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Nave Ebraica: Shapira Denuncia Violenze Diario di viaggio Lucida Follia |
http://www.nena-news.com Nave Ebraica: Shapira Denuncia Violenze Il refusenik israeliano ha smentito la versione del portavoce militare di un assalto "senza problemi" ieri al battello pacifista "Irene". Intanto una passeggera di nazionalita' tedesca Edit Lutz, rifiuta la deportazione ed e' detenuta nella sezione femminile del carcere di Ramle (Tel Aviv) dove rimarra' almeno fino a domenica. Nel frattempo il convoglio "Viva Palestina" continua viaggio via terra per Gaza. A fine dicembre salpera' la Flotilla2 Gerusalemme, 29 settembre 2010, NenaNews Liscio come l’olio, nessun incidente, situazione calma. Il portavoce militare israeliano ieri pomeriggio si era affrettato a riferire questa versione “tranquillizzante” del raid contro il battello pacifista “Irene” diretto a Gaza con a bordo aiuti umanitari e una decina di attivisti ebrei ed israeliani. E invece le cose sono andate in modo ben diverso, come ha denunciato ieri in tarda serata, poco dopo la sua scarcerazione, l’ex pilota militare refusenik Yonatan Shapira che ha guidato la spedizione navale ebraica verso Gaza. Shapira e’ stato perentorio nel riferire che i soldati israeliani saltati a bordo dell’Irene hanno usato la forza e in non poche occasioni la violenza contro i passeggeri che pure, ha sottolineato, non avevano opposto alcuna forma di resistenza attiva all’abbordaggio avvenuto a circa 20 miglia marine dalla costa di Gaza. “Non ci sono parole per descrivere ciò che abbiamo vissuto” ha detto. “Il portavoce IDF sta tentando di dipingere un quadro diverso da quanto accaduto, come se l’abbordaggio non fosse stato violento, ma in realtà le azioni dei soldati sono state violente e molto dure”, ha aggiunto. Il refusenik peraltro e’ stato tramortito da una scossa di pistola taser usata da uno dei militari israeliani e si e’ ripreso solo dopo diversi minuti. D’altronde la stessa portavoce della spedizione pacifista Miri Weingarten, gia’ ieri pomeriggio non aveva voluto confermare la versione rassicurante data dalle forze armate israeliane. “Dopo l’arrembaggio non abbiamo avuto notizie da coloro che sono a bordo dell’Irene aveva detto Weingarten a Nena News i telefoni cellulari e satellitari sono stati sequestrati e spenti. Sappiamo solo che i soldati hanno ammanettato tutti i passeggeri e i membri dell’equipaggio. Non abbiamo altre informazioni”. Richard Kuper dei “Jews for Justice for Palestinians”, uno dei promotori della nave ebraica, ha dichiarato che l’azione israeliana dimostra “che il governo Netanyahu non vuole la pace. La sorte subita da questa barca simboleggia il destino delle speranze di pace in questa regione”. Kuper ha chiesto il sostegno della comunita’ internazionale in favore della nave “Irene” e del messaggio di protesta di cui è stata portatrice. Intanto una pacifista ebrea di nazionalita’ tedesca Edit Lutz, rifiuta la deportazione ed e’ al momento detenuta nella sezione femminile del carcere di Ramle (Tel Aviv) dove rimarra’ almeno fino a domenica. Lo scorso 31 maggio sei navi della Freedom Flotilla dirette a Gaza vennero bloccate in acque internazionali dalla Marina militare israeliana. In quell’occasione commando israeliani uccisero nove passeggeri della nave turca «Mavi Marmara» scatenando una grave crisi internazionale e una bufera nelle relazioni tra Tel Aviv e Ankara. Dopo qualche giorno venne fermata, stavolta senza uso della forza, la nave “Rachel Corrie” ugualmente diretta a Gaza. Entro la fine dell’anno salpera’ per Gaza la Flotilla 2. Due giorni fa ad Atene la Freedom Flotilla Coalition ha fatto il punto della situazione registrando che negli ultimi tre mesi, si sono aggiunte coalizioni nazionali in Italia, Svizzera, Francia, Spagna, Canada, Norvegia, Belgio, Austria, Australia, Stati Uniti ed altri Paesi, ognuna delle quali sta lavorando per inviare una nave a Gaza. La Freedom Flotilla Coalition chiede ai governi e alle istituzioni dei paesi ai quali appartengono gli attivisti coinvolti nella organizzazione della nuova spedizione navale di utilizzare tutti i mezzi legali e politici per assicurare che Israele cessi le sue azioni militari contro i convogli diretti a Gaza anche per non mettere in pericolo la vita dei partecipanti. Procede spedita nel frattempo la missione terrestre di “Viva Palestina”. Il convoglio partito da Londra il 18 settembre alla volta di Gaza, cui partecipano per l’Italia ISM-Italia e Viva Palestina Italia, giunto in Grecia ha puntato su Salonicco dove si è accampato in una zona alla periferia della città. Dopo la sosta di un giorno, durante il quale è stata tenuta una conferenza stampa, è ripartito alla volta della Turchia raggiungendo Istanbul ed Ankara. Ora è diretto alla volta della Siria. Ovunque, sottolineano gli organizzatori, il convoglio ha ricevuto una festosa accoglienza. (red) Nena News |
