, come si dirà a partire dalla fine del XIX secolo, di antisemitismo.


Gli Ebrei nell’età moderna e contemporanea

Mentre la grande massa degli Ebrei europei si concentra nelle cittadine polacche o lituane e ai margini di alcune città tedesche, piccoli nuclei di ricchi commercianti di origine portoghese o spagnola si sono installati in Olanda, in alcune città della Francia e in Inghilterra. Sono giunti come "nuovi cristiani", "marrani", ma appena hanno trovato un minimo di condizioni favorevoli, hanno riabbracciato l’ antica religione di cui avevano conservato in segreto, nei limiti del possibile, l’osservanza.
La Repubblica calvinista olandese, fin dal 1579, ha offerto condizioni particolarmente favorevoli e, non a caso, si avrà nei Paesi Bassi una fioritura di pensiero ebraico, a volte tanto eterodosso da vederlo messo al bando sia dai rabbini sia dai cristiani, come avvenne per Baruch Spinoza. Nel periodo del trionfo puritano nell’Inghilterra di Cromwell, un rabbino di Amsterdam, Menassé ben Israel, dopo una lunga corrispondenza su argomenti religiosi, riuscì a ottenere per alcuni correligionari il permesso di installarsi a Londra e in varie città inglesi e delle colonie. Piccoli nuclei di ebrei sefarditi, quasi sempre giunti come marrani e poi ritornati pubblicamente al giudaismo, compaiono tollerati e spesso protetti ad Amburgo, a Francoforte, a Berlino, a Vienna.
Si tratta di nuclei esigui, già in partenza molto ricchi (e per questo relativamente bene accolti), che quasi sempre vedranno con aperto fastidio l’arrivo di profughi aschenaziti, provenienti dalle zone del regno di Polonia e Lituania sconvolte dai pogrom che accompagnano le rivolte contadine a partire dal 1648. Il loro successo economico ne facilita quello politico: alcuni di loro vengono chiamati, nel corso del XVII secolo, presso le innumerevoli corti dei re e principi tedeschi come amministratori, factotum, organizzatori dell’approvvigionamento degli eserciti.
Questi "ebrei di corte" (che sono contesi da tutti i signori protestanti, cattolici o miscredenti e colmati di privilegi e di onori) a volte accumulano enormi fortune, investendo in attività speculative non solo i propri capitali, ma quelli del signore di cui sono collaboratori: è il caso dei Rothschild, che iniziarono la loro ascesa come prestanome del ricchissimo margravio di Kassel.
Questo nucleo ebraico ristrettissimo non modifica, nel complesso, la condizione delle grandi masse ebraiche; nel migliore dei casi, se ne interessa a livello filantropico o ne assume una qualche rappresentanza presso il sovrano, ma in realtà ne è lontanissimo come interessi e mentalità.
Tuttavia, la caratteristica essenziale di questa ascesa sociale di una piccola ma vistosa porzione degli Ebrei europei è che, nonostante le apparenze, rimane marginale rispetto al capitalismo industriale nascente; al contrario, essi derivano la loro potenza dal rapporto col corpo politico, e non dalle posizioni nella società. Il loro ruolo sembra accrescersi, a mano a mano che si consolidano gli Stati nazionali moderni, alla cui formazione essi contribuiscono efficacemente.
Ma, contrariamente alla leggenda diffusa nella seconda metà del secolo XIX dell’antisemitismo moderno, la loro posizione non è stabile né duratura: una volta messo in piedi uno Stato moderno, la funzione di un finanziatore privato del sovrano viene meno.
Contemporaneamente a questa appariscente ascesa di una piccola cerchia di ebrei privilegiati, le condizioni della più grande concentrazione ebraica d’Europa (e del mondo), quella polacca, cominciano a peggiorare rapidamente, Alla fine del Settecento, le spartizioni della Polonia portano gli ebrei polacchi all’interno della Prussia, dell’Impero asburgico e della Russia zarista: tre Stati che, in misura diversa, avevano cercato di tenere lontani gli Ebrei, o di ammetterne solo piccoli nuclei in base a funzioni precise. Soprattutto la Russia, che non aveva mai voluto ebrei al suo interno, si trovava a dovere assorbire la maggior parte della popolazione ebraica della Polonia.
I processi di assestamento di fronte a questa nuova realtà erano appena iniziati e già venivano sconvolti dalle ripercussioni politiche e militari della rivoluzione francese. Quest’ultima aveva, sia pur con qualche esitazione iniziale, soppresso le leggi che limitavano i diritti civili degli Ebrei e tale emancipazione, insieme alle altre misure antifeudali, era stata esportata dalle armi napoleoniche in tutta l’Europa.
La conseguenza inevitabile era: da un lato, un’ondata di gratitudine e di simpatia per la Francia, dall’altro, il sospetto di tutti i reazionari verso gli Ebrei. E’ appunto negli ambienti dell’emarginazione aristocratica francese che nasce la leggenda della "cospirazione giudaica" come causa della rivoluzione francese. Era un ‘ assurdità, smentita da tutti i dati verificabili (non solo l’impossibilità di ridurre un così profondo processo sociale e politico a una manovra di qualche "centro occulto", ma anche la sostanziale assenza di Ebrei da tutte le vicende essenziali della rivoluzione e perfino un discreto "antisemitismo" diffuso tra parecchi protagonisti della scena politica francese); ma ciò non toglie che, ancora oggi, ci sia gente che lo crede e lo ripete.
In ogni caso, nell’età della restaurazione, una parte delle giovani generazioni ebraiche finì per guardare con crescente fiducia ai movimenti rivoluzionari soprattutto dove le loro condizioni erano state drasticamente riportate indietro sul piano legale, mentre cominciavano ad essere scosse dalla disgregazione inarrestabile della vecchia società e dall’inizio dello sviluppo capitalistico. Indipendentemente dal ruolo realmente svolto dagli Ebrei nella prima fase della rivoluzione borghese, nel XIX secolo la "questione ebraica" diventa uno degli spartiacque tra le forze democratiche e socialiste e tutti coloro che volevano arrestare e riportare indietro il corso della storia.


