Vai all'Indice |
Parte IV I METODI DI ANALISI
Capitolo1 L'ANALISI CAUSALE
1) Il dibattito sulla causalita` Abbiamo gia` visto come la 'teorizzazione causale', e cioe` la costruzione di teorie tramite la ricerca delle possibili cause di un fenomeno, sia uno dei metodi normali di teorizzazione sociologica (gli altri, per ricordare, sono la 'teorizzazione assiomatica', e quella 'tipologica' o 'classificatoria', detta anche 'tassonomica') (parte II, cap.1). Turner, come gia` detto, definisce la spiegazione causale come quella che cerca di individuare le connessioni causali tra variabili che spiegano le variazione nelle regolarita` del fenomeno in analisi. Ed abbiamo gia` indicato come siano possibili rapporti simmetrici, ed asimmetrici, tra variabili diverse. I primi aprono la strada a quella che e` stata definita la "causalita` circolare" o "retroattiva", che molti ritengono essere al centro delle scienze sociali nello studio delle societa` complesse (Morin, 1985), e di cui avremo occasione di riparlare nel proseguo di questo capitolo. I secondi, invece, aprono la strada all'analisi dei rapporti tra 'necessarieta`' e 'causalita`', con la distinzione tra cause necessarie ma non sufficienti (cause parziali); cause sufficienti ma non necessarie (cause alternative); che, insieme, aprono la strada al problema della multicausalita` di un evento ed ai diversi metodi di analisi multifattoriale; ed infine delle cause necessarie e sufficienti, che e` la forma piu` forte di rapporto causale, ed e` stata spesso considerata come la forma tipica di "causa", ed ha portato ad infinite discussioni sia sul concetto stesso di causa, sia sulla sua utilizzabilita` nelle scienze sociali. Abbiamo gia` visto come l'impostazione di Weber, ed il principio di indeterminazione, abbiano portato a superare il concetto di causa come connessione necessaria tra i fatti dell'esperienza, per fare emergere invece una connessione probabilistica tra di essi. Il concetto di causa e` stata elaborata fin dalla Antica Grecia, con la sottolineatura di cause puramente fisiche o meccaniche (atomisti), o di cause intelligenti e finalistiche (Anassagore, Platone, gli stoici). Da questa impostazione e` nata la tendenza verso la spiegazione razionalistica dei fenomeni naturali che caratterizza tutto il corso del pensiero filosofico e scientifico occidentale (AA.VV.,1993, p.135). Aristotele, sviluppando questo concetto, identifica espressamente la conoscenza scientifica con la ricerca delle cause, distinguendole in quattro tipi: la causa materiale, cio` di cui una cosa e` fatta; la causa formale, la forma, il modello, od anche l'essenza di una cosa; la causa efficiente, l'agente che produce una cosa; la causa finale, e cioe` il fine per cui una cosa viene prodotta. Quest'ultimo concetto fa identificare la causa con la funzione di un fenomeno, ed avremo occasione di riaffrontarlo nel capitolo sull'analisi funzionale. In seguito sono state distinte le cause 'dirette' da quelle 'indirette', quelle 'univoche' da quelle 'equivoche', ma, soprattutto, l'attenzione e` andata sempre piu` concentrandosi in quella definita come causa efficiente, che e` stata tradotta nel concetto scientifico di legge o relazione causale, matematicamente misurabile (meccanicismo, determinismo). La fisica moderna, da Newton a Laplace, si e` basata su una concezione della natura di questa tipo, che era pero` stata messa in discussione da Hume che sosteneva invece che "la necessita` causale e la conseguente presenza di leggi universali della natura e` una mera ipotesi, motivata esclusivamente da un'abitudine psicologica-associativa umana" (Ibid.). Weber, come abbiamo visto, riteneva che il determinismo, che considerava valido per lo studio della natura, non fosse di alcun aiuto per lo studio della societa` umana, essendo questa il regno della "parzialita`", e della "probabilita`" piuttosto che della "necessita`" (Weber, 1958, p.226). Ma lo studio delle molecole ed altri sviluppi della fisica moderna (ad esempio il principio di indeterminazione di Heisemberg, e quello della relativita` di Einstein) hanno messo in crisi, anche tra gli studiosi delle scienze della natura, il modello di causalita` meccanicistico, sostituendolo con uno di tipo probabilistico "in cui il nesso causa-effetto non e` piu` determinabile secondo i tradizionali criteri di oggettivita`" ( AA.VV., 1993, p. 135). Questo ha portato Mach, ed alcuni suoi collaboratori, alla proposta di eliminare il concetto di causalita` e di relazione causale dal campo della scienza, e disostituirlo invece con quello di "legge descrittiva". Secondo questo studioso "le leggi scientifiche mirerebbero pertanto a rilevare la costanza e l'uniformita` dei fenomeni mediante 'descrizioni sintetiche' (come diceva Mach). La conoscenza scientifica si riduce cosi` alla formulazione soggettiva di sequenze uniformi che esigono una continua verifica da parte dell'esperienza e che d'altra parte non avanzano piu` la pretesa di 'spiegare' i fenomeni facendo ricorso a supposte relazioni di causalita` oggettive" (Ibid., p.135). Tale impostazione pero`, secondo l'autore della voce "causa" della suddetta