http://www.nena-news.com Diario di viaggio 26 settembre 2010 La rotta è 120. Altre 200 miglia al porto di Cipro, e il pilota automatico della nave, che si suppone mantenga la rotta, si rifiuta di lavorare e mi lascia con l’indeterminato compito di mantenere la rotta su un mare turbolento, senza alcuna avvisaglia di terra da un orizzonte all’altro. Ancora un’altra mezzora, poi mio fratello Itamar, anche lui “refusnik”, mi sostituirà al comando, e dopo di lui Bruce e Glen prenderanno il suo posto. Se tutto procederà secondo i piani, raggiungeremo Famagosta nel primo pomeriggio di Sabato, e lì prenderemmo a bordo il resto dei passeggeri che, insieme a noi, per quanto strano possa sembrare, tenteranno di rompere l’assedio di Gaza. Già da alcune settimane stiamo percorrendo la nostra strada verso Est, dall’Isola greca dove la barca è stata acquistata nel nord del Peloponneso, attraverso il canale di Corinto e le Isole Cicladi. Abbiamo già sperimentato ogni tipo di imprevisto da manuale: il motore sopra di noi che si è surriscaldato ed è morto, il timone che si è staccato improvvisamente, l’ancora che è rimasta impigliata, la vela che si è strappata, una tempesta e molto altro. Quello che ancora non abbiamo sperimentato invece è l’unicità, la meraviglia e il braccio forte dell’Esercito israeliano l’esercito più morale del mondo, per coloro che hanno dimenticato. Le navi da guerra non ci hanno ancora intercettati, non hanno ancora scagliato i commando su di noi dagli elicotteri e i cecchini non ci hanno ancora sparato. Queste sfide sono ancora davanti a noi, e le sperimenteremo insieme con gli altri passeggeri, tra cui alcuni sopravvissuti all’Olocausto, padri di famiglia in lutto (1) ed altri. Il vento del sudovest sta diventando un po’ troppo forte, e la bussola oscilla tra i 120 e i 130 gradi. Dò un’occhiata al Gps e vedo che sto virando leggermente a sinistra. Beh, se il pilota automatico stesse facendo il suo lavoro, potrei semplicemente sedermi, guardare le onde e scrivere indisturbato. Sette anni fa abbiamo pubblicato quello che i media chiamarono la “lettera pilota”. In quella dichiarazione annunciavamo all’intera nazione (si, abbiamo indossato le uniformi di volo e siamo stati intervistati da giornali e televisioni) che avremmo rifiutato di prendere parte ai crimini dell’Occupazione. Dieci giorni dopo siamo stati convocati per un colloquio dal Comandante dell’Air Force. Dopo avermi delineato la sua teoria razziale (nella forma di una scala di valori di sangue, dagli israeliani in alto ai palestinesi, in basso), mi ha informato che ero congedato e non ero più un pilota dell’Air Force israeliana. Molte cose sono successe da allora. Molte navi hanno attraversato il Canale di Corinto, molte manifestazioni e arresti: ma soprattutto, molti bambini sono stati uccisi a Gaza. Mi ricordo di Arik, un caro amico d’infanzia e un pilota di combattimento, che ha esitato qualche tempo sull’opportunità di firmare la lettera e rifiutare (di servire l’Esercito, ndt), ma alla fine mi confessò sinceramente che non voleva rinunciare al suo meraviglioso giocattolo, l’F-16. All’inizio si vergognava ancora un po’ per la scelta rassicurante che aveva fatto. Segretamente mi sosteneva e ammetteva che non aveva abbastanza coraggio. Sono passati sette anni, e oggi è ancora un pilota da combattimento in riserva, capo delle formazioni di attacco nella sua ala di combattimento, e sulle sue mani o sulle sue ali c’è il sangue di decine di palestinesi e libanesi innocenti, forse anche di più. Ogni traccia di moralità che aveva conservato adesso è sparita, e oggi Arik potrebbe bombardare qualunque posto, in ogni momento, dovunque gli dicano di farlo. È il fascino della routine: alla fine ogni cosa può sembrarti normale. Anche un uomo ordinario, gentile ed educato, un buon padre per i suoi figli, può essere trascinato in un’uccisione di massa. Io non ero un pilota di guerra. Pilotavo i Blackhawks, utilizzati principalmente per missioni di salvataggio e per il trasporto di personale. Una delle argomentazioni che abbiamo sentito da quelli che sono in disaccordo con noi e specialmente persone della mia parte, tre di quelle che hanno firmato la lettera era che a nessuno di noi è stato chiesto personalmente di sparare, di bombardare o di assassinare nessuno. Noi abbiamo risposto a questa argomentazione dicendo che non è necessario commettere un omicidio per poter dire che è vietato commetterlo, e che è facile dire “ho solo tenuto il comando mentre un altro pilota lanciava il missile”. Sono passati gli anni, e siamo arrivati agli eventi della Flottiglia e dell’assalto omicida a bordo della Mavi Marmara, dimostrandoci che la connessione tra la mia parte e l’assassinio di civili è nei fatti molto più diretta di quanto pensassimo. Sono stati l’unità nella quale prestavo servizio e gli elicotteri che ho pilotato a condurre l’operazione pirata, calando il Commando sul ponte. È molto probabile che a volare, quella notte, siano stati miei allievi, o piloti insieme a me in passato. Che cosa pensa, che cosa prova un pilota di Blackhawk quando si tiene in equilibrio sopra un’imbarcazione civile lontano dalle acque territoriali israeliane? Cos’è che pensa quando ordina ai suoi soldati di scendere su una barca che sta trasportando aiuti umanitari, sacchi di cemento e dozzine di giornalisti, nel bel mezzo della notte? Fondamentalmente sta pensando a come mantenere un equilibrio stabile e non perdere il contatto visivo con gli altri elicotteri e con l’imbarcazione sotto di lui. Ascolta e impartisce ordini attraverso il sistema di comunicazione interno fra gli elicotteri, e forse prova anche un po’ di paura. Dopotutto, volare sopra un’imbarcazione in mare aperto in piena notte non è una semplice operazione di trasporto aereo. E forse, il pilota, pensa anche qualche altra cosa. Forse ha una certa opinione politica o forse no, ma quel che è certo è a cosa sicuramente non sta pensando…un pilota che sta volando sopra un’imbarcazione civile in mare aperto, di sicuro non sta pensando che qualcuna tra le persone sotto di lui sia intenzionata a sparargli o sia in possesso di armi da fuoco, altrimenti non correrebbe il rischio. È assolutamente contrario alle norme dell’Esercito, a meno che non si stia conducendo una necessaria operazione di soccorso. Questo