La "questione ebraica" nell’ultimo secolo

La "questione ebraica" diventa esplosiva in gran parte dell’Europa a partire dagli ultimi due decenni del secolo XIX. Ed è a partire da questo periodo che il termine "antisemitismo" non è più improprio. Si può cogliere un elemento che accomuna le diverse manifestazioni dell’antisemitismo nei vari paesi europei in cui esso si sviluppa e diventa forza politica: il bersaglio reale non sono precise attività svolte dagli Ebrei nel momento dato, ma attività mitiche, inesistenti o legate a un passato che è stato già o sta per essere spazzato via dalle trasformazioni sociali che accompagnano lo sviluppo capitalistico.
Partiamo dall’Impero zarista, che è l’epicentro del fenomeno antisemita da molti punti di vista, sia per l’ ampiezza che ha la sua popolazione ebraica, sia perché 1 ‘elemento che renderà utilizzabile politicamente la presenza ebraica a Vienna, Berlino o Parigi sarà proprio l’ afflusso di profughi dalla Russia, clamorosamente "diversi" dal resto della popolazione (comprese le comunità ebraiche esistenti da tempo) per lingua, abbigliamento, mentalità in genere. Nell’impero zarista, lo sviluppo capitalistico è arrivato in ritardo rispetto al resto dell’Europa, ma ha avuto ripercussioni rapidissime su tutta la società e, ovviamente, sulle comunità ebraiche polacca, ucraina, lituana e bielorussa. All’epoca delle guerre napoleoniche, la specializzazione ebraica nel commercio era massiccia: erano gli intermediari tra i contadini e i signori. I signori davano loro in concessione le taverne e li costringevano a vendere solo bevande prodotte nei loro possedimenti. In occasione di feste, battesimi, funerali, matrimoni, i contadini erano tenuti ad acquisire almeno un secchio di acquavite. Gli Ebrei vendevano a credito ma esigevano un forte interesse.
Essi intervenivano in tutte le operazioni commerciali del paese ed esercitavano anche attività bancaria.
In Ucraina, Lituania e Bielorussia, ne1818, l’86,5%, degli Ebrei erano dediti al commercio, l’11,6% all’artigianato e solo l’1,9% all’agricoltura. Nel 1897, nel complesso delle "zone di residenza" in cui era ammessa la presenza ebraica nell’Impero zarista, gli addetti all’agricoltura sono ancora solo il 2,5% della popolazione ebraica, ma gli addetti al commercio e ai trasporti sono scesi al 34,6%. La maggioranza è già addetta all’industria (36,2%), anche se ci sono buone percentuali nelle "professione liberali, servizi di stato, servizi sociali" (7,2 % ) l nei "servizi personali" (11,9%) e nella categoria "possidenti, professioni improduttive indeterminate" (7,6%).
La svolta si è delineata a partire dal 1861, quando la soppressione della servitù della gleba e le altre riforme di Alessandro II creano quella che è stata chiamata la "serra del capitalismo".
Una parte degli ebrei si sposta verso l’industria, in genere artigianale o semiartigianale, in base alle tradizioni consolidate nei secoli. Altri emigrano, dapprima verso le altre città della Russia, a mano a mano che vengono allentate le remore legali poi, sempre più massicciamente, verso altri paesi d’Europa e soprattutto verso le Americhe. La media annuale negli anni compresi tra il 1830 e il 1870 si avvicina alle 5.000 unità alle 10.000 unità nel decennio 1871-1880, per poi salire vertiginosamente, appena cominciano le nuove discriminazioni e i pogrom, negli anni 1881-1900, tra i 50.000 e i 60.000 emigrati, mentre tra il 1901 e il 1914 arriva annualmente a 150.000-160.000 emigrati.
Al tempo stesso, anche le migrazioni interne si intensificano e portano a una straordinaria concentrazione degli ebrei nelle grandi città (mentre in precedenza avevano privilegiato, per scelta o per necessità, piccolissime città, quasi esclusivamente ebraiche, sparse nelle campagne).
Lo sviluppo capitalistico ha distrutto il vecchio tessuto feudale e semifeudale, all’interno del quale gli Ebrei dell’Europa Orientale avevano prosperato per secoli. Quelli che emigrano in altri paesi sono spinti a cambiare abitudini e mestieri più rapidamente ancora di quelli che si spostano all’interno dell’Impero Russo. Una delle confutazioni più sostanziali di uno dei cardini dell’ideologia sionista (che ha preteso di essere l’unico mezzo per riequilibrare la composizione sociale della popolazione ebraica spinta da secoli di discriminazioni, divieti e tradizioni a concentrarsi nel commercio) è rappresentato dalla spontanea riconversione verso l’industria di una parte notevolissima dei quasi 3 milioni di ebrei giunti negli Stati Uniti d’America tra il 1880 e il 1929: il 46% di essi, agli inizi degli anni trenta, erano divenuti operai.
Nella Russia prerivoluzionaria, tuttavia, la maggior parte degli Ebrei che si sposta rispetto alle tradizionali zone di residenza e lascia le attività abituali non trova, per varie ragioni, posto nell’industria nascente. Pesa molto la composizione tradizionale dell’artigianato ebraico, fortemente specializzato nel campo dell’abbigliamento (mentre non ebrei sono in genere i fabbri, i vasai, i tessitori). In ogni caso, se il ruolo degli ebrei era stato tollerato finché era rimasto immutato in una società statica, appare ora aggressivo e invadente quando esce dalle tradizionali città-ghetto e penetra nelle grandi città a composizione etnica mista, sia che si applichi ancora una volta al commercio, sia che riproponga la sartoria artigianale o entri in concorrenza con gli altri lavoratori per ottenere un posto nell’industria o nei servizi.
Tuttavia, in Russia l’antisemitismo non nasce spontaneamente, pur affondando le sue radici in una tradizione fortemente antigiudaica e in un sentimento diffuso nelle regioni occidentali (dove per secoli gli ebrei avevano avuto la funzione di intermediari dei signori) e trovando, come nel resto d’Europa, nuovo alimento nella concorrenza accresciuta tra gli appartenenti alla piccola borghesia (rovinati, in realtà, dallo sviluppo e dalla concentrazione capitalistica, ma ben lontani dall’averne coscienza).
È documentato largamente che, a partire dagli anni ottanta, l’antisemitismo viene sviluppato deliberatamente da organi di stampa legati al governo e direttamente dall’Ochrana, la polizia politica zarista. All’origine di questa scelta, oltre ai pregiudizi di origine religiosa che pesavano largamente sulle scelte dei Romanov (non solo quasi tutti rozzi e incolti, ma, per giunta, circondati da consiglieri spregevoli), c’era anche un equivoco sociologico: la convinzione che gli Ebrei fornissero una parte essenziale degli effettivi del movimento rivoluzionario. In un famoso colloquio tra il padre del sionismo, Theodor Herzl, e il ministro zarista, il conte Witte, quest’ultimo domandò come mai gli Ebrei, che costituivano appena il 3% della popolazione russa, fornissero il 50% dei rivoluzionari.
Ebbene, si trattava di un macroscopico errore perfino al momento del colloquio (agosto 1903), nonostante molte iniziative del governo zarista avessero rafforzato la determinazione dei giovani Ebrei a lottare per abbattere il regime esistente.
In realtà, un rapporto riassuntivo della polizia segreta per gli anni 1873-1877 parla di 67 ebrei tra i 1054 imputati per attività rivoluzionaria (il 6,35%). La percentuale degli Ebrei condannati per appartenenza al "Narodnaja Voja", negli anni 1880-1890, salì al 17% e, sul complesso dei 4.307 detenuti politici degli anni 1884-1890, 579 (cioè il 13,44%) erano Ebrei.
Tali cifre, pur tanto inferiori al 50%, di cui parlava Witte, possono sembrare una conferma, al di là dell’inesattezza numerica, della sostanza dell’accusa. Ma non è così: la percentuale degli Ebrei era effettivamente del 3% sulla popolazione complessiva dell’Impero zarista, ma le agitazioni politiche riguardavano esclusivamente le maggiori città, dove gli ebrei rappresentavano il 25% della popolazione! E non è tutto: il primo giornale russo a lanciare questo argomento era stato l’ufficioso "Novoe Vremja" (che aveva già pubblicato, nel 1879, larghi estratti del celebre pamphlet di William Marr, La vittoria del semitismo sul germanismo ), il quale aveva denunciato, nel 1880 il pericolo di un trionfo dei Yid anche in Russia, affermando che gli Ebrei (appunto il3 % degli abitanti dell’Impero), fornivano il 7% dei condannati politici e il 10% degli studenti liceali. Quest’ultimo dato era, secondo il giornale, quello più allarmante: da un 9,9% del 1876 si era passati al 10,7% nel 1877. A fermare questa marcia, ci avevano pensato i saggi governati vi che, a partire dal 1881, avevano introdotto severe restrizioni agli spostamenti degli Ebrei e, nel 1887 l avevano imposto un drastico numerus clausus per la loro ammissione agli istituti di insegnamento secondario (10% del totale degli allievi nella "zona" di più forte concentrazione ebraica, 3% nelle due capitali e 5% altrove; percentuali ulteriormente ridotte, nel 190l, rispettivamente al 7%, 2% e 3%), col brillante risultato di indirizzare altri giovani ebrei, tagliati fuori da uno sbocco credibile, verso scelte più decisamente rivoluzionarie. Come si vede, lungi dall’aver avuto una "naturale passione" per la sovversione rivoluzionaria, gli ebrei erano stati in origine sospinti verso i movimenti di opposizione dalle stesse contraddizioni che preparavano la rivoluzione russa e, solo in seguito all ‘inasprimento di misure discriminatorie (e dopo il lancio dell’antisemitismo come diversivo e sfogo per le masse sottoproletarie e piccolo-borghesi), essi avevano cominciato a indirizzarsi in misura maggiore verso i partiti di sinistra.
Che tale apporto ebraico al movimento operaio fosse una conseguenza della discriminazione e della politica dei governi zaristi (indipendentemente dalla falsa coscienza della classe dominante, che scambiava gli effetti per le cause) è confermato indirettamente dal peso assai più modesto degli ebrei nel movimento rivoluzionario di altri paesi, in particolare della Francia, dell’Inghilterra, dell’Italia.
A facilitare, poi, l’utilizzazione sistematica dell’antisemitismo da parte delle forze reazionarie di molti paesi fu, naturalmente, l’esistenza di alcune grandi famiglie di origine ebraica inseritesi stabilmente nel mondo della finanza: prima tra tutte quella dei Rothschild. Poco importa che il loro peso relativo nelle attività economiche non fosse realmente aumentato alla fine del secolo XIX, o che la maggior parte di queste famiglie di banchieri si fosse integrata talmente col resto della classe capitalistica "cristiana" da collegarsi a essa dapprima con i matrimoni poi molto spesso con i battesimi.
Riprendendo alcune osservazioni di Alexis de Toqueville sull’incidenza dell’ostilità popolare contro un’aristocrazia in declino tra i fattori che innescarono la rivoluzione francese, Hannah Arendt arriva a queste drastiche conclusioni:
"Non c’è un esempio migliore della storia dell’ antisemitismo, che raggiunse il punto culminante quando gli Ebrei avevano ormai perso ogni funzione e influenza nelle vita pubblica e non possedevano altro che la loro ricchezza. Al momento dell’avvento di Hitler al potere, le banche tedesche, in cui gli ebrei avevano occupato una posizione di primo piano per oltre un secolo, erano già quasi interamente judenrein , e la comunità ebraica in Germania andava così rapidamente assottigliandosi e perdendo influenza che gli statistici predicevano la sua scomparsa nello spazio di qualche decennio".
Ancora più brutalmente (rispetto alle convinzioni che il gruppo dirigente sionista alimenta deliberatamente, anche tra gli Ebrei della diaspora, per irrobustire i legami con lo Stato di Israele, interrompendo i processi naturali di integrazione-assimilazione nell’ambiente di residenza), si potrebbe dire che la spiegazione dell’antisemitismo va ricercata in prevalenza non nello specifico rapporto tra Ebrei e non Ebrei, ma nelle contraddizioni più generali di ciascun paese nel momento dato. L’unico elemento che dipenda dalla concreta realtà dei rapporti tra Ebrei e non Ebrei deriva dal passato, dalla sedimentazione nel senso comune (e nel subconsciente) delle masse non ebree di residui di vecchi risentimenti, di pregiudizi, di stereotipi consolidati.
Le circostanze della nascita di quello che diverrà il più pericoloso e cruento movimento antisemita, quello tedesco, confermano che, lungi dal sorgere come forza politica basata razionalmente su concreti interessi e su un programma definito, esso è scaturito dalla verifica empirica della disponibilità degli strati piccolo-borghesi in crisi a utilizzare, come spiegazione della loro proletarizzazione ed emarginazione, vecchi ma sperimentati schemi demonologici. Il pastore Stoecker, cappellano di Corte, aveva per esempio tentato in tutti i modi -senza successo- di sottrarre le masse proletarie berlinesi all’influenza socialista, quando si accorse che le sale di riunione, abitualmente semivuote o riempite di contestatori, si riempivano una volta proposto il tema dell’influenza nefasta degli Ebrei nella società tedesca. Si riempivano di bottegai, di artigiani, di pseudointellettuali frustati nelle loro velleità accademiche, ma si riempivano e assicuravano finalmente consensi di massa al predicatore. Era un precedente che avrebbe avuto, per il momento, modeste ripercussioni politiche, ma di cui la borghesia tedesca, al momento opportuno, si sarebbe ricordata: Hitler o Rosenberg sarebbero rimasti oggetto di studio per la psicopatologia individuale o -nel migliore dei casi- di gruppo, se il partito nazionalsocialista non fosse apparso, alla fine degli anni venti, uno strumento sgradevole ma efficace per scatenare le masse piccolo-borghesi contro il proletariato, utilizzando come coagulante -in luogo di argomenti concretamente basati su interessi comuni- uno stereotipo antigiudaico radicato da secoli nella cultura tedesca.
L’antisemitismo moderno si alimenta dei miti del passato, una volta verificatane la vitalità: ma non nasce da essi, li utilizza. La riprova indiretta viene dalle caratteristiche dell’antisemitismo tedesco (ma il di scorso vale anche per quello francese all’epoca dello "affaire Dreyfus"), che per decenni formula le più mostruose teorie, ma non tocca fisicamente un solo Ebreo. Sarà la congiunzione delle due crisi -quella della direzione borghese tedesca (logorata dall’incapacità di superare la lunga instabilità della repubblica di Weimar) e quella generale del capitalismo (che alla fine degli anni venti vede saltare tutti i suoi miti e entra in una fase di disperata concorrenza internazionale, che non potrà non sfociare in una nuova guerra mondiale)- a convincere la borghesia tedesca (ebrei compresi!) a consegnare lo Stato a un Hitler, che non aveva nascosto un millesimo del suo mostruoso programma
La tragedia degli Ebrei nell’Europa del XX secolo si capisce, dunque, non ricercando uno specifico "destino ebraico", ma indagando nelle tremende convulsioni di una società in crisi, che perviene a rinviare la rivoluzione, ma non è sicura di essere riuscita ad evitarla, giacche non è in grado di risanarsi e di svilupparsi in un quadro democratico, senza ricorrere a quel particolare "proseguimento della politica con altri mezzi" rappresentato dalla guerra.
Dunque, dopo questa lunga panoramica sulle vicende degli Ebrei della diaspora, che dovrebbe averci fatto cogliere quanto essi fossero distanti dall’antico "popolo ebraico" da cui avevano ereditato la religione, possiamo capire quanto fosse infondata la pretesa di "ritornare" in una terra con le cui vicende non avevano avuto per secoli che rapporti sentimentali, e dalla quale la maggior parte dei loro antenati non erano mai passati neppure per poco.
Non si trattava neppure solo di un’interruzione fisica del contatto tra le diverse comunità, ma di destini radicalmente divergenti. Già verso la fine del sec. XII Mosè Maimonide scriveva a Yonathan di Lunel, in Provenza, che "nell’Oriente gli ebrei sono morti ad ogni aspirazione spirituale. In tutta la Siria, soltanto poche persone ad Aleppo si occupano della legge secondo verità [...] Nell’Iraq non vi sono che due o tre persone che abbiano vera dottrina; nel Yemen e nel rimanente dell’Arabia si sa poco di Talmud [...] gli Ebrei di Giudea sanno poco di Torah e tanto meno di Talmud [...] Dunque non restate che voi ad essere i robusti sostegni della nostra religione".
Tutti i tentativi di rinvigorire quei ceppi esausti della vecchia religione con nuova linfa non ebbero successo, in primo luogo perchè fino alla fine del XVII secolo le zone in cui si era concentrata la maggioranza degli Ebrei rimasero tagliate fuori dalle grandi correnti del commercio internazionale, e la " specializzazione funzionale" delle comunità europee escludeva una spinta di massa al ritorno in Palestina (mentre, come si è visto, molti Ebrei provenienti da Occidente si installavano in altre città commercialmente più vive dell’Impero ottomano, sviluppandovi anche scuole e centri di pensiero religioso ).
Nel 1855 (quindici anni dopo il primo tentativo britannico di incoraggiare un "ritorno" di ebrei in Palestina) su 300.000 abitanti solo 10.000 erano ebrei, in genere senza una precisa collocazione sociale, ma affidati a 27 congregazioni di assistenza che finanziavano studi talmudici con i contributi d’oltremare. Ancora nel 1868 solo un 15% degli Ebrei palestinesi si dedicare a qualche attività lucrativa (artigianato o piccolo commercio).
Sarà la dialettica antisemitismo-sionismo a proiettare in Palestina un "problema ebraico" che non esisteva minimamente (non tanto perché gli Ebrei erano pochi, ma perché, come nel resto del mondo arabo-islamico, convivevano tranquillamente con gli altri gruppi etnici e religiosi maggioritari), sospingendo nel paese un numero sempre crescente di "Ebrei" europei, spesso indifferenti alla religione dei "padri", quasi sempre incapaci di capire la realtà locale, costretti per comunicare tra loro a riesumare una lingua ormai morta, senza neppure prendere in considerazione 1 ‘idea di adottare come lingua comune, quella parlata dalla quasi totalità degli Ebrei dell’Oriente, cioè lo stesso arabo parlato in Palestina.
Le campagne antisemite degli ultimi due decenni del secolo scorso riuscirono ad avviare un’ ondata di emigrazione ebraica in Palestina un po’, più consistente, ma non riuscirono a convincere la maggior parte degli Ebrei che il sionismo fosse l’unica soluzione. Perfino i pogrom con i quali lo zarismo tentò di arginare e deviare le tensioni sociali che stavano esplodendo nel 1905 (e accelerarono la fuga degli Ebrei dell’Impero Russo) non riuscirono a trasformare il sionismo in un movimento di massa. Lo stesso accadde per i furori antisemiti delle guardie bianche durante la guerra civile nei primi anni dell’Unione Sovietica, o per quelli ricorrenti nella Polonia tra le due guerre. Nel 1929 il bilancio di mezzo secolo di migrazioni ebraiche dalle regioni europee orientali in cui si era concentrata la maggior parte degli Ebrei nei secoli precedenti era questo: circa quattro milioni erano fuggiti in cerca di lavoro e sicurezza, ma di essi solo 120.000 (il 3%) avevano optato perla soluzione sionista andando in Palestina.
La situazione muterà solo dopo la vittoria nazista, soprattutto per la coincidenza tra i massacri hitleriani, l’indifferenza (e la chiusura delle frontiere ) da parte delle grandi democrazie occidentali e l’incapacità dell’URSS staliniana di offrire un asilo sicuro ai disperati sfuggiti allo sterminio; i dirigenti sionisti (che accecati dal loro progetto avevano perfino boicottato i tentativi di salvare gli Ebrei minacciati quando non avevano come meta la Palestina), si trovarono alla fine a beneficiare della mancanza di altri sbocchi per gli scampati (oltre che, naturalmente, delle tante complicità imperialistiche che avevano assecondato fin dall’inizio il loro piano), e poterono accelerare l’immigrazionefino al momento in cui fu possibile strappare un assenso dall’ONU per una spartizione, e i rapporti di forza interni e mondiali consentirono di tentare la strada dello scontro, delle stragi, della cacciata dei Palestinesi.
Il dramma della Palestina, dal 1948 ai giorni nostri, è dunque tutto maturato lontano dal suo territorio, e a prescindere dalla volontà e dai sentimenti di coloro che avevano vissuto lì da secoli, arabi musulmani, cristiani o ebrei.
Come stupirsi? Quale paese ormai può decidere le sue sorti tenendo conto dei rapporti di forze interni? Ma questo conferma che anche la causa palestinese non può, non deve essere lasciata solo ai rapporti di forza locali. Ha bisogno, per trionfare, anche di noi, di noi europei che abbiamo esportato laggiù le nostre contraddizioni, di noi democratici e militanti del movimento operaio che abbiamo per troppo tempo dimenticato le nostre responsabilità, i nostri doveri internazionalisti.