Enciclopedia, cui ci siamo largamente rifatti per questa analisi storica del dibattito sulla causalita`, non e` del tutto accettata."La fisica teorica e l'epistemologia contemporanee, pur ammettendo il valore delle leggi descrittive, risultano prevalentemente orientate verso l'elaborazione di un nuovo e piu` articolato concetto di causalita`" (Ibid.). Ma le leggi descrittive di Mach aprono uno spazio allo studio dei modelli (le cause formali di Aristotele), che saranno al centro della metodologia weberiana e di certe forme di sociologia qualitativa-descrittiva, e ci ricordano anche le osservazioni di Kaplan sull'importanza, per le scienze umane, del "metodo configurazionale", contrapposto a quello della "sommatoria". Avremo occasione di riprendere questo tema nei capitoli successivi dedicati ai metodi di analisi eminentemente qualitativi. Un ulteriore contributo all'analisi del dibattito sulla causalita` e sulla sua importanza nelle scienze sociali e politiche e` quello di D. Fisichella, nell'introduzione al suo volume sui metodi scientifici nella ricerca politica. Egli parte dall'impostazione di Comte che considera vana ogni ricerca di cause sia primarie che finali ("talche` la parola 'causa' deve essere cancellata dal vocabolario della 'filosofia positiva') (Fisichella, 1988, p.649). Egli ritiene infatti che la sociologia dovrebbe "limitarsi a studiare le relazioni invariabili che costituiscono le leggi effettive di tutti gli avvenimenti osservabili" (Ibid,. p.64). Tra gli studiosi contemporanei Fisichella prende in analisi il pensiero sulla causalita` di Kuhn e Bunge. Kuhn considera la "causa" come un concetto eminentemente "metascientifico", e ritiene che l'individuazione di una causa e di un effetto ad essa seguente sia stato una parte vitale della fisica nei secoli XVII e XVIII, ma che questo e` declinato nel XIX secolo, e praticamente scomparso nel XX. Infatti si conoscono spiegazioni di fenomeni naturali che non sono causali in senso stretto, in quanto nessun agente attivo risulta come causa, e dato che l'inserimento del concetto di probabilita` ha prodotto un "cambiamento radicale nel principio di spiegazione" (Fisichella, p.66), Inoltre per Kuhn il principio temporale, e cioe` che un evento che venga qualificato come causa debba accadere almeno un istante prima di quello designato come effetto, non e` necessariamente vero. Infatti, in casi specifici, come, ad esempio l'orbita di Marte (che ci ricorda, come forma di spiegazione data da Kuhn, la causalita` reciproca ed interattiva di cui abbiamo gia` parlato) "ciascun elemento e` essenziale alla spiegazione, ma nessuno e` la causa del fenomeno. Nessun elemento e` anteriore, piuttosto che simultaneo o posteriore, al fenomeno che deve essere spiegato" (Ibid., p.66). Percio` Kuhn ne trae le conclusioni che lo sviluppo della scienza ha portato ad usare nelle sue spiegazioni un numero sempre maggiore di modelli irriducibilmente distinti, alcuni basati sulla causalita`, ed altri no. Il che, come si puo` vedere, limita il campo della spiegazione causale, ma non l'annulla. L'altro autore contemporaneo preso in analisi da Fisichella e` Bunge, che ha dedicato al problema della causalita` vari e notevoli lavori. Secondo questo studioso non e` lecito espungere il concetto di "determinazione" dal territorio logico ed epistemologico della fisica, solo che si sono scoperti tipi di determinazione non conosciuti in precedenza che hanno costretto a rivedere il determinismo (Bunge parla di neodeterminismo) che attualmente suppone soltanto che "ogni cosa ed ogni evento emergono dalle condizioni precedenti "ipotesi genetica o di non-magia", ma che tra certe proprieta` ed altre sono possibili sia rapporti di congiunzione semplice o regolare (una relazione funzionale invariabile tra proprieta`), sia rapporti di congiunzione stocastica (una relazione percentualmente ricorrente, calcolabile probabilisticamente). In complesso Bunge individua tre diverse forme di rapporto causale: causalita` in senso stretto (che in sostanza coincide con la causalita` semplice, la quale comporta corrispondenza biunivoca tra l'insieme delle cause e l'insieme degli effetti); pluralita` delle cause (un certo numero di cause diverse possono produrre alternativamente, e non congiuntamente, un medesimo effetto); pluralita` degli effetti (una causa qualunque puo` produrre alternativamente, e non congiuntamente, effetti diversi). Secondo Bunge a ciascuna di queste tre forme corrisponde una versione del principio di causalita`: a) ogni evento ha esattamente una causa ed ogni causa ha esattamente un effetto; b) ogni evento ha almeno una causa; c) ogni evento ha almeno un effetto. Ma secondo Bunge la nozione di probabilita` implicita negli enunciati di causalita` multipla e` "incompatibile con la necessita` evocata dalla parola 'causalita`'" (Ibid., p. 69). Anche per questo, secondo lui, il rapporto causale e` soltanto uno, ed il piu` semplice , tra i numerosi tipi possibili di determinazione (Ibid.,p.68). Fisichella prosegue sostenendo il significato eminentemente filosofico, piu` che scientifico, del concetto di causalita`, che emerge