significa che loro sapevano, al di là di ogni dubbio, che nessuno a bordo della Mavi Marmara era armato. Il pilota sapeva che quelli erano civili, che stavano protestando espressamente identificandosi con il milione e mezzo di civili sotto assedio a Gaza; ma apparentemente non ha pensato al fatto che, quando pirati armati e camuffati ti saltano addosso nel mezzo della notte, è legittimo tentare di resistere al dirottamento (anche se è tatticamente e strategicamente inutile). A tutti quelli che nutrono dubbi sulla questione, raccomando caldamente di provare a immaginare di trovarsi in mare aperto nel cuore della notte, quando improvvisamente enormi elicotteri neri compaiono sopra di voi con un rumore assordante e da questi, come ladri mascherati vestiti di nero, scendono teppisti armati mentre navi da guerra si accostano alla tua barca da tutte le direzioni, e inizino a sparare, tirare granate chissà cos’altro che non riesci a identificare a causa del rumore, e del buio. Il sole ha appena lasciato l’orizzonte. Sono le 18.52. Sto cercando di pensare a cosa ci succederà nei prossimi giorni, vicino alla costa di Gaza, dentro o fuori dalle acque territoriali. Sembra che non faccia differenza quando sei al di sopra la legge e puoi sparare, assaltare, saccheggiare, occupare e umiliare senza che nessuno ti imponga un limite. Siamo nella piccola barca dei “Jews for Justice for Palestinians”. Non abbiamo intenzione di combattere con l’Esercito, anche se ne avremmo tutto il diritto. Abbiamo scelto la nonviolenza come tattica e strategia, ma non intendiamo arrenderci facilmente fin quando non ammanetteranno e arresteranno il sopravvissuto all’Olocausto, il padre in lutto e fino all’ultimo passeggero sulla nave. I colori del tramonto stanno diventando sempre più scuri e profondi. Oro, rosa e arancio con strisce di luce blu tra le nubi ardenti. Adesso Bruce, al timone, sta mantenendo la rotta a 120 con i due motori insieme, con la randa e la vela che aggiungono un altro nodo e mezzo alla velocità. Itamar si sta esercitando alla chitarra, e Glen sta preparando la cena. Sembra che gli effluvi di cipolla fritta non riempiano solo la barca (rendendo l’aria un po’ difficile da respirare), ma l’intero Mar Mediterraneo. Pare anche che salterò la cena. Il Capo di Stato Maggiore Ashkenazi ha detto alla Commissione d’inchiesta israeliana che ha indagato sugli eventi della Flottiglia, che la sua conclusione dei fatti è “più cecchini”…si…si, ecco la sua conclusione per gli assassinii della Mavi Marmara: più cecchini! La mia, di conclusione, è stata un po’ differente da quella di una persona che in futuro, prevedibilmente, sarà portato davanti ad un tribunale internazionale per crimini di guerra. La mia conclusione è stata che dovevo unirmi alla prossima barca diretta a Gaza, e cosa poteva essere più adatto di un’organizzazione ebraica che dall’Europa sta lottando per i diritti umani e la pace? Ho contattato gli organizzatori ed ho offerto loro il mio contributo come skipper. Ho imparato a farlo in una scuola, e adesso ho l’opportunità di mettere in pratica gli insegnamenti non solo per mio piacere personale, ma per portare avanti un’azione simbolica e importante con un’organizzazione che ha deciso di investire una discreta somma di denaro, ore di discussione, pianificazione e preparazione per un solo obiettivo: rompere l’assedio di Gaza. Ieri pomeriggio sull’isola di Kastelorizo, durante gli ultimi momenti di preparazione della barca, abbiamo aperto la vela in un grande spazio vicino al molo ed abbiamo scritto in arabo ed ebraico: “Yahud min ajl al-‘adala lil-filastiniyin” il nome dell’organizzazione: Jewish for Justice for the Palestinians Ebrei per la giustizia per i Palestinesi. Il corso di arabo che ho seguito durante l’estate mi ha aiutato a non confondermi scrivendo le lettere curve e Itamar, che stava sopra di me, con la luce del molo mi ha guidato su e giù, verso destra e sinistra, in modo che la scritta fosse visibile e chiara quando avremmo alzato la vela alla nostra partenza da Cipro, e quando ci saremmo avvicinati a Gaza. È seguita un’altra lunga notte di guardia al timone. Il mare era relativamente calmo, ma un moderato vento di coda ha insistito per portare i gas di scarico dei motori direttamente nella cabina di guida, cosa che ha rafforzato la mia convinzione di saltare la cena, e mi ha costretto a fare i conti con un leggero senso di nausea: guardando l’orizzonte, mantenendo una rotta di 125 e soprattutto cantando ancora e ancora la canzone migliore per uno che si trova su una barca in mezzo al mare: “Se il buio è sceso e non ho stelle…la luce è una rosa di fuoco sull’albero della mia barca, mamma…”(2). Alle 6.12 del mattino, quando ci siamo avvicinati alla costa di Cipro con i primi raggi di sole Itamar era al timone, Bruce e Glen stavano dormendo ed io stavo a prua, cercando di respirare aria pulita nonostante il fumo dei motori improvvisamente una barca di media grandezza ci ha superati. Lo ha fatto passandoci piuttosto vicino, e ci è parso strano. Ci ha girato attorno da nord muovendosi verso ovest, ed era simile ad una piccola nave da guerra. Forse eravamo già un po’ paranoici o forse no, e forse era semplicemente una barca della guardia costiera turca. In ogni caso, abbiamo iniziato a pensare e a figurarci come sarebbe stato il nostro incontro con la marina dell’Esercito israeliano, una volta arrivati alla costa di Gaza. Che cosa avrebbe fatto ognuno di noi, in che modo ci saremmo presi cura dei passeggeri, come avremmo reagito se la motovedetta Dabur avesse attaccato la nostra piccola imbarcazione, come negli