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Ebrei e palestinesi nella storia: miti e realtà
Testi di Antonio Moscato, Schede di Cinzia Nachira

La “questione palestinese” viene in genere affrontata sui mass media in modo sistematicamente distorto, sia per quanto riguarda il peso della violenza in atto, valutata con due pesi e due misure (per “fare notizia”, i morti palestinesi devono essere decine in un giorno, mentre ogni vittima israeliana viene segnalata con grande rilievo), sia e soprattutto ricostruendo in modo fantasioso e mistificante l’origine del conflitto. Partiamo da quest’ultimo aspetto, che non è marginale.

Alcune mistificazioni sulla storia antica dei due popoli .

Ad esempio, c’è un diffuso luogo comune che afferma che gli ebrei sono tornati nella loro terra di origine dopo secoli di esilio forzato. Si tratta di una mistificazione basata su una interpretazione unilaterale della storia di quella terra. In essa, più o meno nello stesso periodo (1200 a.c.), arrivarono da Creta i palestinesi (philistim) e gli ebrei guidati da Mosé provenienti dall’Egitto. In quella terra vivevano già altri popoli, che continuarono a coesistere anche nell’unico periodo in cui ci fu il regno ebraico di David e Salomone (durato solo dal 998 a.c. al 926 a.c.). Su parte del territorio, per qualche decennio prima di David, c’era stato il regno di Saul. Dopo la morte di Salomone i suoi figli costituirono due regni separati - rivali e vassalli l’uno dell’Egitto, l’altro dei sovrani mesopotamici - che sono esistiti ancora fino al 721 a.c. (Israele) e al 586 a.c. (Giuda). Non erano tuttavia Stati dei soli ebrei: la stessa Bibbia rivela che Saul, David e Salomone erano figli di donne non ebree ed erano sposati con donne di altre religioni. A parte la divertente considerazione sul fatto che dal punto di vista dei rabbini di oggi non sarebbero stati considerati ebrei (conta la madre, non il padre), e che almeno Salomone non era neppure troppo in regola dal punto di vista religioso, visto che sacrificava agli dei delle sue molte mogli, il dato conferma che in quella piccola terra la popolazione era assai variegata. Anche quando, dopo vari secoli, per un breve periodo (140-63 a.c.), c’è stato un altro piccolo regno ebraico, quello dei Maccabei, sotto l’influenza romana, gli ebrei osservanti erano piuttosto pochi, per la permanenza di popoli con altre religioni e perché molti nel corso dei secoli avevano lasciato la religione originaria, sicché ci furono perfino circoncisioni forzate per riportarli alla condizione di ebrei.

In ogni caso, sui 7.000 anni in cui ci sono tracce di insediamenti umani in quella terra, gli ebrei hanno dominato politicamente solo per pochi secoli, senza essere mai i soli occupanti del territorio.

Ma la Palestina non può essere definita la terra di origine degli attuali ebrei israeliani per parecchie altre ragioni. Nell’antichità c’era un popolo ebraico in una terra abbastanza delimitata, con una religione che non faceva proselitismo e che era esclusiva di quel popolo e di quella terra. Nella parte più antica della Bibbia risulta che gli ebrei dovevano venerare Jahvè e non gli dei di altri popoli, di cui non si negava tuttavia l’esistenza.

Nell’Antico Testamento gli ebrei risultano agricoltori, pastori, guerrieri, non commercianti. Più o meno questa è la composizione degli ebrei in Palestina, e tale risulta da altre fonti nel I secolo a.c. in gran parte delle zone in cui sono emigrati (Egitto Libia, Italia) o in cui erano stati inizialmente deportati, come la Mesopotamia (attuale Iraq), ma in cui erano rimasti anche dopo avere ottenuto di poter tornare. Le deportazioni, compresa quella successiva alla distruzione del Tempio di Gerusalemme, nel 70 d.c., riguardavano comunque solo lo strato alto della popolazione, e in Palestina era rimasta una cospicua comunità ebraica.

Tuttavia, nei secoli immediatamente successivi - in coincidenza con il diffondersi del cristianesimo e la sua trasformazione in religione di Stato che perseguita le altre religioni - avviene un processo che trasforma gli ebrei in quello che Abram Léon ha chiamato un “popolo-classe” specializzato nel commercio. Da un lato, la maggioranza degli ebrei dediti all’agricoltura nel Nord Africa e nella stessa Palestina si convertono più o meno spontaneamente al cristianesimo e, dopo la conquista araba, all’islamismo; dall’altro, commercianti non ebrei (ad esempio i siriani e i fenici) si convertono all’ebraismo.

La ragione principale è che questa religione consentiva di eludere il precetto, tratto dal Deuteronomio e fatto proprio per molti secoli dal cristianesimo e poi dall’Islam: “non presterai ad usura al fratello tuo ma solo allo straniero”, precetto che di fatto condannava non solo l’usura ma ogni forma di commercio. E dopo il crollo dell’impero romano e poi ancor più dopo la divisione del bacino mediterraneo in due aree ostili in seguito all’espansione dell’islam, lo scarso commercio che vi rimaneva diventava sempre più rischioso, per cui chi investiva in esso doveva ottenere una ricompensa per il rischio, che le due grandi religioni dominanti vietavano e definivano “usura”. Il commercio, anche se ridotto a pochi generi di lusso (stoffe pregiate, metalli lavorati, gioie, spezie), era in realtà indispensabile e quindi veniva consentito agli ebrei e ai convertiti all’ebraismo (divenuto ormai una religione non più legata a un territorio), che erano praticamente gli unici “stranieri” esistenti, sia nel mondo cristiano sia in quello islamico, e che svolgevano una funzione di ponte grazie alla conoscenza delle lingue e al fatto di non essere legati al potere dei paesi rivali.

Altre conversioni all’ebraismo in ambiente cristiano erano invece dovute a fattori religiosi. Il cristianesimo nel Medioevo era diventato di fatto sempre meno monoteista, per l’esasperato culto dei santi, delle loro immagini e reliquie; questo spinse diversi uomini di chiesa, nell’Europa occidentale e poi nella Russia ortodossa, verso l’ebraismo, aderendovi o accogliendone alcuni elementi. È il caso della cosiddetta “eresia giudaizzante” della Russia del Quattrocento, che determinerà in quel paese persecuzioni e divieti rigorosi al proselitismo ebraico.

Ci sono state anche conversioni in massa di interi popoli come i Chazari o una parte degli arabi yemeniti, in seguito alla scelta dell’ebraismo da parte dei sovrani locali (dovuta probabilmente alla necessità di resistere alla pressione degli adiacenti imperi cristiani o islamici). Anche l’origine dei falashà etiopici, che pretendono di essere discendenti della regina di Saba, che aveva visitato Salomone a Gerusalemme, può essere ricondotta a un fenomeno analogo.

L’insieme di questi fattori ha provocato una forte trasformazione delle comunità ebraiche nel mondo; grazie alle conversioni e alle assimilazioni, esse si sono molto differenziate tra loro, fino al caso limite degli ebrei etiopici, i falashà, di pelle nera, di quelli indiani e cinesi, che hanno i tratti somatici degli altri abitanti della regione e in genere parlano la lingua locale, pur mantenendo l’ebraico antico per il culto e due grandi lingue franche, l’yiddish nell’Europa centro orientale, e il ladino, derivato dallo spagnolo del XV secolo tra i sefarditi, che costituiscono lo strato superiore delle comunità ebraiche nell’impero ottomano (erano gli ebrei cacciati dalle persecuzioni cristiane che seguirono la reconquista alla fine del XV secolo). La prima lingua, una derivazione del tedesco medievale, trascritta in caratteri ebraici e naturalmente con molti vocaboli ebraici e anche parecchi termini di origine turca (frutto dell’assimilazione dei Chazari), rivelava il processo di fusione delle piccole arretrate comunità locali di quelle che sono oggi la Polonia e la Russia con gli ebrei più colti cacciati dalla Germania al tempo delle Crociate che, dovunque passavano - dalla valle del Reno a Praga alla stessa “Terra Santa” - lasciarono una traccia sanguinosa di feroci persecuzioni antiebraiche.

È bene ricordare questo dato per sfatare la leggenda dell’intolleranza dell’Islam: nel mondo islamico ebrei e cristiani, i “popoli del Libro”, godevano di certi diritti, compreso quello di amministrare al proprio interno la giustizia, anche se erano esentati dal servizio militare. L’intolleranza è invece tipica del mondo cristiano, soprattutto quando vi compaiono mercanti locali che aggirano i vecchi divieti religiosi e non vogliono concorrenza (in Italia sono le Repubbliche marinare le prime a cacciare gli ebrei, anche se più tardi Venezia ne ammetterà un certo numero per assicurare le sue relazioni con l’Oriente ottomano, da cui è stata cacciata militarmente). Lo stesso Dante, che pure deve tanto alla cultura araba, colloca Maometto a capofitto nel più profondo dell’Inferno, mentre l’Islam considera Gesù come un profeta, un precursore, e ha in molte zone una vera venerazione per Maria (ad esempio a Efeso, nell’attuale Turchia)

Questa ricostruzione sommaria permette di dire che, se esisteva nell’antichità un popolo ebraico, quello descritto dall’Antico Testamento, esso è praticamente sparito nel corso dei secoli successivi, mentre la religione ebraica ha assorbito per ragioni diverse molti strati di altra origine dediti al commercio. La pretesa dei sionisti di “ritornare nella loro terra ereditata dai padri” è dunque basata su un mito infondato. La maggior parte di essi non discende affatto da quei “padri”. Paradossalmente, è molto probabile - viceversa - che una parte degli attuali palestinesi siano discendenti proprio degli ebrei convertiti all’islam nel corso dei secoli.

Altri miti: l’identificazione tra ebraismo e sionismo.

I mass media influenzati dai sionisti tendono a creare un’identificazione totale tra “ebraismo” e “sionismo”. Vedremo che essa è storicamente infondata, per molte ragioni, e che ancora oggi molti ebrei si oppongono al sionismo, il quale è semplicemente una proposta politica specifica, rimasta tra l’altro minoritaria perfino in gran parte delle comunità ebraiche europee fino a quando l’avvento del nazismo l’ha resa più credibile e trasformata in una specie di zattera di salvataggio.

Vediamo su quali argomenti si basa questa identificazione.

Gli ebrei – si dice - per secoli hanno pregato e hanno ripetuto: “l’anno prossimo a Gerusalemme”. È vero, ma in realtà la maggior parte di essi, se si spostavano dal paese in cui vivevano, raramente cercavano Gerusalemme. In genere, si trattava dell’auspicio di un “ritorno” (che per molti - abbiamo visto - non lo era affatto) in una terra mitica “di latte e miele”, in un regno di pace e di giustizia, che sarebbe stato realizzato dal messia delle profezie: un sogno millenaristico, che trovò in varie epoche profeti e “falsi messia” che tentarono di realizzarlo, su un terreno puramente religioso; ma non era un concreto progetto politico. Il sionismo, senza alcun fondamento, si presenta come il coronamento di quel sogno.