sia dall'impostazione di Kuhn, che da quella di Bunge, ma che anche altri studiosi, ad esempio Halbachs, condividono, sostenendo il carattere di astrazione della relazione causale. Infatti il principio secondo il quale ogni causa ha esattamente un effetto e` considerato sostanzialmente filosofico perche` di fatto l'esistenza di perturbazioni intervenienti singolarmente e calcolabili solo in maniera aleatoria fa si` che l'esatta descrizione teorica di un fenomeno fisico risultera` sempre dalla combinazione di una legge causale e di una legge aleatoria "prezzo dell'universale interdipendenza dei livelli della natura" (Ibid., p.73). E questo porta Fisichella a rimettere in dubbio, sulla base delle indicazioni di Comte, la validita` della nozione di causa nella scienza in generale, ma soprattutto in quelle sociali. Ma questo ripropone il problema di cosa si intenda esattamente per causa. Secondo alcuni studiosi questa va vista come "condizione sufficiente", altri invece distinguono tra causa come condizione o necessaria, o sufficiente, ed infine per condizione necessaria e sufficiente insieme. Queste divergenze definitorie portano Fisichella a mettere in dubbio la validita` di tale concetto per le scienze sociali e politiche. "Perche` usare la parola 'causa' - scrive Fisichella - quando essa designa un concetto e significati cosi` poco chiari, cosi` controversi ed anche cosi` carichi di risonanze metafisiche? Quanto ne guadagna la linearita` dell'argomentazione ?" (Ibid., p.74). Ed egli prosegue: "Pur dando luogo ad esercitazioni logiche e categoriali dense di suggestioni..... il concetto di causalita` non riesce ad emergere con una identita` tale da renderlo specifico e distinguibile rispetto alla problematica condizionale. Neppure l'equazione causa uguale condizione sufficiente sta univocamente in piedi: ad esempio se assumiamo che lo sfregamento di un fiammifero su una superficie ruvida e` la causa che provoca l'effetto dell'accensione, ci accorgiamo che in realta` l'effetto si verifica soltanto se il fiammifero e` asciutto (prima condizione), e se l'azione ha luogo nell'aria o nell'ossigeno (seconda condizione). E percio` anche situazioni estremamente semplici configurano in realta` complessi condizionali, nei quali per il verificarsi dell'evento la cosiddetta condizione sufficiente ("una condizione e` sufficiente quando afferma 'questo basta' a produrre un determinato effetto") e` accompagnata e presuppone condizioni necessarie". E Fisichella conclude: "D'altra parte, il discorso condizionale e` piu` 'omologo' alla epistemologia contemporanea di quanto non sia il discorso causale, perche` il primo conferisce o consente all'indagine scientifica un ruolo selettivo e costruttivo che la nozione di causa viceversa rende piu` impervio, quanto meno perche` essa e` suscettibile di trascinarsi dietro evocazioni meccanicistiche che rinviano a visioni essenzialmente descrittive e registrative della scienza"(Ibid., p.74). Ma non tutti condividono lo scetticismo di Fisichella nei riguardi del concetto di causa. Lo stesso Bunge, citato da Fisichella, pur ritenendo un errore l'estensione universale e dogmatica del principio di causalita`, ritiene pero` che "ogni volta che lo si ammette in prima approssimazione come ipotesi di lavoro si trova qualche cosa, talvolta una acausalita` che soddisfa a una forma piu` ricca di determinazione" (Ibid., p.73). Come si vede percio`, sia pur in forma ipotetica, egli ne afferma la validita` euristica. E Galtung, sostenendone anche lui la validita` euristica, ritiene che, per la sua definizione, si debba utilizzare un criterio puramente pragmatico: "La relazione e` causale fintanto che puo` essere usata, fin tanto che cambiamenti in X portano, in realta`, ai cambiamenti desiderati in Y, all'interno di un margine tollerabile di errore " (Galtung, 1977c, p.129). Ed egli porta come esempio l'automobile. Una auto funziona se il gioco dello sterzo non e` troppo labile, e se curvando il manubrio le ruote cambiano direzione nel senso desiderato. Il gioco dello sterzo tra una macchina e l'altra puo` essere maggiore o minore, ma se esso diventa troppo grande ed il rapporto tra movimento del manubrio e quello delle ruote e` troppo labile l'auto, pur restando una macchina, non puo` piu` essere usata come tale. Lo stesso, secondo Galtung, si puo` dire del rapporto causale che puo` servire solamente fino a quando un cambiamento in una variabile porta ad un mutamento desiderato nell'altra (Ibid., pp.128-129). Convinti anche noi che l'ipotesi della causalita`, pur restando tale e pur essendo definita pragmaticamente e non in astratto, sia euristicamente valida, e piu` produttiva per il progresso scientifico di una sua messa in crisi definitiva, come alcuni autori sostengono, passeremo ora ad analizzare i metodi per lo studio dei rapporti tra variabili, denominato, di solito, come "analisi causale". 