incidenti precedenti. Allora abbiamo deciso di scrivere una dichiarazione in ebraico e in inglese, che leggeremo alla radio sul canale delle emergenze nautiche, quando elementi della Marina o dell’Air Force si avvicineranno a noi. Ecco quello che abbiamo scritto: “Siamo una nave dell’organizzazione ebraica europea Jews for Justice for Palestinians. Siamo sulla nostra strada per Gaza. Non siamo armati e crediamo nella nonviolenza, e siamo determinati a procedere verso il porto di Gaza. Voi state imponendo un assedio illegale su Gaza. Queste sono acque internazionali e noi non riconosciamo la vostra autorità qui. Ci sono attivisti di tutte le età a bordo di questa nave. Tra di noi ci sono sopravvissuti all’Olocausto, genitori in lutto ed israeliani che rifiutano di conciliare se stessi con l’Occupazione illegale dei Territori Palestinesi. Siamo attivisti pacifisti e disarmati, che credono nella nonviolenza, e siamo determinati di andare avanti per la nostra strada verso il porto di Gaza. Facciamo appello a voi, ufficiali e soldati dell’Esercito Israeliano, perché rifiutiate di obbedire agli ordini illegali dei vostri superiori. Per vostra informazione, l’assedio di Gaza è illegale secondo il diritto internazionale, e quindi state correndo il rischio di essere portati davanti ad una corte internazionale di giustizia per crimini di guerra. L’assedio e l’occupazione sono disumani e contrari alla moralità universale ed ai valori dell’ebraismo. Usate le vostre coscienze! Non dite “Stavo solo obbedendo agli ordini”! Ricordate la storia dolorosa del nostro popolo!Rifiutate di dare forza all’assedio! Rifiutate l’Occupazione! 1. In questo contesto, “in lutto” è da intedersi riferito ad un israeliano che ha perso una persona cara come risultato della Guerra o del terrorismo nel contesto del conflitto israelo-palestinese. 2. Dal testo di una canzone israeliana, “Zemer ahava la-yam” “Canzone d’amore al mare” |
http://jewishboattogaza.org/
Glyn Secker’s Testimony
Getting to Farmagusta was a long long trip, the longest passage we’d made two nights and three days, and having to manually helm every minute of the way as we never managed to get the auto-pilot working. Usually after such passages there’s the expectation of being able to catch up on sleep, to relax a little and to re-charge ourselves. But we were only too aware that as the last port of call this stop was going to be be the most demanding of all: we had intentionally chosen a port which was not set up for small craft and knew that even finding a berth was going to be a challenge. Then we had an intensive schedule of press conferences, loading the boat with the aid and the banners, re-fueling and watering enough for double the length of the final passage (in case we were forced to return), getting the passengers on board, and all this under the watchful eyes of the port authorities whose attitude we were uncertain of. We arrived as Sven-Y-Two as a tourist boat. A local fisherman allowed us to use one of his berths and then amazingly organized fuel from the town which he brought in jerry cans, and water, and helped me buy the outboard motor for the Gaza fishermen, spending most of the afternoon driving me round the town looking for a dealer open on the weekend. The port police were friendly but of course bound by their own cumbersome procedures, then surprised us by summoning other officials to come to us rather than us having to find them in town. Meeting up with the London team and the passengers was straightforward and a mixture of hugs and kisses and anxiety and frenetic action. The press conference the next morning generated its own momentum and and it was then that I really began to feel the whole project lifting off. And it did so with a bang the AP team were local Turkish Cypriots and as a matter of routine sought permission from the port authority to film our departure despite all the strictures to keep beneath the radar. Our hearts sank when returning to the port we were greeted by the sight of a police car. Not to arouse suspicion we had invented a story that we had just met up with a group of friends on a separate holiday and that we wished to take them for a spin around the bay. But we then discovered that the regulations required the port police to hold the passports until people return. At this point we realised the story may not hold, and we were at a loss as to what to do. After more discussion between the authorities it became clear that they had probably cottoned on to whom we really were and simply stated ‘Look, if you all just want to get on the boat and go and not return, that’s fine with us.’ ! So we were then into a frantic scramble to get away before there were any calls to higher authorities or they changed their minds. Hurriedly we laid out all the aid to be photographed, got all the banners out, got all passengers on board and within half an hour had cast off. The friendly fisherman had invited the AP media on board and as we left the port holding aloft the banners he cast off and circled us giving them the shots which went around the world and which alerted the IDF to our imminent arrival. The weather was still very kind to us and we made better progress than expected. Not wanting to time the encounter with the IDF in the dark we slowed down and when the morning had warmed up I suggested that a good way to de-stress would be to stop the boat and for us all take a swim in the sparkling deep blue water. We put out a long line with a fender on the end and in we all plunged a swim to remember. Reuvan was amazing, confidently swimming away from