Nel corso dei secoli, per ragioni diverse, alcuni uomini politici hanno proposto l’immigrazione degli ebrei in Palestina, sempre senza successo. Alla metà del secolo XVI vi aveva provato José Nassi, un ebreo portoghese sfuggito alle persecuzioni e alle conversioni forzate rifugiandosi alla corte di Istambul, e diventato duca di Naxos e signore di Tiberiade; ma gli ebrei a cui offriva rifugio preferivano andare a Istambul, Smirne, Salonicco, Alessandria, non nella misera Tiberiade o in una Gerusalemme in cui la comunità ebraica era ridotta a poche centinaia di pii rabbini, che facevano discussioni interminabili, ed erano giunti lì soprattutto perché volevano essere sepolti in quella terra. Anche Napoleone, quando dall’Egitto giunse in Palestina, fece un appello agli ebrei europei perché vi si recassero: anticipava così il progetto sionista, sperando di costituire una base d’appoggio per la penetrazione francese; ma rimase inascoltato, e vedremo perché.

Come, dove e perché nasce il sionismo? Il sionismo nasce negli ultimi decenni del XIX secolo nelle grandi comunità ebraiche annesse all’impero russo dopo la spartizione della Polonia. La funzione tradizionale (e scomoda) di mercanti e intermediari tra proprietari terrieri e contadini si era esaurita con l’abolizione della servitù della gleba e l’introduzione accelerata del capitalismo. Il sionismo nasce come risposta alle persecuzioni e ai massacri (i pogrom) organizzati dalla polizia zarista, che considera gli ebrei in blocco rivoluzionari e al tempo stesso li addita ai sottoproletari incolti come sfruttatori e nemici. In realtà, rivoluzionari sono diventati alcuni giovani, che hanno rotto con il loro ambiente, la famiglia, la religione, diventando gli “ebrei non ebrei”, come Marx, Rosa Luxemburg, Trotskij. Il sionismo inizia come progetto culturale e diventa poipolitico quando l’antisemitismo promosso da settori reazionari del potere si estende dalla Russia alla Germania, all’Austria e perfino alla Francia con il famoso processo Dreyfus. Il fondatore del “sionismo politico”, Theodor Herzl, propone di cercare una “terra senza un popolo” in cui costruire uno Stato ebraico e in cui rifugiarsi per sfuggire alle persecuzioni. Pensa dapprima all’Uganda, all’Argentina o all’Uruguay, ma alla fine il progetto si trasforma e viene motivato con il “ritorno” in Palestina, la “Terra d’Israele” promessa da Dio al suo popolo. Come gli altri paesi prescelti, non si tratta di “una terra senza un popolo”; ma questo non conta, anzi. Herzl offre il suo progetto a diversi sovrani (dall’imperatore di Germania allo zar, allo stesso Vittorio Emanuele III), ma alla fine trova un punto di intesa con la Gran Bretagna: “saremo un baluardo dell’Europa contro la barbarie asiatica, dichiara, cioè contro i popoli coloniali. Herzl inoltre chiede appoggio per il proprio progetto, specialmente ai ministri antisemiti dello zar, come Witte e von Plehve, mettendo in evidenza che loro avrebbero il vantaggio di liberarsi degli odiati ebrei, aiutandoli a farsi una patria ben lontano. È evidente che il sionismo non era un movimento di liberazione, ma era anzi strettamente collegato al progetto coloniale che si affermava in tutta l’Europa negli ultimi decenni del secolo XIX e alla vigilia della Grande Guerra. Herzl discusse il suo progetto col grande razzista britannico Cecil Rhodes, di cui fu amico ed estimatore, e il suo successore Weizman lo concretizzò, smettendo di cercare aiuto indistintamente presso tutti i sovrani, compreso il sultano di Costantinopoli, e puntando decisamente su una stretta alleanza con l’imperialismo britannico.

1.        Comunque la maggioranza degli ebrei europei e la quasi totalità di quelli del mondo arabo-islamico rimasero contrari o indifferenti al sionismo, fino a quando l’arrivo al potere di Hitler con un programma ferocemente antisemita cambiò la situazione, almeno in Europa. Ci sono molti elementi che lo confermano: ad esempio, nelle numerose elezioni tenutesi in Polonia tra il 1918 e il 1939 i voti della consistente comunità ebraica si divisero tra comunisti, socialisti e Bund (“Lega”, un’organizzazione legata alla socialdemocraziae che difendeva i diritti culturali ed economici della popolazione di origine ebraica, ma era contraria al progetto di emigrazione dei sionisti), mentre i partiti sionisti restavano nettamente minoritari.

2.        Ancora più significativo è il dato delle correnti migratorie nei primi cinquanta anni dopo l’esplosione dell’antisemitismo: tra il 1881 e il 1929 (la prima data è quella dei primi pogrom, la seconda quella della crisi mondiale del capitalismo e quindi dell’inizio della “resistibile ascesa” di Hitler), 3.975.000 ebrei lasciarono le tradizionali zone di concentrazione tra Polonia, Russia, Romania, ecc. Di essi 2.885.000 hanno scelto gli Stati Uniti, 210.000 l’Inghilterra, 180.000 l’Argentina, 125.000 il Canada, e così via, ma solo 120.000 hanno accolto la proposta sionista andando in Palestina (e molti non hanno retto più di un anno in quella terra inospitale, che aveva già un popolo che vi risiedeva e non voleva esserne cacciato, e si sono quindi spostati verso altri paesi). Si trattava dunque di un’emigrazione non diversa da quella di italiani, spagnoli, irlandesi, e con forti motivazioni economiche, anche se era stata accelerata dall’intolleranza e dalle persecuzioni.

3.        Successivamente i rapporti privilegiati con il colonialismo britannico faciliteranno questa immigrazione in Palestina: durante la prima guerra mondiale lord Rotschild ottiene dal ministro degli Esteri britannico Balfour la famosa dichiarazione che promette un “focolare ebraico in Palestina”, sia pure con il “rispetto delle minoranze”. Ma i palestinesi non erano una minoranza bensì la stragrande maggioranza degli abitanti, e la Palestina promessa ai sionisti apparteneva ancora all’impero ottomano. Una promessa senza fondamento giuridico, quindi.

4.        Sarà l’ascesa e poi l’avvento del nazismo, che coincide non a caso con la grande crisi economica, a sospingere un maggior numero di ebrei verso la Palestina, sia perché più gravemente minacciati, sia perché l’enorme disoccupazione fa chiudere le porte dell’immigrazione negli Stati Uniti e in altri paesi. Questa nuova immigrazione comprende anche ebrei tedeschi ricchi (prima il loro sionismo consisteva nel pagare il viaggio in Palestina a quelli poveri), che acquistano terre e imprese di trasporti, allontanando i palestinesi che vi lavoravano. La rivolta araba del 1936-1939 protesta contro le autorità britanniche, ma anche contro questa conquista economica del paese, e chiede il blocco dell’immigrazione ebraica. Essa viene repressa congiuntamente dalla polizia britannica e dalle milizie sioniste. È questo che scava un solco definitivo tra le due comunità e innesca quello che stupidamente viene chiamato dai mass-media “l’odio millenario” tra arabi ed ebrei. In realtà, fino a quel momento, in Palestina e in tutto il mondo arabo, i rapporti erano in genere di amichevole convivenza.

5.        Dopo la rivolta palestinese, i britannici, che devono fare i conti con una forte componente araba o comunque islamica nelle loro colonie e protettorati, nel 1939 pongono limitazioni all’immigrazione sionista. Una parte del movimento sionista, guidato da Jabotinskij, Shamir, Begin e a cui si riallaccia poi Sharon, stringe rapporti con Mussolini, che ne ospita un congresso in Italia e addestra militarmente gli ufficiali della futura marina israeliana. Alcuni esponenti, durante la guerra, cercarono contatti persino con i nazisti (in Ungheria), proponendo uno scambio tra l’emigrazione in Palestina della locale comunità ebraica e una grossa fornitura di automezzi militari. La destra sionista comincia a combattere i britannici (anche in piena guerra), con un feroce terrorismo che fa molte vittime anche palestinesi ed ebree, ad esempio facendo saltare in aria nel 1946 l’hotel King David a Gerusalemme (anche l’ambasciata britannica a Roma viene demolita da un terribileattentato). La stessa maggioranza laburista è ormai in rottura con i britannici e punta sull’imperialismo USA, ma ha anche uno strano alleato: il Sudafrica razzista, sul cui territorio verrà allestita l’aviazione sionista, che interverrà con forze preponderanti nella guerra del 1948-1949. D’altra parte, anche i paesi del blocco sovietico forniscono armi all’esercito sionista, illudendosi di approfittare delle tensioni con la Gran Bretagna.



Foto: Ben Gurion cofondatore dello stato di Israele

Miti e realtà sulla formazione dello Stato di israele.

Un luogo comune diffusissimo è che il conflitto sarebbe diventato insanabile perché “i palestinesi hanno rifiutato una ragionevole spartizione proposta dall’ONU nel 1947”. Si tratta di una tesi che non si regge, basata su falsi e forzature. Esaminiamoli.

1.        La divisione era ingiusta: i sionisti nel 1947 erano ancora circa un terzo degli abitanti, ma veniva assegnato loro il 56 % del territorio (con una forte minoranza palestinese incorporata), mentre la grande maggioranza dei palestinesi dovevano accontentarsi di un’area frammentata che copriva circa il 40 % del paese; Gerusalemme doveva restare “zona internazionale” sotto controllo dell’ONU. Era comprensibile rifiutare questo piano, che calpestava i diritti dei due terzi degli abitanti. Ma vediamo chi lo ha rifiutato.

2.        Non potevano farlo i palestinesi, che dopo trent’anni di occupazione britannica e la feroce repressione del 1936-1939 non avevano una rappresentanza democraticamente eletta. Il rifiuto venne dai regimi arabi adiacenti, tutti asserviti all’imperialismo britannico: in Giordania, in Iraq, in Egitto, per non parlare dell’Arabia Saudita, c’erano sovrani feudali sotto tutela britannica, e con eserciti diretti da ufficiali inglesi. La Gran Bretagna era interessata a scatenare un conflitto tra arabi ed ebrei, che forniva un buon diversivo ai corrotti sovrani su cui si appoggiava in quell’area. D’altra parte, il metodo era costante: si pensi al conflitto sanguinoso tra musulmani e indù innescato per tentare di mantenere il controllo sul subcontinente indiano.

3.        Ma i sionisti, oltre a vincere la guerra grazie a una netta supremazia militare sia sul piano dell’addestramento sia su quello dello stesso armamento (supremazia che hanno sempre cercato di occultare presentandosi come David contro Golia), realizzarono i loro fini occupando un’area molto più ampia di quella assegnata loro dall’ONU, proprio grazie all’accordo segreto con uno di quei sovrani feudali, Abdallah di Transgiordania, che consentì la spartizione definitiva lungo i confini rimasti in vigore fino al 1967. In questo modo i palestinesi rimasti fuori da Israele finirono sotto una tutela a loro sgradita. La loro percentuale nello Stato di Israele, in origine vicina al 50%, fu drasticamente ridotta cacciandoli con il terrore e le minacce. I profughi finirono in Cisgiordania e in altri Stati arabi, ammucchiati in miseri campi. Il conte Bernadotte, il rappresentante dell’ONU che aveva proposto tra le condizioni di pace il ritorno dei palestinesi, fu assassinato da un commando sionista.

4.        Se già nel 1948-1949 sul piano militare non era Israele ad essere la parte più debole, nelle guerre successive il rapporto divenne ancor più squilibrato. Nel 1956 l’aggressione israeliana all’Egitto, in appoggio alle forze di invasione colonialiste franco-britanniche che rifiutavano la nazionalizzazione della Compagnia del Canale di Suez, fu all’origine della cacciata degli ebrei dai paesi arabi. In Iraq, dove la maggioranza della ben inserita comunità ebraica - la più antica della diaspora - non voleva partire, una serie di provocazioni e alcune bombe messe nelle sinagoghe da agenti israeliani accelerarono l’esodo, di cui il regime reazionario di Bagdad approfittò per incamerare le proprietà di chi partiva (come i sionisti si erano impossessati di terre e case dei palestinesi cacciati).