2) L'analisi causale Come abbiamo gia` detto l'analisi causale e` il metodo che, piu` degli altri che analizzeremo in seguito, usa procedimenti di tipo quantitativo. Cosi` il primo problema e` quello della 'misurabilita`' delle variabili allo studio. Seguendo Boudon nella sua esposizione di questo metodo la prima domanda da porsi e` quella dei livelli di misurazione delle variabili. Stevens ha chiarito come misurare equivalga ad assegnare dei numerali ad eventi e oggetti rispetto ad una regola. Questo permette percio` di utilizzare la misurazione anche nelle scienze sociali "che si servono di variabili a livelli di misurazione diversi" (Boudon, 1970, p.51). Il primo livello di misurazione e` la scala nominale, in cui la regola per la distinzione tra variabili e` "uguale/diverso" (es: maschi/femmine; cattolici/protestanti/ebrei/ecc.). Il secondo livello e` la scala ordinale, in cui la regola e` "Minore/uguale/maggiore" (senza pero` sapere, con esattezza, di quanto: gli esempi sono gli indici di autoritarismo, quello di alienazione, o di urbanizzazione, ecc.). Il terzo livello e` la scala di intervalli o di rapporti, in cui la regola e` "l'esatta distanza sulla base di una misura precisa e repricabile" (es.eta`, reddito mensile, altezza, ecc.). Nelle scienze sociali, in particolare in sociologia e psicologia, le variabili del terzo livello sono abbastanza rare, mentre quelle che hanno rappresentato l'elemento centrale e fondamentale per lo sviluppo della ricerca empirica in questi due campi (Madge, 1966) sono quelle di secondo livello, che presuppongono pero` un vero e proprio lavoro per la costruzione di una variabile. Lazersfeld schematizza in quattro fasi questo lavoro: I: La rappresentazione del concetto a livello di immagine E' una prima impressione generale sul significato del concetto stesso, e di quello che esso puo` implicare, che stimola la curiosita` del ricercatore e lo orienta in una direzione che porta, alla fine, ad un problema di misurazione. II: La specificazione del concetto La fase successiva e` quella dell'individuazione delle componenti, o aspetti, o dimensioni, di quella prima nozione, o attraverso una loro deduzione dal concetto generale, o facendole emergere, empiricamente, dalla struttura delle relazioni tra le varie componenti. Questo e` un momento, o fase, molto importante dato che, generalmente, un concetto corrisponde ad un insieme complesso di fenomeni, piuttosto che ad un fenomeno semplice e direttamente osservabile. III: La scelta degli indicatori La terza fase e` appunto quella della ricerca e della scelta di indicatori (e cioe` di dimensioni misurabili atte a pesare la singola dimensione) per le componenti che vengono mantenute e accettate come importanti. Dato che la relazione tra ogni indicatore ed il concetto fondamentale e` a carattere probabilistico e` importante ed indispensabile utilizzare il maggior numero possibile di indicatori. IV: La formazione degli indici In questa fase si fa la sintesi dei dati elementari ottenuti nelle fasi precedenti. (Lazersfeld, 1966, pp.41-52). Un esempio, fatto da Boudon, permettera` di capire meglio questo procedimento. Egli parte dalla famosa ricerca di Adorno, Horkeimer, ed altri, sulla personalita` autoritaria. Interviste abbastanza approfondite con persone che venivano generalmente considerate autoritarie o non autoritarie, hanno permesso di costruire una prima immagine che ha portato, dopo, all'individuazione di 9 dimensioni della personalita` autoritaria: 1) attaccamento alle convenzioni; 2) sottomissione ad un principio di autorita` superiore; 3) aggressivita` autoritaria (tendenza a rigettare le persone che non seguono le convenzioni); 4) anti-intraception (tendenza a condannare un eccessivo sviluppo della soggettivita`, dell'immaginazione); 5) tendenza alla superstizione ed agli stereotipi; 6) insistenza sulla contrapposizione autorita`/obbedienza; 7) spirito distruttivo; 8) pessimismo (tendenza a credere che il mondo sia minacciato da catastrofi); 9) moralismo in materia sessuale. Le domande erano sotto forma di affermazioni con cui l'intervistato doveva dichiarare il proprio grado di accordo o disaccordo. Ecco alcuni esempi di domande-affermazioni che sono servite per la costruzione di indicatori in una delle nove dimensioni su citate, quella della "sottomissione ad un principio di autorita` superiore": "E' da disprezzare chi non manifesta devozione, gratitudine e rispetto per i propri genitori"; "Tutti dovrebbero credere all'esistenza di una forza superiore sovrannaturale"; "L'obbedienza ed il rispetto sono le qualita` principali che occorre insegnare ai bambini ?". Sulla base del numero di risposte in accordo o in disaccordo con queste, ed altre frasi della stessa dimensione, si classificano gli interpellati in riferimento alla dimensione considerata. La sintesi dei punteggi ottenuti in ognuna delle suddette dimensioni porta infine alla costruzione dell'indice finale, di "autoritarismo" (Boudon, 1984 pp. 52-56 ). Ma Boudon sottolinea l'importanza della costruzione di indicatori svariati, in modo da evidenziare se tra la variabile allo studio (misurata sulla base di indici diversi), ed altre variabili, c'e` una struttura delle relazioni analoga, anche se le rispettive percentuali possono variare anche sensibilmente. Questo porta Boudon, sulla scia di Lazersfeld, a sostenere il principio