the boat and me trying to keep him within reach of the safety line! I think I was the only one who had any breakfast home made muesli (wonderful almond nuts). And then finally after all these days and weeks of anticipation we identified a frigate on the horizon. It shadowed us for some considerable time, keeping on our port side about five miles off. Then we saw a number of smaller craft lined up and realized that the encounter was approaching. We rehearsed our strategies and waited, with adrenalin levels slowly rising. Shortly there came a call on Ch 16 over the VHF from the frigate asking us our intentions and the flag of the boat. I informed them that we were heading for Gaza port, that we were in international waters and had no intention of entering Israeli waters. They replied that Gaza was within a prohibited area and that we should change our course. I responded by stating that that did not accord with international law, that we were unarmed, had no materials which could be put to military use, that we carried a consignment of aid for Gaza and that we expected safe passage. They then warned us that they would intercept us, that this could be dangerous for the crew and damaging for the boat. I reiterated that as a British flagged boat they had no legal right to intercept us and that we intended to maintain our course to Gaza. There was no reply and we continued on our passage for perhaps another twenty minutes presumably they were waiting for us to cross the boundary of their unilaterally declared prohibited zone. There then developed a sight which will remain with me for the rest of my life with the frigate in the background, two gunboats, two landing craft and four high powered ribs spread out in a semi-circle speeding towards us at perhaps 35 knots, with their bow waves and wakes flashing in the sunshine. It was surreal, it was like an action movie, and entranced by the sight I had to remind myself this was actually happening this overwhelming force for a 9.7 metre 40 yr. old boat, the majority of its Jewish occupants over 60 years old, with no weapons and a publicized policy of passive resistance. The next we knew there were two ribs very close alongside with the commander on a megaphone again warning us of the dangers if they boarded us. I reiterated our legal rights, and for what it was worth I accelerated, just to make a point that outpacing them was fantasy. Then as planned Itamar addressed the commandos in Hebrew and English, calling on them not to obey the orders to take actions which are illegal under international law. The ribs closed in, and the boarding commenced. All the crew and passengers (apart from myself as I was steering) held hands.They boarded us simultaneously from both sides. At that moment we cut the engines and sat over the access points to the cut offs to prevent them restarting the engines. The wheel is on the starboard side of the boat. I was surrounded by three commandos, I held on to the wheel as hard as I could. It reminded me of being on violent picket lines with the police trying to break through. One grabbed my left arm, another my right arm. The third stood by with a Tazer gun. After a struggle they managed to prize my hands from the wheel and threw me down on the floor. I managed to crawl behind them and remove the engine starter keys but one of them saw me and prized the keys from my hands. On the opposite side of the cockpit Yonatan Shapira and his brother Itamar had been identified by the IDF commander in charge. He sought to separate them from the others. Yonatan clasped Rami in a hug to prevent himself being removed. The senior officer then moved one sideYonatan’s lifejacket covering his left breast, placed a Tazer gun in contact with his clothing and fired it directly into his heart. Yonatan let out a dreadful scream and the force of the Tazer caused him to lose control of his muscles. He was pulled off Rami and across the cockpit to the middle. He was then hit twice more by the Tazer gun, screaming out again. Both he and Itamar were forcefully pulled off our boat onto the IDF rib on port side.They were driven at very high speed over the waters, which had now become moderately rough (the wind had increased to a F4) and it would have been very uncomfortable especially for Yonatan still recovering from the Tazer shocks. They were taken to the frigate where they were treated normally, then to shore and released on bail without charges. Meanwhile I had turned off the fuel supply to the engines. After some time (the engines only burn 1 1/2 litres per hour) when the fuel in the pipes had been used up the port engine started to fail. (The starboard fuel shut-off failed to work). After many attempts to restart the engine the IDF took the boat in tow. The boat is designed to go through the water at a maximum speed of about 8 knots. They towed us through the rough waters at 12 14 knots. The boat was bouncing about violently, it was dangerous for the remaining passengers and crew, including Reuvan, our 82 year old holocaust survivor. We all sustained bruises and the passage to Ashdod was exhausting. There was something like eight commandos on the boat in addition to ourselves so it was grossly overloaded. It was surprising that the boat did not begin to break up, the whole structure was groaning and making cracking sounds. It was clear that they intended to seriously mistreat the boat. During the passage they tore down all the banners and flags including the red ensign (the UK flag) which legally has to be displayed in all foreign waters. As a gesture of defiance I decided