5.        Quanto alla cosiddetta “aggressione araba” del 1967, si tratta di una leggenda senza fondamento: i regimi arabi, a partire da quello egiziano, facevano dichiarazioni infiammate in difesa dei palestinesi, ma non si erano preparati affatto alla guerra, che durò solo sei giorni proprio perché l’aviazione egiziana, siriana e degli altri paesi fu distrutta negli aeroporti senza neppure riuscire a decollare. Fu quella guerra, condotta a tradimento (e presentata in tutto il mondo come difensiva), che portò all’occupazione della Cisgiordania e della striscia di Gaza, creando le basi delle tragedie successive, compresa quella odierna.

6.        Da allora è sempre stato negato il diritto a ritornare a chi era nato in Palestina e ne era stato cacciato, mentre lo Stato di Israele ha continuato a incoraggiare le conversioni, per compensare la scarsa affluenza dalle più grandi comunità ebraiche, soprattutto degli Stati Uniti. Un caso limite è quello della comunità neoebraica sorta spontaneamente tra i contadinicristiani di San Nicandro Garganico negli anni Trenta, spinti poi ad emigrare in Israele negli anni Cinquanta, senza che avessero la più lontana ascendenza ebraica (ma servivano braccia…). Anche una parte cospicua degli immigrati provenienti dall’URSS negli anni Settanta e Ottanta non avevano una sicura ascendenza ebraica, e volevano solo sfuggire alla crisi del loro paese.

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Origine, ascesa e declino dell’OLP .

Fino al 1967 i palestinesi non avevano avuto una rappresentanza autonoma, ed erano oppressi sia da Israele, sia dai regimi arabi, che ne assumevano per esigenze interne una poco efficace difesa, prevalentemente verbale. Formalmente l’OLP (Organizzazione di Liberazione della Palestina) era stata costituita nel 1964, ma era un organismo burocratico - creato soprattutto dall’Egitto - alla cui testa era stato collocato Ahmed al-Shuqeiri, un personaggio senza credibilità, che non esitava a riprendere vecchi argomenti della propaganda antisemita fascista. È proprio dopo la penosa sconfitta dei paesi arabi nella guerra del 1967 che emerge al Fatah, guidata già allora da Yasser Arafat. Il suo nucleo centrale si era formato al Cairo nel 1957, sotto l’impressione della sconfitta militare egiziana (il successo iniziale di Israele era stato però fermato dalla resistenza delle masse egiziane, e dall’intervento politico dell’URSS e degli Stati Uniti). Peserà anche molto l’esempio della lotta armata algerina, iniziata subito dopo la sconfitta francese a Dien Bien Phu nel Vietnam. Al Fatah conquista un grande prestigio con qualche azione di guerriglia fin dal 1965 (in particolare il sabotaggio degli impianti israeliani per la deviazione delle acque del Giordano), e poi nel 1968 con la battaglia di Karameh, che ferma una colonna israeliana entrata in Giordania, e rappresenta l’unica azione militare vittoriosa realizzata dagli arabi in quella fase.

Conquistata la direzione dell’OLP, Arafat cerca di coinvolgere altre organizzazioni, come il Fronte Popolare di Liberazione della Palestina di George Habbash (FPLP o più brevemente FP) e il Fronte Democratico Popolare di Liberazione della Palestina di Nayef Hawatmeh (FDPLP o FD), entrambi laici e di tendenza più o meno marxista. Il rapporto sarà sempre difficile, con frequenti rotture e nuove convergenze; le divergenze sono sulle tattiche di lotta, ma anche sulla necessità di sottrarre i palestinesi alla tutela dei regimi reazionari arabi. L’OLP si trasforma presto in un grosso apparato statale senza uno Stato, e ha quindi sempre più bisogno di contributi da parte dei paesi della Lega Araba, soprattutto dell’Egitto, dell’Iraq e

dell’Arabia Saudita. In questo contesto i contributi dei palestinesi della diaspora, alcuni dei quali hanno raggiunto posizioni di rilievo soprattutto nei paesi del Golfo, diventano determinanti non solo per la sopravvivenza dell'apparato, ma anche per l'accettazione da parte dell'OLP delle pressioni dei paesi arabi"

Così, per non irritare i regimi che finanziano il costoso apparato, la maggioranza dell’OLP guidata da Arafat teorizza la “non ingerenza” negli affari interni dei paesi arabi che, oltre ad essere in stridente contraddizione con le diffuse aspirazioni all’unità araba, è praticamente impossibile, soprattutto in Giordania, dove i palestinesi sono la maggioranza della popolazione e influenzano inoltre i settori giordani più avanzati, mentre il re Hussein (nipote di quell’Abdallah che era stato scelto dagli inglesi) si appoggia solo sulle armatissime tribù beduine, come lui fatte venire dal cuore dell’Arabia saudita.

Il risultato è che i palestinesi vengono ugualmente coinvolti nei conflitti interni, risolti da Hussein facendo bombardare i quartieri poveri di Amman nel settembre 1970 (la risposta palestinese, tardiva ed esasperata, sarà l’ondata di terrorismo in tutti i paesi che hanno protetto Hussein, e prenderà il nome di “settembre nero”).

La stessa situazione si riproporrà nel fragile Libano, dominato da uno strato reazionario e filoimperialista, che ha chiesto aiuto alla flotta e ai paracadutisti degli Stati Uniti nel 1958 (quando una sollevazione popolare aveva spazzato via il sovrano filobritannico dell’Iraq, e la rivoluzione araba sembrava dilagare ovunque). Israele prepara pazientemente una rete di notabili al suo servizio e, nel 1978, in concomitanza con le trattative di pace con l’Egitto, creerà un sedicente “Libano Libero”, affidato alle feroci milizie del maggiore Haddad, un disertore libanese armato e stipendiato dal governo di Tel Aviv. La zona occupata da Haddad e dagli israeliani arriva al fiume Litani, ricco di acque che vengono dirottate verso la parte settentrionale di Israele, che è al contrario piuttosto arida.

La propaganda sionista e reazionaria ripete che Arafat è un terrorista e un estremista. È semplicemente assurdo: all’inizio della sua attività politica, Arafat ha scelto la lotta armata perché non aveva altra scelta, e perché aveva di fronte a sé l’esempio di come i sionisti si erano impossessati della sua terra, con la lotta armata e un terrorismo spietato verso le truppe di occupazione britanniche, i palestinesi, e anche tra le stesse formazioni sioniste concorrenti. Ma ha scelto poi la strada della trattativa, della ricerca di un’intesa anche attraverso un compromesso, al punto di provocare lacerazioni tra gli stessi palestinesi. Arafat può essere definito “un terrorista” come lo è stato Nelson Mandela nei ventisette anni detenzione, fino al giorno in cui la classe dominante bianca ha dovuto tirarlo fuori dalla prigione e chiedergli di tenere a bada le masse africane (rimaste prive del potere economico, proprio grazie alla buona disponibilità di Mandela e degli altri dirigenti neri dell’ANC all’accordo e alla coesistenza basata sullo status quo).

Per questo gli israeliani, che lo attaccano sui mass media istericamente, hanno evitato di ucciderlo, pur avendo i mezzi per farlo, come hanno fatto con tanti suoi collaboratori. Lo hanno fatto nel 1983 con Issam Sartawi (che era per giunta un uomo che cercava l’intesa con le componenti più ragionevoli della società israeliana), nel 1988 con Abu Jihad, e con moltissimi altri, anche in questa fase; ma hanno evitato di ucciderlo sapendo che, morto Arafat, anche le masse palestinesi più moderate esploderebbero in una rivolta esasperata e distruttiva.

Arafat è responsabile dell’integralismo islamico? In un certo senso sì, ma non in quello riproposto sistematicamente dai mass media. L’integralismo islamico si è sviluppato nella società palestinese, che era la più laica di tutto il mondo arabo, come reazione alle sconfitte subite per effetto della linea troppo conciliante dell’OLP controllata da Arafat, che aveva rinunciato molto presto alla lotta armata, ricercando una soluzione diplomatica e illudendosi che questa si potesse ottenere solo grazie alle pressioni dei regimi arabi filoimperialisti (Egitto, Arabia Saudita e la stessa Iraq prima della Guerra del Golfo, che la trasformò in “nemico assoluto”). È sintomatico che, quando si è sviluppato, l’integralismo islamico ha potuto realizzare un’alleanza con il FP e il FD, le due organizzazioni di sinistra, laiche e con leader che, oltre ad essere marxisti, sono anche di origine cristiana. La sua crescita era legata alla necessità di continuare la resistenza, che Arafat manteneva a parole ma di fatto bloccava per non urtare i suoi protettori legati agli Stati Uniti.

D’altra parte, i sionisti non hanno il diritto di parlare dell’integralismo islamico, per molte ragioni. Oggi, per loro, l’integralismo è un grosso problema, che non sanno come affrontare e con cui è difficile una trattativa, ma per anni lo hanno incoraggiato - soprattutto nella striscia di Gaza - per dare fastidi all’OLP, il cui laicismo e non confessionalismo creava problemi a Israele, Stato confessionale e integralista. Nella direzione dell’OLP ci sono infatti musulmani, cristiani, marxisti, anche ebrei come Ilan Halevy. Per la stessa ragione, gli israeliani hanno puntato da sempre alla decomposizione del Libano che - sia pure in una forma un po’ macchinosa, escogitata dalla Francia quando aveva creato questo paese staccandolo dalla Siria dopo la prima guerra mondiale, con un mandato della Società delle Nazioni (ma in realtà in base alla spartizione del Medio Oriente con la Gran Bretagna sancita dagli accordi Sykes-Picot) - aveva una Costituzione che assicurava la collaborazione tra cristiani maroniti e ortodossi, musulmani sciiti e sunniti, drusi, ecc. Per Israele, l’uno e l’altro caso facevano scandalo e potevano dare un “cattivo esempio” alle minoranze non ebraiche prive di diritti.

Abbiamo definito Israele “Stato confessionale e integralista”. Va detto che una risoluzione dell’assemblea generale dell’ONU del 10 novembre 1975, basandosi sulla legislazione e la pratica dei governi sionisti, sugli stretti rapporti con il Sudafrica dell’Apartheid e sulle analogie tra i due sistemi di dominazione, ha definito il sionismo “una forma di razzismo e di discriminazione razziale”.

Naturalmente questa è una delle tante risoluzioni dell’ONU rimaste senza conseguenze. Non era mai stato seriamente imposto a Israele di attenersi alla spartizione decisa con la risoluzione n. 181 del 1947, ingiusta ma che le assegnava “solo” il 54 % della Palestina, mentre se ne era presa l’80% fino al 1967 e poi tutta, più alcuni pezzi di territorio strappati al Libano e alla Siria. Mai si è tentato di tradurre in pratica la risoluzione n.242 del 22 novembre 1967, che chiedeva il ritiro dai Territori Occupati, ecc.

Privo di conseguenze pratiche anche l’invito ad Arafat a parlare all’assemblea generale dell’ONU il 13 novembre 1974: l’effetto psicologico fu grande, perché Arafat aprì il suo discorso dicendo: “porto in una mano un ramo d’ulivo, e nell’altra il mio fucile di combattente. Non fate che il ramo d’ulivo cada dalla mia mano”. Egli presentò inoltre il progetto dell’OLP di “uno Stato democratico in cui cristiani, ebrei e mussulmani vivano in giustizia, uguaglianza e fraternità”, un progetto che, pur riducendo il problema etnico a quello religioso, aveva una notevole forza morale, ma senza risultati concreti, nonostante di fatto Arafat avesse fatto cadere dalla sua mano non l’ulivo ma il fucile.

A quel risultato si era arrivati dopo la guerra arabo-israeliana dell’ottobre 1973, l’unica effettivamente scatenata per iniziativa dei paesi arabi, che colsero di sorpresa Israele, mettendola in difficoltà (fu salvata soltanto da un massiccio aiuto degli Stati Uniti). Anche l’avvio di una riduzione della produzione di petrolio aveva messo in difficoltà i paesi capitalistici, soprattutto perché coincideva con una recessione economica di notevole portata.

Ma quella guerra, che fu definita “di regolamentazione”, venne usata dall’Egitto per preparare una pace separata. Il successivo viaggio di Sadat a Gerusalemme nel novembre 1977, e poi gli accordi di Camp David del settembre 1978, furono salutati come un passo verso una soluzione generale del problema del popolo palestinese, che fu invece abbandonato dall’Egitto, mentre Israele, garantito sul fianco Sud, poteva cominciare la penetrazione e poi il tentativo di conquista del Libano per cacciare anche da quel paese i palestinesi.