dell' "intercambiabilita` degli indici", come metodo di riforzo della validita` dei risultati. Costruita la variabile (o, nel caso di variabili nominali, o ad intervalli, non costruite, individuate quelle rilevanti sulla base delle ipotesi di partenza) si deve poi procedere all'analisi delle relazioni tra di esse ed altre variabili che si ritengono rilevanti. E' questa l'operazione al centro dei metodi di ricerca, ma non solo di quelli quantitativi. Scrive Boudon : "L'analisi sociologica consiste nel precisare le strutture causali che spiegano le relazioni tra variabili" (Boudon, 1984, p.71). Perrone parla di questa operazione come quella di "stabilire la relazione tra queste variabili, relazione che nelle scienze sociali, e` per lo piu` di tipo causale" (Perrone, 1977, p.57). L'esistenza di un rapporto causale tra due variabili si puo` rappresentare cosi`: questo significa che: 1) Il mutamento in X e` associato al mutamento in Y; vi e` cioe` una correlazione, o covariazione, tra le due variabili. 2) Si puo` produrre mutamento in Y producendo mutamento in X, ma non viceversa: La freccia del grafico indica appunto la direzionalita`, o asimmetria (non-reciprocita`), dell'effetto causale. 3) non occorre che vi siano altri mutamenti in altre variabili per far si che X eserciti il suo effetto causale su Y. L'effetto causale e` cioe`, autonomo, o non spurio (Perrone, p.57). Secondo Stuart Mill il metodo piu` importante per l'individuazione di un rapporto tra variabili e` quello da lui definito della "variazione concomitante" (indicato spesso come "analisi della correlazione"). Secondo questo metodo, se un cambiamento quantitativo della variabile X e` accompagnato da un analogo cambiamento quantitativo di un'altra variabile (Y) in due o piu` casi, e il secondo cambiamento non ha luogo se non accade il primo, un cambiamento e` la causa (o l'effetto) dell'altro (Goode, Hatt, 1962, p.132). I tipi di relazione possono essere svariati, ma i piu` comuni sono quelli espressi in questi quattro diagrammi:
Correlazione perfetta positiva Correlazione perfetta negativa
Correlazione curvilinea Correlazione nulla o molto bassa Gli andamenti emergenti in questi diversi grafici possono essere calcolati matematicamente (di solito attraverso l'indice di Bravais-Pearson) per sapere con piu` precisione il grado di autonomia reciproca o di correlazione tra le due variabili allo studio. Ma l'individuazione di una correlazione tra due variabili, che pure e` un momento fondamentale del procedimento quantitativo, lascia aperti almeno due problemi: 1) la direzione della correlazione (nei grafici di sopra X e Y possono essere ambedue cause ed effetti, la direzione della freccia non e` nota); 2) la possibile influenza sulla correlazione di altre variabili, nascoste, che possono modificare, o parzialmente, o totalmente, la struttura causale emersa. Vediamo come, di solito, si cerca di rispondere ai due problemi su citati. 1) La direzione della relazione Secondo vari studiosi (Blalock, Perrone, Goglio) la difficolta` principale per cogliere la direzione e` nella natura stessa del linguaggio matematico. Per questo infatti non esiste differenza tra variabile dipendente ed indipendente. Esso e` caratterizzato cioe` da rapporti simmetrici tra variabili. Abbiamo visto come un rapporto causale e` invece caratterizzato dalla asimmetria. I due metodi utilizzati per superare questa anomalia sono : A) L'individuazione della sequenza temporale ed altri metodi basati sulla logica ; B) Tecniche statistiche particolari. A) L'individuazione della sequenza temporale ed altri metodi basati sulla logica. Anche se il principio che la "causa" deve venire prima dell'evento e` stato messo in dubbio (Kuhn), ed e` stato sottolineato come eventi futuri, come ad esempio l'aspettativa del messia, del salvatore della patria, dell'uomo nuovo, del regno della "liberta`", ecc., abbiano esercitato un forte influsso sui problemi socio-politici e che percio` "non possa escludersi l'azione del futuro (della immagine del futuro) sul presente" (Fisichella, p.61), nella maggior parte dei casi il principio temporale e` considerato valido tanto che il metodo principale per l'individuazione della direzione viene considerato, o l'osservazione della sequenza (si osserva quale delle due variabili preceda l'altra, e se la costanza e` confermata, si considera la variabile precedente come causa, e l'altra come effetto), o la sperimentazione, e cioe` l'introduzione sperimentale di una variabile (indipendente) che dovrebbe portare modifiche anche nell'altra (la variabile dipendente). Se l'esperimento porta ai risultati previsti, si considera la variabile indipendente come causa, e l'altra come effetto (Blalock, Bailey). Perrone, oltre alla sequenza temporale, di cui sottolinea la possibilita` di studiarla attraverso tecniche che introducano distanze temporali tra le variabili (ad esempio attraverso l'analisi delle coorti), o con il confronto tra modelli causali alternativi (che vedremo in seguito), indica, come procedure per l'individuazione della direzione anche la fissita`/variabilita` delle variabili stesse, considerando le variabili fisse, o "strutturali" (come egli le definisce) come il sesso, la razza, l'eta`, ecc., che non sono influenzabili da altre (come, invece, l'indice di alienazione) come variabili indipendenti. Infine, sostiene Perrone, si possono utilizzare dati empirici, come il fatto, ad esempio, che si possiedano gia` conoscenze sulle cause di una variabile, diverse ed indipendenti dall'altra (Perrone, 1977, pp.59-63). Un'altra strategia da lui indicata e` quella dell'interpretazione finalistica di una coppia di variabili covarianti in termini di mezzi-fini. Secondo Perrone, se il fine risiede "in testa" all'attore sociale e` ragionevole supporre che sia esso a determinare i mezzi, come del resto apparira` dai comportamenti pianificatori e selettivi empiricamente riscontrabili (e` il caso citato da Fisichella come contrasto dalla priorita` della causa rispetto all'effetto). Se invece il fine e` un espediente esplicativo da parte del ricercatore, e` convenzione che siano i mezzi a determinare il fine ed ad acquisire lo status di variabili indipendenti. Perrone utilizza la ricerca di Weber sulle origini del capitalismo per esemplificare questa strategia: "l'orientamento di ascesi laica ed etica del lavoro dei primi calvinisti era una risposta in certo senso 'strumentale' all'insopportabile incertezza generata dal problema della salvezza, ma e` stata anche causa indispensabile dello sviluppo del capitalismo, e in questo senso possiamo dire che i 'mezzi' hanno generato quel 'fine' analitico che era per Weber il capitalismo " (ibid, p.63). B) Tecniche particolari di calcolo statistico Sia Blalock che Goglio sottolineano l'importanza della regressione. Scrive Goglio: "Lo strumento statistico preferito per la causazione e` la regressione, e non indici nettamente simmetrici quali quelli di correlazione o di covarianza... e` ben vero che anche la regressione puo` essere simmetrica, in quanto funzione. Ma questo pericolo cade una volta che si sia chiaramente precisato quale sia la variabile dipendente e quale quella indipendente; o meglio, quale sia il regressando e quale il regressore: In tal caso verra` univocamente determinato uno dei due coefficienti di regressione" (Goglio, 1979, pp.64-65). E scrive Blalock : "Nelle equazioni matematiche, la distinzione tra variabile indipendente e variabile dipendente e` spesso arbitraria. Una perfetta funzione matematica presenta quindi una certa simmetria, che non corrisponde all'asimmetria causale. L'introduzione delle variabili residue [vedremo nel prossimo paragrafo i problemi ed i metodi connessi a questa operazione] ci costringe a generalizzare la nozione di una funzione matematica a quella di una equazione di regressione. Un'altra fonte di asimmetria viene quindi aggiunta, in quanto l'equazione di regressione dipende dalla scelta della variabile indipendente e di quella dipendente " (Blalock, 1967, p.264). Questa tecnica, per il cui approfondimento rimandiamo ai testi di Blalock e Perrone, o ad altri manuali di statistica, e` applicabile anche all'analisi multivariata, di cui parleremo nel prossimo paragrafo, soprattutto per quella che viene definita la "path-analysis" o "analisi dei percorsi", su cui dovremo tornare. 2.1) L'analisi multivariata Il secondo problema che avevamo individuato era quello di scoprire l'influenza, sulla correlazione, di altre possibili variabili, o, nelle parole di Perrone, di far emergere una eventuale "natura spuria di una relazione". Boudon sottolinea come il passo fondamentale per la precisazione di una "struttura causale soggiacente all'insieme delle variabili ipotizzate", e` l'introduzione di una variabile supplementare (variabile test, o di controllo) in una relazione originariamente esistente tra due variabili. Una ricerca di Lazersfeld gli permette di sottolineare i tre possibili risultati logici di una tale introduzione: 1) l'individuazione della variabile nascosta; 2) l'individuazione di una variabile complementare o concomitante; 3) la scoperta dell'effetto interattivo tra le due variabili. Ma vediamo meglio la ricerca citata, ed i risultati ottenuti, sui rapporti tra eta` dei soggetti intervistati e l'interesse verso tre tipi di trasmissioni radiofoniche. I risultati sono i seguenti: I valori della tabella sono le percentuali di ascoltatori dei diversi programmi all’interno dei due gruppi. Individuando nell'istruzione la variabile test, ed introducendo una distinzione tra i livelli di istruzione "superiore" ed "inferiore", per le trasmissioni di tipo religioso si ottiene: Come si vede, rendendo i gruppi omogenei per livello di istruzione, la relazione originale si attenua fino ad essere pressocche` annullata. La relazione emergente dalla I tabella e` cioe` legata al fatto che i giovani hanno, in media, un livello di istruzione piu` elevato. L'introduzione della variabile test ha fatto cioe` emergere la variabile nascosta (l'istruzione) che e` quella reale. Percio` la relazione non puo` essere interpretata come il riflesso di un minor attaccamento dei giovani ai fattori religiosi, perche` questo rimane lo stesso, qualunque sia l'eta`, a parita` di livello di istruzione. La struttura causale