to cook lunch! Not easy in the circumstance but I managed to produce omlett (with garlic) sandwiches which Reuvan, Lillian and I think Eli and I shared. Whilst in the galley I took the opportunity of chucking out of the window the carving knife, the bread knife, a chisel and two hammers from the tool box, remembering that similar items had been photographed as evidence of weapons on previous boats. I’d like to point out that in the USA it is illegal for the police or the army to fire Tazers directly into the heart as there have been a number of cases of heart failure and death as a result of such targeting. The fact that Yonatan was released without charge makes it very clear that the use of the Tazer on him was purely malicious. Contrary to IDF reports, there was therefore, considerable resistance, be it non-violent, to the IDF’s illegal hijacking of our boat, and there was considerable, unprovoked and very dangerous violence perpetrated by the IDF. On arriving at Ashdod we were greeted by perhaps 100 people in uniforms of one sort or another within an a secure area created by ships containers. We were obliged to pass through a tent where we were subjected to detailed body searches and luggage searches. I was the last out as I insisted on making an inventory of the boat valuables, though I was unable to get any officer to countersign it it, it was taken by a female officer from I believe their foreign office, but this was not clear. Before I was allowed back on the boat to do the inventory it was searched, including the use of a dog. None of us of course had any illegal drugs, but I have to admit of a nervous moment when someone asked me if any previous owner might have stashed anything away this hadn’t occurred to me. Whilst waiting I was approached by a Major who stated that he was in charge of Gaza boarder security and he offered to transport our aid to Gaza. He arranged for us to go onto the boat, I extracted the aid from the lockers and he placed it where he could find it later. The boat was in a state of chaos, having been ransacked by those searching it. I don’t suppose they intend clearing out the fridge and other food, so god knows what it will be like after a few weeks in what is still a hot time of year. Combined with the split bellows on the loo pump whoever goes on the boat next will need a good face mask and a strong stomach. I was taken to the Immigration and Boarder Authority where I experienced a truly Kafkaesque moment. We were presented with a form to sign which stated that I was due to be deported being suspected of residing in Israel illegally. When I pointed out that the only reason I was in Israel at all was that the IDF had kidnapped me and forcefully brought me into Israel on the orders of the government, the reply was that it did not matter who had brought me in, but that now I was there I was there without permission and so due for deportation. They were not amused by my laughter. The regulations allowed for a rapid departure at their expense if I signed the form, but I was anxious not to be seen to recognize the Israeli law creating the blockade and therefore the basis for deportation.Then equally bizarrely, they stated that I could add whatever statement I wished to the form and could have a photocopy, so I added a clause stating that I did not recognize the legal basis for the deportation as it had no basis in international law, and duly signed. Eventually the lawyers then arrived really great people. I checked that my understanding of the law was correct and that if I had opted to go to court to appeal the deportation the result would have been the same and they confirmed I had it right. The IDF had smashed up the sat phone I had hired in front of me. I hope they will explain to the insurance company why they had not just taken it so that it could be returned later. I was then taken to the detention centre at Ben Gurion airport. Again we and our luggage were all subject to yet more detailed searches. The smallness of the minds of those whose job it is day in and day out to carry out these numbing tasks can only be guessed at. Then, I was alone with Vash, banged up for the night banged being a very appropriate word describing the door slam behind you. Having many times visited clients in detention or prison as a social worker it was odd indeed being on the other end but my complete self confidence in the absolute correctness of our principles and our understanding of international law never deserted me. Despite asking for water I was left without a drink for 12 hours. When I asked again in the morning I was told to drink the tap water which was warm. Later they provided a cup of tea and a roll and a towel, so I was able to shower. The officers who were to take me to the airport were Ethiopian Jews and were required to put me in ankle cuffs for the journey. I told them it was not at all necessary they were rather embarrassed and apologized but said they were obliged to use them. At least they carried my bag to the minibus. I was taken directly to the plane on the tarmac and had to climb a metal staircase up to the access, the cuff chain clanking on the steps reminded me of Winton Marsarlis’s song about the chain gangs. They removed the cuffs out of sight of the other passengers and then another Kafqeresque moment when I am welcomed aboard by the chief steward as any other passenger, informed that there will be a meal and drinks provided and wished me a comfortable journey! There was sophisticated inflight entertainment it was a Boeing 777 but there was no news service at all, very odd, I was in an El Al bubble. I didn’t think anyone at home knew of my flight arrival time as I didn’t know it until I was on the plane, but the lawyers must have told Miri and it was absolutely great, in fact overwhelming, to be greeted by Vanessa and a welcome party of close friends amazing, what a two days, never to be forgotten. Its fantastic coming back to amazing support that’s buzzing. I’m overwhelmed with the results I think it was really successful. We made our point to the world very powerfully that there are probably hundreds of thousands of Jews around the world who are appalled at the Israeli policies to the Palestinians; the violations of their humanity and their human rights. |