Alcune voci, dalla sinistra marxista palestinese, avevano denunciato quella manovra, ma senza successo. I regimi arabi avevano dato all’OLP un premio di consolazione, riconoscendola nel vertice di Algeri del 27 novembre 1973 “unica rappresentante del popolo palestinese”, con una formulazione più che discutibile, perché in realtà molte organizzazioni rimanevano al di fuori dell’OLP e i criteri di formazione del gruppo dirigente erano sempre meno democratici, basati sulla cooptazione senza nessuna elezione dei rappresentanti dei gruppi che accettavano la linea di Arafat. Paradossalmente l’OLP veniva riconosciuta “unica rappresentante” proprio quando non lo era più.

Anche la Siria, che pure criticava duramente l’opportunismo egiziano, già delineatosi subito dopo la guerra del 1973, approfittò della situazione per impossessarsi nell’aprile 1976 del Libano, dove rimane tuttora. La Siria tra l’altro puntellò le forze della destra falangista (armate e istruite da Israele), che stavano soccombendo nella guerra civile, di fronte a una coalizione tra palestinesi e progressisti libanesi. In quella fase i falangisti furono lasciati liberi di assediare per 52 giorni il campo profughi di Tel al-Zaatar, dove massacrarono sotto gli occhi della Croce rossa internazionale 6.000 palestinesi, tra cui moltissimi bambini, donne, vecchi inermi. Lo stesso Sharon ammise poi la partecipazione di ufficiali israeliani a quell’eccidio. Ma la Siria fu complice della strage.

La tragedia si compirà nel 1982, con l’invasione israeliana e il nuovo feroce massacro compiuto dalle milizie falangiste al servizio e sotto la diretta e personale protezione di Sharon (ma con l’avallo dell’intero governo Begin) nei campi di Sabra e Chatila. Durante l’invasione del Libano le milizie palestinesi, a differenza dell’esercito regolare libanese, infliggono forti perdite agli israeliani, ma l’abbandono del campo da parte di Arafat innesca una guerra civile tra i palestinesi. Contro Arafat si schierano sia le formazioni filosiriane, sia una parte di al Fatah.

Inoltre, una volta scacciati anche dal Libano, come nel 1970 dalla Giordania, i palestinesi non hanno più un territorio da cui possano colpire lo Stato di Israele con vere e proprie azioni militari. Sono per giunta sempre vessati dai regimi arabi, che li ospitano, ma che spesso costituiscono per i loro fini piccoli gruppi in polemica con l’OLP (in primo luogo la Siria, ma anche la Libia). Non possono quindi più decidere se scegliere di far cadere il ramo d’ulivo o il fucile. Rimane solo la possibilità di azione diplomatica, ma non hanno più i mezzi per imporla. Continueranno, sospinti dall’URSS - a cui si sono allineati totalmente anche i due gruppi marxisti - a chiedere vanamente una conferenza internazionale. Sotto la pressione della direzione sovietica, FP e FD accettano di rientrare a pieno titolo nell’OLP, nel CNP di Algeri dell’aprile 1987, lasciando carta bianca ad Arafat che, pure, aveva tentato un assurdo accordo con re Hussein (il boia di Amman) e che subito dopo riprende i contatti con l’Egitto, il quale ha riconosciuto Israele, senza una discussione preliminare in seno al massimo organismo dell’OLP. Una scelta che mette in difficoltà sia il FP e il FD, sia il PCP (il piccolo Partito comunista palestinese), che era stato accolto nel CNP per far piacere a Mosca, sia pure con una rappresentanza di appena la metà di quella assegnata a una frazione integralista islamica.

Negli anni tra il 1982 e il 1987 la soluzione della questione palestinese appare in ogni caso sempre più lontana. Molti commentatori parlano apertamente di “armenizzazione”, alludendo alle vicende del popolo armeno al quale, dopo i massacri operati dalla Turchia durante e dopo la prima guerra mondiale, non è rimasta altra risorsa se non quella di sporadici ricorsi ad attentati alle sedi diplomatiche turche in molti paesi, senza che nessuno se ne preoccupi troppo.

Ma nel dicembre 1987 esplode improvvisamente l’Intifada, la grande rivolta degli abitanti dei Territori occupati (letteralmente il termine vuol dire: “scuotersi di dosso” o “sollevazione”), innescata da una provocazione di un colono sionista che ha investito e ucciso con un autocarro quattro lavoratori palestinesi del campo profughi di Jabaliya. Coglie di sorpresa gli israeliani, ma anche i dirigenti dell’OLP. È guidata da una rappresentanza locale che non risponde direttamente all’OLP, anche se non le si contrappone. L’Intifada attacca l’esercito di occupazione con pietre e disobbedienza di massa, il boicottaggio di prodotti israeliani, il rifiuto di pagare le tasse, molti scioperi (tra cui uno commerciale protratto per ben due mesi). Ad alimentarla è una nuova generazione, in gran parte nata dopo l’occupazione del 1967, che rifiuta l’attendismo di Arafat e organizza la popolazione in forma democratica, con un ruolo inedito e di grande rilievo delle donne. Le più giovani partecipano agli attacchi con le pietre, o deridono e insultano i soldati; le altre organizzano orti, forni e altre attività che assicurano la sussistenza della popolazione, assediata dalle truppe nei villaggi, senza rifornimenti e senza potersi spostare (per lunghi periodi anche i lavoratori pendolari non possono più raggiungere i posti di lavoro in Israele).

L’Intifada era stata preparata sia da un gran numero di iniziative spontanee (tra l’aprile 1986 e il maggio 1987 si erano registrati ben 3.150 incidenti nei Territori, che andavano dal lancio di sassi contro i blocchi stradali dell’esercito ad attacchi con esplosivi o armi da fuoco), sia sul terreno politico, con una serie di interventi che criticavano il carattere disperato (per la netta sproporzione dell’armamento delle due parti) di molte azioni violente spontanee e proponevano la rinuncia alle armi, cioè una specie di “non violenza tattica” che mettesse a nudo la brutalità degli occupanti e aprisse contraddizioni all’interno della popolazione e degli stessi militari israeliani, togliendo ad essi la giustificazione di combattere per salvarsi da un nuovo “olocausto”. Effettivamente molti soldati, dopo avere ubbidito agli ordini di sparare o spezzare le braccia ai giovanissimi che lanciavano pietre, dovettero ricorrere a cure psichiatriche, mentre una minoranza rifiutò di partecipare alle azioni nei Territori, pur accettando di prestare servizio all’interno di Israele, come altri nel 1982 avevano rifiutato di combattere nel Libano, preferendo il carcere alla partecipazione a una guerra non difensiva.

L’Intifada si è protratta per molti anni, almeno fino alla Guerra del Golfo, con varia intensità e moltissime vittime: nei primi tre anni sono morti 900 palestinesi, assassinati dai militari occupanti o dagli armatissimi coloni oltranzisti. Il 25% dei caduti era sotto i 16 anni; sull’altro fronte, nello stesso periodo, si registrano una sessantina di morti tra militari e civili israeliani (tra cui 16 occupanti dell’autobus Tel Aviv-Gerusalemme, fatto precipitare in una scarpata da un palestinese di Gaza, che ha inaugurato la serie degli attentati suicidi nel luglio 1989).

Molte delle vittime israeliane sono cadute sotto i colpi della cosiddetta “Intifada dei coltelli”, consistente in gesti disperati di giovani palestinesi che - soprattutto nell’ultima fase di frustrazione per la mancanza di risultati visibili - si impossessavano di un coltello in una macelleria e colpivano a caso i presenti, per vendicare amici o parenti uccisi. Inoltre, sono state eseguite sommarie condanne a morte nei confronti di circa 350 palestinesi collaborazionisti, o sospettati di esserlo. Molte decine di migliaia di palestinesi sono stati arrestati e detenuti senza processo; oltre 1.400 case sono state demolite, per rappresaglia contro la partecipazione di un abitante a una sassaiola; 85.000 alberi - in gran parte ulivi - sono stati sradicati.

Ma i risultati ci sono stati. Israele è stata gravemente screditata e costretta a non partecipare alla Guerra del Golfo, per non provocare reazioni troppo forti tra la popolazione dei paesi arabi, i cui governi hanno partecipato alla squallida impresa in cambio della cancellazione del debito o di concessioni di aiuti di vario genere.

Da quella guerra lo Stato di Israele è uscito indebolito. Il suo punto di forza, già dal progetto iniziale di Herzl, era presentarsi come “baluardo” dei paesi imperialisti in quell’area, contro la rivoluzione araba. Ma da chi avrebbe dovuto salvare l’Occidente, dopo che tutti i paesi arabi hanno partecipato alla crociata contro l’Iraq? Rimaneva certo una lobby israeliana negli USA - composta anche da non ebrei e perfino da convinti antisemiti - molto importante nelle scadenze elettorali di quel paese, ma il suo peso politico era comunque ridimensionato.

È questo che ha consentito agli Stati Uniti di esercitare una pressione sui governi israeliani, imponendo l’apertura della trattativa culminata nei cosiddetti accordi di Oslo, che non hanno portato a una vera pace ma hanno obbligato Israele a fare alcune concessioni (accettate dall’OLP, ma inaccettabili per il popolo palestinese e, al tempo stesso, sgradite agli oltranzisti israeliani, che hanno lavorato per dilazionarne l'attuazione).

Scheda:

Gli “accordi di pace” da Madrid a Camp David .

Negli ultimi dieci anni gli Stati Uniti, insieme ai paesi imperialisti europei, hanno più volte cercato di far giungere a un accordo Israele e i palestinesi. Alla fine della guerra del Golfo (nell’ottobre del 1991), sotto gli auspici degli Usa e dell’Unione Sovietica, ancora per poco guidata da Gorbaciov, si apre a Madrid con grande clamore coreografico una conferenza di pace. Il tentativo è quello di spingere i palestinesi a firmare comunque un accordo, anche molto insoddisfacente, vista la debolezza della leadership di Arafat. Ma questa conferenza, pur avendo il titolo ambizioso di  “pace in cambio di territori”, nasce già morta a causa dell’accettazione del diktat israeliano di non ammettere la presenza di una delegazione palestinese. Arafat ne resta escluso. Abdel Shafi e Hanna Ashrawi vengono inseriti nella delegazione giordana.

Mentre a  Madrid si consumava il fallimento della conferenza ufficiale, le trattative segrete tra Arafat e Peres spianavano la strada agli accordi. Le sessioni segrete di colloqui si svolsero ad Oslo e in poco meno di due anni portarono alla stretta di mano fra Rabin, diventato capo del governo israeliano nel 1992, Peres e Arafat, sul prato della Casa Bianca il 13 settembre del 1993.

Gli accordi cosiddetti di Oslo, però, creeranno più problemi di quanti non ne volessero risolvere. Nella “Dichiarazione di principi” sull’autogoverno palestinese tutti i veri nodi (colonie, liberazione dei detenuti politici palestinesi, gestione delle risorse d’acqua, confini del futuro Stato palestinese) vengono rinviati a colloqui “definitivi”, di cui non viene mai indicata la data.

Nel 1994 due nuove sessioni di accordi (Parigi e Il Cairo), tentano di trovare dei modi di applicazione della dichiarazione di principi del 1993. Sempre nello stesso anno, la Giordania firma il primo accordo economico “ufficiale” con Israele, dopo decenni di accordi sottobanco.

In questo contesto di sostanziale fallimento, riemerge ancora più rafforzata l’ala islamica del movimento palestinese – Jihad e Hamas - grazie al fatto che Arafat accetta il ruolo assegnatogli da Israele: quello del “poliziotto di Gaza” Sono gli anni delle grandi retate fatte dalla polizia palestinese contro chiunque si opponeva agli accordi, con l’alibi della lotta all’integralismo islamico. Nonostante tutto ciò, nel settembre 1995 Rabin e Arafat firmano a Washington dei nuovi accordi (Oslo II) che concedono ad Arafat e all’ANP (Autorità Nazionale Palestinese) l’amministrazione su una parte minima della Cisgiordania. Accordi particolari nel 1997 riguardano la città di Hebron, dove oltre 20.000 palestinesi sono ostaggi di 400 coloni oltranzisti. Questi accordi dividono in tre zone la città, trasformando la zona antica (palestinese) nei fatti in un ghetto.

Ancora nel 1998(accordi di Wye River) il ridispiegamento, non ritiro, dell’esercito israeliano dalle zone A, sotto controllo palestinese, viene rinviato continuamente. Ad Arafat viene chiesto di accrescere la repressione, in cambio di un 1% della Cisgiordania.

Nel 1999 (un anno prima dello scoppio della rivolta) i nuovi accordi di Sharm el Sheik “ridefiniscono” il calendario di Wye River, giungendo alla conclusione che il ridispiegamento dovrà avvenire non oltre il 13 settembre 2000. Questa data, come le altre stabilite, non sarà rispettata, provocando frustrazioni e la fine dell’entusiasmo che aveva salutato le prime notizie delle intese raggiunte a Oslo.