emergente dai dati e` la seguente: (-) (-) Età * Livello di istruzione * Interesse per le trasmissioni a carattere religioso FIG. 1 Struttura causale corrispondente alla tabella 8 A livello, invece, dei programmi politici, i risultati dell'introduzione della variabile test sono i seguenti: Come si vede la relazione tra eta` ed interesse per questo tipo di trasmissioni permane anche dopo l'introduzione della variabile "livello di istruzione". Le due variabili, eta` e grado di istruzione, hanno dunque un effetto sull'interesse per le trasmissioni politiche. Ci troviamo cosi` nel secondo caso, dell'individuzione di una variabile complementare, che, graficamente, puo` essere cosi` rappresentata: FIG. 2 struttura causale corrispondente alla tabella 3 Per le trasmissioni di musica classica i risultati dell'introduzione della terza variabile danno invece i risultati seguenti : In questo caso, invece, la relazione originaria tra eta` ed interesse per le trasmissioni di musica classica, che era praticamente inesistente, diventa positiva nel gruppo dei soggetti piu` istruiti, e negativa nel gruppo con istruzione inferiore. La non correlazione originaria era cioe` dovuta alla neutralizzazione reciproca delle correlazioni positive e negative, che sono potute emergere solo dopo l'introduzione della variabile test. In questo caso questa ha fatto venire alla luce quelli che vengono definiti come "effetti di interazione", e cioe` che l'influenza dell'eta` per l'interesse per la musica classica dipende dal grado di istruzione e che, corrispondentemente, l'effetto del livello di istruzione sull'interesse per la musica classica dipende dall'eta`. Dal punto di vista grafico la struttura causale puo` essere rappresentata cosi`: Dato l'interesse, e la novita`, di quest'ultimo caso, mi sembra il caso di citare un'altro esempio tratto da ricerche mie e, piu` tardi, da quelle di M. Barbagli. Anche tra livello di sviluppo economico e frequenza scolastica e proseguimento agli studi, nel nostro paese, c'e` un rapporto interattivo. Infatti fino all'istruzione media inferiore (dell'obbligo) il rapporto e` di tipo negativo, piu` basso lo sviluppo economico, piu` alta l'inadempienza e l'abbandono scolastico (connesso ad altissimi livelli di lavoro nero infantile). Dopo l'obbligo pero` la correlazione si inverte, e mentre nelle zone ad alto sviluppo economico il proseguimento agli studi e` relativamente raro (connesso ad un'alta offerta di lavoro anche a bassa qualificazione, o con qualificazione di tipo extrascolastico), nelle zone a basso sviluppo quelli che hanno raggiunto il titolo (una minoranza) tendono a proseguire negli studi a livelli molto piu` elevati che nelle altre zone, anche a causa della carenza di sbocchi lavorativi, ed alla necessita` di assicurarsi un posto attraverso dei titoli di studio piu` elevati. Ma l'analisi di questi tre possibili risultati di inserimento di una terza variabile sottolineano pero` l'opportunita` di estendere la logica dell'analisi multivariata a quattro, cinque, o piu` variabili. In questo caso i risultati , ed i metodi, sono piu` complessi, e non possiamo approfondirli qui. Vorrei solo sottolineare alcuni problemi, ed alcuni limiti, di tale lavoro, e dare due esempi significativi di analisi di questo tipo. Per quanto riguarda i problemi vorrei sottolineare, con Blalock, che "le leggi causali sono essenzialmente delle ipotesi di lavoro, o degli strumenti di cui si serve lo scienziato, piuttosto che enunciati verificabili intorno alla realta`.... Non possiamo mai dimostrare empiricamente le leggi causali. Questo vale anche quando si possono fare degli esperimenti. Le leggi causali... implicano enunciati ipotetici della forma se-allora. Fra i se delle asserzioni causali, e` compresa l'ipotesi che tutte le variabili rilevanti siano state controllate oppure che si possano tranquillamente trascurare. Questa ipotesi non puo` mai essere verificata empiricamente" (Blalock, pp.261-262). Lo scienziato procede percio` costruendo dei modelli che si richiamano alla metodologia weberiana di "tipo ideale". " Perche` non formulare le nostre leggi causali, e le altre teorie - si domanda Blalock - in termini di questi modelli ideali e di sistemi completamente isolati, rilevando poi quanto il mondo reale si scosti da questo modello ? In un certo senso, questa e` la strategia che patrocineremo nel caso dei modelli causali" (Blalock, p.100). Ma, sostiene questo studioso, "poiche` questi modelli non si riferiscono alla realta` stessa, e poiche` un certo numero di modelli alternativi puo` fornire le stesse previsioni, non possiamo mai dimostrare la validita` di un determinato modello. Ma possiamo procedere eliminando, o modificando i modelli inadeguati, che forniscono previsioni contrastanti con i dati" (Ibid., p. 262). Ed il libro di Blalock, cui si rimanda, e` pieno di indicazioni metodologiche, e di regole pratiche, per fare questo lavoro progressivo di modifica ed affinamento. Ma secondo lui non ci si puo` affidare ad alcun metodo singolo per ridurre od eliminare gli effetti delle influenze perturbatrici. Ma qualche volta queste possono essere tenute