http://www.bocchescucite.org/ Lucida Follia “Uscendo dall’interrogatorio, Yonatan sembrava come qualcuno appena uscito da un campo di prigionia: un lungo volto pallido e distorto. Erano gli stessi, mostruosi soldati che hanno attaccato la Mavi Marmara. Erano tutti dietro di lui. Lo hanno picchiato, preso a calci, provocato. Gli altri passeggeri hanno detto che urlava e palpitava come un animale ferito, ma il mostro non ha voluto fermarsi. Yonatan e Itamar, due fratelli ebrei israeliani tra i membri dell’equipaggio della Irene, sono stati ammanettati e trascinati a lungo nella nave per poi esser gettati violentemente a bordo di un’altra barca. Ma la storia si ripete: vengono accusati di aver aggredito i soldati e di aver opposto resistenza all’arresto. C’erano dozzine di militari dei corpi speciali armati fino ai denti che li hanno assaltati a bordo della nave, aggredendoli da quattro navi da guerra. Un ufficiale di Stato superiore, Amidror, capo dell’Unità di ricerca dell’Israeli Defence Force (IDF) ha detto alla radio due giorni fa che Yonatan Shapira, un ex pilota dell’Air force, è psicopatico e deve essere rinchiuso”. di Nurit Peled Chissà cosa potrebbe pensare una persona che legge queste frasi. Chissà cosa potrebbe provare. Orrore, certo. Stupore forse. Perplessità… Perchè in fondo in fondo uno poi dice… mah i soliti esaltati che se la vanno a cercare. Pacifisti delle cause perse. E poi pare che magari uno di loro era anche un po’ instabile… Ecco cari amici! Questo editoriale è dedicato a quel ‘matto’ che Luisa Morgantini definisce ’sole e luna’ di tutti noi. A questo ragazzo che noi di BoccheScucite abbiamo conosciuto qualche anno fa, quando aveva deciso da poco tempo di dire basta alla violenza, all’occupazione militare, all’oppressione di un popolo intero. Vogliamo abbracciare stretto Yonatan, insieme a tutti gli imbarcati sulla “Jews for Justice for Palestinians”. E vogliamo ripercorrere con lui i passi di questa sua ‘follia’ che è cresciuta piano piano. Una lucida follia. Una follia benedetta. Vi presentiamo una chiacchierata che Nandino Capovilla ha avuto con lui lungo la spiaggia di Tel Aviv mentre, seduto al caffè, Yonatan guardava il mare, ma anche attorno a sé, e poi ha chiesto di continuare la conversazione in auto… perchè è dura fare il refusnik in Israele. Ti guardano e ti ascoltano tutti… Era dura e oggi lo sarà ancora di più per lui e suo fratello. Chissà se si nasce pacifisti … di certo lo si diventa quando si comincia a sentirsi responsabili delle proprie azioni, anche quando sono ordinate dall’alto e ci sarebbe l’alibi del ‘me l’hanno ordinato’.. Lo si diventa con fatica, pagando purtroppo. Vorremmo tutti avere la capacità di diventare folli come te, Yonatan. Di immergerci con te nella ‘pazzia del pacifista’. Ci uniamo a Nurit Peled El Hanan, israeliana, madre di una ragazzina uccisa in un attentato, il cui marito era sulla barca insieme a te: “ Il mondo intero dovrebbe sostenere Yonatan e Itamar Shapira in questo momento, perché le forze di sicurezza sono certamente dietro di loro, e non ci sono limiti a quello che questi soldati potrebbero ordinare”. E scorrendo le righe del tuo diario (A VOCE ALTA) concordiamo con te che “alla fine ogni cosa può sembrarti normale”: basta chiudere gli occhi e il cuore. E obbedire. E combattere. Grazie Yonatan, skipper della giusta causa! Tel Aviv, agosto 2004 Intervista a Yonatan Shapira Don Nandino Capovilla: Chi è Yonatan Shapira? Yonatan: E’ una persona normale. Io amo la vita, amo volare, amo la gente e non amo l’occupazione. Fino a non molto tempo fa ero parte a mio modo dell’occupazione. Ero un pilota di elicotteri e facevo salvataggi, attacchi e missioni. Quasi un anno fa ho iniziato con i miei amici a scrivere una lettera, in cui annunciavamo il nostro rifiuto di partecipare ad attacchi e missioni nei territori palestinesi. Ho dato le mie dimissioni dall’aviazione e da allora sto cercando di dedicare tutto il tempo possibile per dire e cercare di spiegare alla gente in Israele e in altre parti del mondo che noi dobbiamo rifiutarci di prendere parte ad un’occupazione che è illegale e immorale. Don Nandino: Quando hai deciso di diventare un refusnik? Yonatan: E’ un lungo percorso, un lungo processo di consapevolezza. Comincia quando sei in una situazione in cui sei totalmente convinto che il tuo governo e tutto il sistema stiano lavorando bene. Si va avanti a sbagliare e alla fine si decide che quel sistema è corrotto e che non se ne devono più eseguire gli ordini. Per me il momento è stato nel giugno del 2002, quando un F16 dell’aviazione ha bombardato uno dei sobborghi di Gaza. Ha ucciso anche 9 bambini e ciò è contro qualsiasi regola a cui sono stato istruito. E’ sbagliato esattamente com’è sbagliato che un kamikaze c si faccia esplodere in un bus uccidendo gente innocente del mio popolo. Per un bambino morire in questo modo non fa differenza: a lui non