La guerra del Golfo ha comunque peggiorato ancor più la condizione dei palestinesi. Non è vero che Arafat avrebbe sostenuto il suo vecchio protettore, Saddam Hussein (che era stato utilizzato d’altra parte fino a pochi anni prima dagli Stati Uniti e dai regimi reazionari del Golfo contro la rivoluzione iraniana, e a cui era stato perdonato il massacro di curdi e sciiti); tuttavia, ha effettivamente cercato, non meno dell’URSS, un’impossibile mediazione per evitare il conflitto. In realtà, sono stati i palestinesi dei Territori occupati e quelli dei campi, frustrati dal mancato sbocco positivo dell’Intifada, a esultareper i modesti e imprecisi missili iracheni che passavano sulle loro teste, e a pagare per questo un prezzo altissimo. Ancora più pesanti le ripercussioni sui palestinesi che lavoravano – spesso con incarichi qualificati e ben retribuiti– nei paesi del Golfo, che sono stati quasi tutti licenziati ed espulsi, facendo così mancare le loro importanti rimesse ai familiari e alla stessa OLP.

Dopo la guerra del Golfo l’Intifada conosce molte difficoltà e un sostanziale declino; aumenta il peso dell’integralismo islamico, ma è anche frequente il ritorno a gesti disperati di terrorismo individuale, tra cui gli attentati suicidi.

È questo contesto che va tenuto presente per capire e non demonizzare il terrorismo che dilaga nei momenti di sconfitta e di frustrazione. Il primo elemento che va tenuto presente è che il terrorismo palestinese è frutto quasi sempre della disperazione, mentre si trova di fronte un terrorismo di Stato che, ad esempio, pratica sistematicamente massicce rappresaglie su familiari o concittadini sicuramente innocenti come ritorsione al gesto di una singola persona. Il fatto che si usino cannoni, aerei ed elicotteri o missili invece di un candelotto di dinamite non toglie certo responsabilità, anzi le aggrava. Lo Stato di Israele ha più volte abbattuto o dirottato aerei in tempo di pace, ha perfino attaccato nel 1967 la nave spia statunitense Liberty, fingendo di credere che fosse egiziana, provocando 34 morti e 75 feriti e danneggiandola gravemente per impedire che controllasse i suoi movimenti. L’alleanza non era evidentemente ancora consolidata, ma già era tale che gli Stati Uniti finsero di credere alle scuse dell’aviazione israeliana; solo quest’anno si è ammesso che in realtà erano consapevoli, e preferirono tacere.

Fin dal 1948 Israele ha praticato la distruzione di interi villaggi, uccidendo una parte della popolazione e mettendo in fuga con il terrore i sopravvissuti e gli abitanti dei villaggi vicini. Il 9 aprile toccò a Deir Yassin, con un bilancio di circa 250 morti. Altre distruzioni “per rappresaglia” vi furono nel 1953, a Qibya (60 morti, per reazione alla morte di tre israeliani, uccisi non si sa da chi), mentre 500 civili furono assassinati a freddo durante la conquista di Gaza nel 1956, 200 a Khan Yunis e altrettanti a Rafa, e 49 contadini furono sterminati mentre tornavano dal lavoro ignari del coprifuoco imposto da Israele a Kfar Qasim. Queste operazioni furono compiute direttamente da militari israeliani. Alcuni di essi furono sospesi dal servizio quando scoppiò lo scandalo sulla stampa di Tel Aviv, ma furono successivamente richiamati e continuarono la propria carriera avanzando normalmente nei gradi. Più noti i massacri che nel Libano furono delegati ai mercenari falangisti.

In varie occasioni furono dirottati aerei, o anche abbattuti, nella convinzione di trovarvi dirigenti palestinesi (come Habbash nel 1973), o generali egiziani ritenuti particolarmente capaci. In vari periodi vi furono assassinii di dirigenti palestinesi con pacchi bomba o perfino telefonini bomba, o con commandos che colpirono a Beirut o a Tunisi (dove un bombardamento del Quartier generale palestinese provocò decine di morti civili).

Il terrorismo del Mossad (il servizio segreto israeliano) ha poi colpito con particolare accanimento gli esponenti palestinesi più impegnati nel dialogo con i pacifisti dello Stato di Israele, a partire da Said Hammami, rappresentante dell’OLP a Londra, assassinato il 4 gennaio 1978. Un altro diplomatico mederato, ‘Izz al-Din Kalak, fu ucciso a Parigi il 3 agosto dello stesso anno, e il 10 aprile 1983 fu eliminato in Portogallo Issam Sartawi, erede di Hammami e principale sostenitore del dialogo con i pacifisti israeliani. Al suo posto Arafat nominò Ilan Halewy, un ebreo di origine yemenita che dopo avere militato nel Matzpen, l’organizzazione della sinistra rivoluzionaria di tendenza trotskista, aveva deciso di lasciare Israele e mettersi a disposizione dell’OLP.

Quattro dirigenti palestinesi, d’altra parte, sono stati assassinati anche in Italia: tra essi, già nel 1972, il rappresentante dell’OLP a Roma Wael Zwaiter, che aveva stabilito importanti rapporti con molti ebrei italiani. Gli altri tre, tutti uccisi in una Roma in cui il Mossad scorrazzava indisturbato, erano Majed Abu Sharar, responsabile del dipartimento dell’informazione dell’OLP (9 ottobre 1981), Kamal Hussein, vice-responsabile dell’OLP in Italia e Nazih Maitar, giornalista (17 giugno 1982, nei primi giorni della guerra del Libano).

Meno noto, ma emerso da testimonianze di protagonisti sulla stessa stampa israeliana, è il fatto che il terrorismo del Mossad colpì anche ebrei, per esempio a Bagdad, per indurli a emigrare in Israele. Un altro episodio sconcertante aveva provocato una grave crisi politica in Israele (“l’affare Lavon”, dal nome del ministro che risultò il mandante), quando alcuni ebrei egiziani furono scoperti nel 1954 mentre mettevano ordigni esplosivi in centri culturali britannici e statunitensi al Cairo e ad Alessandria, per addossarne la responsabilità al governo locale e preparare psicologicamente l’opinione pubblica occidentale all’intervento, che poi vi fu nell’ottobre-novembre 1956. Sulla grande stampa italiana e mondiale questo non sarebbe terrorismo: esiste solo quello palestinese!

In realtà, è proprio l’esempio del feroce ma efficace terrorismo con cui i sionisti hanno conquistato il loro Stato, e poi lo hanno consolidato, che ha spinto chi è esasperato da tante sconfitte e da tanti lutti a cercare questa strada.

Il terrorismo palestinese di oggi è tuttavia condannato dalla direzione dell’OLP e forse da una parte notevole della stessa popolazione, che ne subisce le conseguenze, con i bombardamenti, le distruzioni di case, ecc. Ed è tanto più assurdo - oltre che immorale e giustamente paragonato ai metodi dei nazisti - il metodo della rappresaglia sulla popolazione civile sicuramente innocente, dal momento che è evidentemente inefficace come deterrente. Chi, spinto dalla disperazione e dalla rabbia per le ingiustizie subite, è pronto ad allacciarsi una cintura di esplosivo alla vita per morire insieme ai propri nemici (come fece Sansone con tutti i filistei) non può certo essere fermato dall’esempio delle rappresaglie che hanno seguito gli attentati precedenti edè anzi esasperato da queste e sospinto ancor più decisamente su questa strada, che innesca una spirale tragica. È scandaloso che dopo ogni attentato suicida di un integralista palestinese la cosiddetta “opinione pubblica” occidentale condanni chi lo ha compiuto e non chi lo ha provocato, o almeno li metta sullo stesso piano (come fa buona parte della stessa sinistra italiana), dimenticando che la responsabilità degli israeliani è senza dubbio collettiva e ben maggiore di quella di chi reagisce individualmente ai bombardamenti e agli altri atti di rappresaglia dell’esercito, compiuti su una popolazione che spesso non ha nulla a che vedere con l’integralismo e soprattutto con il singolo “kamikaze” che si è fatto saltare in aria in un locale pubblico o ha fatto precipitare l’autobus su cui viaggiava in un burrone.

Scheda :

La seconda Intifada .

Il 28 settembre 2000 Ariel Sharon, all’epoca leader dell’opposizione al governo del socialdemocratico Ehud Barak, entra, circondato dalle telecamere di tutto il mondo e da un cordone di sicurezza imponente, nella Spianata delle Moschee. L’operazione, mediatica più che politica, di Sharon ha l’obiettivo - primario in quel momento - di sottolineare il fallimento di Barak, che nel luglio non è riuscito ad imporre ad Arafat la resa incondizionata.

La reazione palestinese è scontata, la repressione anche. Ma molte volte durante i sette anni di tregua di Oslo si sono avuti dei momenti di tensione. Nessuno, dentro e fuori i territori occupati, si aspettava che da quella scintilla venisse fuori una rivolta che, per molti aspetti, risulta essere più imponente ed importante della prima Intifada del 1987, anche se per altri aspetti più debole politicamente.

Il primo fattore che emerge è che Arafat, tornato trionfante dal rifiuto opposto a Camp David, è costretto a cavalcare la rivolta. Il secondo elemento di novità è l’unità dei palestinesi, non solo tra quelli residenti a Gaza e in Cisgiordania, ma anche con i “palestinesi israeliani (ossia rimasti tenacemente nello Stato d’Israele, soprattutto in Galilea, al momento della violenta espulsione degli altri) e con quelli della diaspora (Paesi arabi, Usa ed Europa). Il terzo fattore è l’emergere di una leadership palestinese formatasi negli anni di tregua. I veri dirigenti della lotta sul campo sono dirigenti locali, in gran parte legati ad al Fatah, che di fatto hanno costretto Arafat a non usare la polizia palestinese contro le manifestazioni.

L’aspetto di debolezza di questa rivolta sta nella mancanza di un programma reale e concreto. La reazione israeliana alla rivolta è stata bestiale: i morti dall’ottobre 2000 ad oggi sono oltre 700, i feriti non si contano più, gli alberi sradicati dalle ruspe sono quasi centomila, le case abbattute sono molte centinaia, il blocco totale dei territori ha prodotto una disoccupazione che supera il 70% a Gaza e si avvicina al 50% in Cisgiordania.

Dopo la prima fase di entusiasmo e mobilitazioni massicce, il bilancio della repressione porta a una nuova crescita degli attentati suicidi da parte di militanti integralisti islamici, che irrigidisce la politica del governo israeliano e rende più lontana una soluzione politica anche parziale. Gli accordi precedenti sono stracciati da violazioni del pur limitato territorio assegnato all’Autorità palestinese, invaso da carri armati, mitragliato e bombardato da elicotteri da combattimento. Una “nuova” forma di repressione è l’eliminazione con attacchi ad hoc di militanti e dirigenti palestinesi. Codificata “ufficialmente” da Sharon, divenuto capo del governo il 6 febbraio 2001, è stata una caratteristica che ha contraddistinto anche il governo Barak. Tabhet Tabet, noto medico di Nablus e dirigente della rivolta in quella città, e il direttore della televisione palestinese, assassinato in pieno giorno in un ristorante di Gaza City, sono solo due dei quasi venti dirigenti assassinati in questi mesi. L’obiettivo che il governo di Sharon, ma prima ancora quello di Barak, hanno perseguito con l’attuazione di questi metodi terroristici è la decapitazione dell’organizzazione che in questi mesi si sono data i palestinesi.

Gli integralisti islamici, nei primi mesi cruciali della rivolta, sono rimasti di fatto ai margini. Non a caso nei primi quattro mesi i morti israeliani sono stati solo 50, contro 400 palestinesi. È solo nella fase successiva che le perdite israeliane sono cresciute, per la ripresa degli attentati suicidi.

Chi voleva spacciare la rivolta come un colpo di coda del “nuovo nemico islamico” è rimasto deluso. Sicuramente, d’altronde, le migliaia di giovani che in questi mesi hanno affrontato l’esercito israeliano a mani nude o poco più sono gli stessi che negli anni della delusione e frustrazione seguita ad Oslo riempivano le moschee e rispondevano agli appelli degli Imam.

La rivolta del 2000 ha dimostrato che l’ascesa di consenso - sociale prima che politico - registrata dall’integralismo è legata alla mancanza di una sponda politica. In questo senso i Tanzim (una organizzazione nata nel 1995 all’interno di al Fatah), hanno nei primi mesi ridato espressione politica e organizzativa a ciò che covava sotto le ceneri e che solo gli illusi pensavano potesse spegnersi con l’acqua di nuovi accordi al ribasso. Successivamente l’autorganizzazione si è estesa anche alle altre forze politiche, islamici compresi, con la creazione dei Comitati popolari presenti capillarmente nelle città e nei villaggi.