importa se ad ucciderlo è stata l’esplosione provocata da un kamikaze o una bomba dell’F16 guidato da un pilota buono e morale. Per lui non c’è nessuna differenza. Don Nandino: Dicevi che è stato un processo lungo… Yonatan: E’ incredibile per me pensare che c’è voluto tanto tempo per rendermi conto che io ero parte di questa occupazione, che il mio lavoro e la mia esistenza erano parte dell’occupazione. E’ duro pensarlo. Per me era difficile: mi piaceva tanto guidare l’elicottero e mi piaceva andare a salvare le persone, perché è qualcosa che ti da grande soddisfazione e ti riempie. Sai che stai portando persone all’ospedale, che le salvi, che rischi la tua vita per salvare la loro vita. E in questo non vedi niente di male. Certo, io non ho mai ucciso. Ero una parte essenziale dell’intera macchina dell’esercito di occupazione e per me era difficile capire la relazione tra il lavoro che mi piaceva così tanto e l’occupazione che odio così tanto. Non ho partecipato direttamente alle azioni perché volavo con l’elicottero, facevo salvataggi e attacchi; facevo atterrare le forze di comando e salvare i feriti. Ma tra i firmatari della nostra Lettera ci sono molti piloti che combattono, portano gli F16, gli elicotteri Apache e gli elicotteri Cobra. Piloti che già avevano sparato sui territori e in Libano. Don Nandino: Ora tu continui a vivere qui, a combattere ben altre battaglie… Yonatan: Se tu non ami una cosa, la lasci presto. Se non ami qualcuno o qualche posto, te ne vai. Il fatto che io sia ancora qui e cerchi di cambiare le cose dipende dal fatto che io amo questo posto, sono attaccato alla terra, alle colline, alle valli, al mare e anche alla gente. Proprio come quell’altro popolo che vive non lontano da qui: ama la sua terra, è attaccato a questo posto e abita qui da generazioni e generazioni. Questa è la prima cosa da dire in questo conflitto. Don Nandino: Raccontami del movimento dei refusers. E’ importante che in Italia se ne conosca la consistenza. Yonatan: A tutt’oggi ci sono circa 1300-1400 refusers che rifiutano di collaborare all’occupazione in molti modi. Ci sono piloti, comandanti, soldati semplici e giovani che si rifiutano di servire nell’esercito. Ci sono molti tipi di reazione, ma la più importante è quella di coloro che ci sostengono da dentro il sistema. Si tratta di piloti, soldati, comandanti che ci sostengono in silenzio, perché hanno paura di parlare, ma che sono contrari al governo. Ci danno un sostegno molto forte ma in silenzio e io li chiamo “il più grande movimento del futuro” oggi, in Israele. Penso a quei sostenitori silenziosi, quei coraggiosi refusers che sono, per esempio, i piloti che hanno accordi segreti con i loro comandanti e non prendono parte agli attacchi nei Territori, pur restando in volo con la squadra. Non vengono mandati in quelle aree e il comandante non ha problemi con loro perché non firmano petizioni. Il numero dei refusers è molto più grande del numero reale. Per me questa è proprio la punta di un iceberg, di un enorme iceberg che sta sotto la superficie e noi siamo solo la punta dell’iceberg. Ecco perché il sistema, l’esercito, il governo agiscono così duramente con noi: hanno veramente paura del nostro reale potere. E’ il potere della mente umana che è libera e che rappresenta una minaccia per il governo. Questa è una cosa molto importante, non solo in Israele ma in tutti gli altri posti che hanno una situazione simile. Don Nandino: Forse è questa la difficoltà maggiore: rimanere una mente libera quando sei ‘dentro’. Yonatan: Ti assicuro che quando sei dentro all’ingranaggio della missione, sei del tutto convinto che quello che fai è per il bene del tuo paese e per difendere la tua gente. E non pensi che questo. Ma oggi sono anche certo che noi siamo diventati ‘domande’ per la nostra gente: quando partecipiamo a dibattiti nei media e all’interno delle nostre squadre militari, quando i militari cominciano ad avere problemi per le scelte che fanno e ciò che sentono dal nostro movimento, sorgono molte domande da parte delle loro famiglie e degli amici: “Cosa fate là?” “E perché?” “E’ giusto o sbagliato?”. Nella Bibbia ebraica c’è un detto molto importante e i Rabbini ripetono che essa è la base del giudaismo. Tu puoi tradurla ancora meglio: “non fare al tuo vicino o al tuo amico ciò che non vorresti fosse fatto a te”. Veramente ci hanno insegnato che questa è la cosa più importante, molto più importante che venerare Dio e di tutti i dieci comandamenti. Se veramente vedi e senti che il tuo vicino è un essere umano proprio come te, ti renderai conto un giorno che noi stiamo facendo molto male alla gente che abita a qualche metro da noi. Questo è ciò che mi sento di dire alla gente che si dice ebrea. Questo è il fondamento di tutto. Don Nandino: E il resto del mondo cosa può fare, secondo te? Yonatan: Prima di tutto penso che la gente deve capire che per aiutare Israele, per sostenere gli israeliani e i palestinesi e far qualcosa per Israele, bisogna condannare ciò che il governo d’Israele sta facendo. Don Nandino: Come iniziare percorsi di pace? Yonatan: Israele ha la possibilità di prendere decisioni di pace. Qui siamo noi la parte più forte. Noi abbiamo l’esercito più forte della regione e abbiamo tutta la possibilità e il potere di cambiare la situazione. La responsabilità è solo nostra. Dobbiamo cominciare a cambiare. Non dobbiamo aspettare nessun altro. Non dobbiamo aspettare una leadership migliore, non dobbiamo aspettare un movimento di refusers in Hamas. Non è tempo di aspettare. E’ ora di agire. E subito.
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