Ogni qualvolta Arafat ha tentato in questi undici mesi di accettare accordi che, come di norma, prevedevano da parte palestinese impegni sulla “sicurezza” (ossia repressione) e da parte di Israele dichiarazioni di buone intenzioni (nessun impegno sullo smantellamento delle colonie, nessun impegno sui confini, ecc.), le organizzazioni di base hanno semplicemente ignorato le sue indicazioni. Le ritorsioni terroristiche ad atti individuali, per quanto devastanti, hanno innescato una spirale che non è semplicemente di “vendette reciproche”. In questo senso l’occupazione della Orient House e la chiusura di una decina tra uffici e sedi umanitarie a Gerusalemme Est, insieme al tentativo di assassinare con un missile Mustafa Barghuti, principale leader dell’Intifada e possibile successore di Arafat, dimostra il fatto che Sharon e Peres (sulle cui “posizioni alternative” abbiamo seri dubbi) puntano ancora una volta sulla debolezza politica di Arafat.

L’entrata dei carri armati a Jenin e l’accerchiamento di Betlemme dimostrano che la volontà politica del governo israeliano è quella di mettere nel modo più brutale la parola fine non solo a questa rivolta, ma alla “questione” palestinese. Peres (incantando ancora una volta parte della sinistra europea) si è affrettato a dire che non c’è in programma la “rioccupazione” dei Territori (ma li hanno mai abbandonati?). È chiaro che il dilagare dei carri armati e dell’esercito a Gaza e in Cisgiordania comporterebbe un coinvolgimento ben superiore degli stessi soldati israeliani, che finora si sono “limitati” a bombardamenti indiscriminati di civili e ad “assassinii mirati” di singoli militanti palestinesi, ma anche di bambini sopra e sotto i dodici anni.


Il ruolo dell’opposizione israeliana .

Dell’opposizione interna a Israele si parla poco e spesso a sproposito, ma esiste. Solo che in alcuni momenti è stata isolata dall’opportunismo dei laburisti, che in molti periodi, come quello attuale, non hanno esitato a collaborare a governi di coalizione che hanno compiuto crimini gravissimi (d’altra parte era stato lo stesso Rabin, che dopo la sua uccisione da parte di un estremista di destra fu esaltato in tutto il mondo come uomo di pace, a impartire l’ordine di spezzare le ossa delle braccia ai ragazzi palestinesi che tiravano pietre).

Ad esempio, all’inizio della guerra del Libano Peace Now, il famosissimo movimento pacifista egemonizzato dai laburisti, teorizzò che non bisognava fare manifestazioni per non indebolire lo sforzo bellico, così le prime proteste raccolsero poche centinaia di militanti della vera sinistra antagonista, che venivano represse non solo dalla polizia ma dagli stessi concittadini, che li accusavano di essere traditori e “servi di Arafat”. Tuttavia, quando i caduti israeliani in quella guerra cominciarono ad essere tanti (circa 600, molti di più che in tutti gli attentati palestinesi dei quindici anni precedenti), le manifestazioni crebbero e coinvolsero anche i moderati, che alla fine portarono in piazza duecentomila persone. (Per capire l’ambiguità e le contraddizioni dei laburisti, e dei minori partiti di sinistra, è utile pensare ai DS di fronte a Genova: quando sono stati premuti da una sinistra antagonista che incideva sulla loro base hanno finito per aderire alle manifestazioni, salvo immediati pentimenti e conseguenti lacerazioni).

Ma la coraggiosa sinistra antagonista israeliana, che ha cercato sempre il dialogo con i palestinesi a partire dalla solidarietà con le vittime di soprusi, a cui ha assicurato ad esempio la difesa legale, è poco conosciuta nel mondo, mentre ogni blanda e ambigua dichiarazione laburista viene amplificata dall’Internazionale socialista (quindi in Italia dal PCI-DS, e a volte, per forza di inerzia, anche da una parte del PRC) e da tutti i mass media. Bisogna quindi assolutamente sostenere i militanti israeliani che si oppongono da sempre alla politica criminale (e in prospettiva suicida) dei loro governi, e prima di tutto farli conoscere. Sono loro che potranno garantire, un giorno, la pacifica convivenza tra israeliani e palestinesi.

L’inconsistenza dell’Onu .

Abbiamo più volte ricordato come le poche prese di posizione corrette dell’ONU non sono state applicate. Ciò si deve in primo luogo al peso schiacciante degli Stati Uniti attraverso il Consiglio di Sicurezza in cui hanno diritto di veto, ma anche alla subordinazione di tantissimi governi di paesi ex coloniali all’imperialismo. Per questo non ci sono state che blande proteste quando all’inizio della guerra del Libano i carri armati israeliani hanno spazzato via le forze di interposizione delle Nazioni Unite, o quando nell’aprile 1996 l’aviazione sionista ha attaccato una caserma dell’ONU, uccidendovi oltre 100 civili libanesi che vi si erano rifugiati.

Non può quindi essere una soluzione quella di richiedere un maggiore intervento dell’organismo internazionale: per renderla possibile e utile bisogna creare nel mondo un movimento di solidarietà con il popolo palestinese ben più forte e cosciente di quello oggi esistente. A questo, per quanto ci riguarda, abbiamo cercato di contribuire anche con questo opuscolo informativo.


Bio Bibliografia di Antonio Moscato

 

Antonio Moscato è nato a Roma nel 1938. Ha iniziato gli studi universitari sotto la guida di Ambrogio Donini a Roma, e poi di Vittorio Lanternari, di cui è stato assistente presso l’università di Bari, anche se una grandissima influenza sulla sua formazione ha avuto la collaborazione, avviata nel lontano 1957, con Livio Maitan.

Ha insegnato per decenni Storia del Movimento operaio e Storia contemporanea presso l’università di Lecce (per alcuni anni anche Storia e istituzioni dei paesi afroasiatici). Ma la sua impostazione marxista e il suo impegno militante hanno creato negli ambienti accademici (e soprattutto tra i pentiti della sinistra) una discreta ostilità, che si è concretizzata alla vigilia del suo pensionamento nella totale soppressione della cattedra di Storia del movimento operaio, per escludere ogni possibilità che almeno uno dei tanti che si sono laureati con lui (oltre 250...) potesse continuare il suo lavoro.

La provenienza dagli studi storico-religiosi ha lasciato alcune tracce: tra i suoi libri infatti alcuni (Sionismo e questione ebraica, Chiesa, partito e masse nella crisi polacca, e Libano e dintorni. Integralismo islamico ed altri integralismi), affrontano alcuni problemi scottanti del nostro tempo alla luce di un’indagine materialista della storia, ma anche di una conoscenza specifica dell’intreccio tra religione e politica.

La maggior parte dei suoi libri sono dedicati tuttavia a quello che si autodefiniva il “socialismo reale” e alla sua crisi: tra gli altri La ferita di Praga (Roma 1988); Gorbaciov. Le ambiguità della perestrojka (Roma 1990); Intellettuali e potere in URSS (1917-1991). Bilancio di una crisi, Lecce, 1995.

Nell’ultimo decennio ha lavorato soprattutto sulla “variante cubana” del modello sovietico, e sulla sua influenza in America Latina.
 

 

Libri di Antonio Moscato in ordine cronologico

1.           Rivolta religiosa nelle campagne (con M.N. Pierini), Samonà e Savelli, Roma, 1965 (esaurito).

2.           Davide Lazzaretti, il messia dell’Amiata. L’ultima delle “eresie” popolari, agli albori del movimento operaio e contadino, Savelli, 1978 (esaurito).

3.           La “terza via” dell’Austromarxismo. Introduzione e note a un saggio di Roman Rosdolsky, Socialdemocrazia e tattica rivoluzionaria, Celuc, Milano, 1979 (esaurito).

4.           Sionismo e questione ebraica (con J. Taut e M. Warshawski), Sapere 2000, Roma, 1983. (esaurito, seconda edizione 1991 esaurita).

5.           Sinistra e potere. L’esperienza italiana 1944-1981, Sapere 2000, Roma, 1983.

6.           Israele senza confini (a cura di A. M.), Sapere 2000, Roma, 1984 (esaurito).

7.           Intellettuali e potere in URSS (1917-1956), Milella, Lecce, 1986 (esaurito).

8.           Hungaricus 1956 (edizione bilingue con introduzione e cura di A. M., introduzione all’edizione ungherese di Miklos Molnar), Sapere 2000, Roma, 1986.

9.           Chiesa, partito e masse nella crisi polacca (1939-1981), Lacaita, Manduria-Bari, 1988.

10.       La ferita di Praga (a cura di A.M., pref. di Jiri Pelikan), Edizioni Associate, Roma, 1988. Contiene un ampio saggio introduttivo e una lunga cronologia ragionata di A. M., oltre che documenti di Dubcek, Uhl, ecc.

11.       Gorbaciov e la crisi del socialismo reale (a cura di A. M.), Nuove edizioni internazionali, Milano, 1988. Contiene vari saggi di A. M., di Ernest Mandel e di vari autori sovietici.

12.       Gorbaciov. L’ambiguità della perestrojka, erre emme, Roma, 1990.

13.       Israele, Palestina e la guerra del Golfo, Sapere 2000, Roma, 1991 (esaurito).

14.       Libano e dintorni. Integralismo islamico e altri integralismi, Sapere 2000, Roma, 1993.

15.       Che Guevara, Il Calendario del popolo-Teti, Milano, 1984 (25.000 copie vendute)

16.       Intellettuali e potere in URSS (1917-1991). Bilancio di una crisi,(seconda edizione ampliata), Milella, Lecce, 1995. E’ stato tradotto anche a Cuba, e diffuso in dischetto in diverse università.

17.       Che Guevara, Storia e leggenda, (seconda edizione ampliata rispetto a quella di Teti), Demetra-Giunti, Verona, 1996 (30.000 copie vendute). Di questa edizione è uscita nel 1997 una traduzione ceca presso la Orego di Praga, con un capitolo di aggiornamento sui rapporti tra Guevara e la Cecoslovacchia, e alcuni cenni autobiografici). E’ stato tradotto anche a Cuba, e diffuso in dischetto in diverse università. Ne esiste una riedizione recente, e anche un'imitazione (o meglio un vero e proprio plagio, firmato da un tal Avolio e che figura stampato da un editore inesistente).

18.       Breve storia di Cuba. Le ragioni di una resistenza, Data News, Roma, 1996 (esaurito).

19.       Introduzione e cura di Andrés Nin, Terra e Libertà. Scritti sulla rivoluzione spagnola, erre emme, Roma, 1996.

20.       Il filo spezzato. Appunti per una storia del movimento operaio, Adriatica, Lecce, 1996.

21.       Introduzione a Guevara: gli altri diari di Bolivia, Roberto Massari edit., Roma, 1998 (l’Introduzione è quasi un libro a sé, di cento pagine).

22.       Guida storico-politica di Cuba, Data News, Roma, 1998.

23.       Il “capitalismo reale. Origini e storia. Teti, Milano, 1999.

24.       L’Italia nei Balcani. Storia e attualità, Piero Manni, Lecce, 1999.

25.       Cento... e uno anni di Fiat, prefazione di Claudio Sabattini, Massari, Roma, 2000.

26.       Che Guevara e i paesi dell’Est, (cura e diversi saggi), Quaderni della Fondazione Ernesto Che Guevara, n. 4, Massari, Roma, 2001 (di 400 pag.)

27.       Israele sull’orlo dell’abisso (con Cinzia Nachira), Sapere 2000, Roma, 2002.

28.       Le tragedie dell’Iraq. L’eredità coloniale, le ambizioni di Saddam e i “giochi sporchi” dell’imperialismo, Massari, Bolsena, 2003.

29.       Breve storia di Cuba, (seconda edizione molto ampliata), Data News, Roma, 2004.

30.       Guevara. Scritti. Gli anni della formazione, Introduzione e cura del primo volume di una antologia in due volumi, Feltrinelli, Milano (Bloccata in extremis dalla vendita a Mondadori - per un milione e mezzo di dollari - dei diritti su tutti gli scritti di Guevara).

31.       Breve storia di Cuba, terza edizione riveduta e ampliata, Datanews, Roma, 2006

32.       Il Che inedito. Il Guevara sconosciuto anche a Cuba,Ediz. Alegre, Roma, 2006

33.       Trockij la pace necessaria. 1918. la socialdemocrazia e la tragedia russa, Argo, Lecce, 2007 (riprende – con una nuova introduzione – la maggior parte del libro La terza via dell'austromarximo).

34.  Il risveglio dell'America Latina, Alegre, Roma, 2008

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