sotto controllo, con particolari tecniche, o gli effetti perturbanti possono essere calcolati. Ma la conclusione di Blalock e` quella dell'opportunita` di essere flessibili "In breve -scrive B. - suggeriremo, come tema dominante, la flessibilita`. Nella nostra fretta di diventare 'scientifici' abbiamo forse seguito in maniera eccessivamente rigida le poche regole di inferenza che sono state esposte rigorosamente.... Quando raccomandiamo una certa flessibilita`, vogliamo dire che, nelle circostanze attuali, sarebbe estremamente utile che gli scienziati sociali si abituassero a confrontare risultati di procedimenti differenti .... Cio` non vuol dire che non si debba tener conto delle regole attualmente in vigore, e che la speculazione astratta debba prendere il posto delle interpretazioni empiricamente orientate. Ma sarebbe prematuro pretendere quel rigore scientifico che non abbiamo ancora raggiunto" (Ibid., pp.276-277). In complesso percio` la metodologia proposta da Blalock, sulla linea di certe indicazioni di H. Simon, sviluppate in seguito attraverso l'individuazione di "circuiti causali" (path analysis) mira ad individuare modelli o circuiti causali in cui siano inserite almeno le principali variabili che influiscono sul fenomeno. Due esempi, tratti da importanti ricerche portate avanti nel nostro paese con questa metodologia, possono dare una idea dell'importanza di questa forma di analisi e delle sue potenzialita` euristiche.. Il primo esempio, e` tratto da un lavoro di M. Barbagli (1974), basato sulla stessa metodologia, riguarda il tasso di passaggio dalla scuola media inferiore a quella superiore nel 1961, di cui abbiamo gia` parlato in precedenza: FIG.7 Circuiti causali su base provinciale relativi al tasso di passaggio dalla scuola media inferiore a quella superiore nel 1961 Il grafico, a dimostrazione di quanto abbiamo detto parlando degli "effetti interattivi", mostra come il "livello di industrializzazione" influisca negativamente, sia in modo diretto (-0,41), sia attraverso altre variabili (consumo, reddito, livello di disoccupazione) sul "tasso di passaggio". Barbagli sottolinea, nel circuito, l'importanza strategica ("l'anello piu` importante della catena causale") delle "persone con la licenza media in attesa di prima occupazione", che sono correlate negativamente con il reddito pro-capite e con i consumi, e positivamente con il "tasso di passaggio " (Barbagli, 1974, p.358), a conferma dell'importanza delle difficolta` di occupazione per i giovani usciti dalla scuola media e dalla scuola di avviamento, sulla decisione di proseguire gli studi a livello superiore. Il secondo esempio riguarda invece l’individuazione delle “determinanti” della partecipazione ad iniziative per la pace, secondo la metodologia prima ricordata della “path analysis”. L’oggetto della ricerca sono stati gli studenti delle scuole medie superiorie della Provincia di Lecco, per uno studio promosso dalla sezione sindacale locale (CGIL) che aveva visto il questionario da noi utilizzato a Ferrara in un volume sull’educazione alla pace curato dal Prof. Farne` di Bologna, e ci aveva chiesto l’autorizzazione ad utilizzarlo per una ricerca simile nelle scuole secondarie della propria Provincia. Le elaborazione sono state poi portate avanti dalla mia collaboratrice statistica di allora, la Dott.sa Laura Grassini. Il questionario, i cui risultati dovevano servire a programmare delle valide iniziative per l’educazione alla pace nelle scuole, era focalizzato ad approfondire tre aspetti importanti per comprendere il rapporto tra i giovani studenti degli ultimi anni delle scuole medie superiori, e la pace, e cioe` il loro livello di informazione su questo problema, il loro atteggiamento nei riguardi della pace e della violenza, ed infine il loro comportamento, non solo all’interno della scuola, ma anche al suo esterno, con la partecipazione, o meno, a manifestazioni pubbliche su questo tema. L’elaborazione tendeva inoltre ad individuare i rapporti reciproci tra queste tre diverse dimensioni del problema della partecipazione alla pace. Ecco il grafico che illustra gli elementi principali emersi dalla ricerca: Gli elementi fondamentali per la comprensione dei risultati sembrano essere questi: 1) il collegamento diretto tra le ragazze e la nonviolenza [NVIO], con un maggiore tendenza delle femmine ad un atteggiamento nonviolento rispetto ai maschi, che invece, per acquisire questo atteggiamento, hanno bisogno di avere una maggiore informazione su questi temi [INFO], o essere in scuole che hanno trattato di questi temi (le scuole umanistiche vi hanno dedicato piu` attenzione delle altre [ASCU]), ed infine anche alla tendenza degli studenti a ricercare attivamente informazioni su questi temi [RICE] anche all’esterno della scuola (con la lettura personale di testi appositi, o l’ascolto di trasmissioni specifiche). Solo grazie ad un percorso di questo tipo i maschi arrivano ad una informazione che li porta ad avere un atteggiamento nonviolento.5 2) Una maggiore partecipazione alle iniziative sulla pace esterne alla scuola [PART] dei/lle giovani/ che hanno un atteggiamento nonviolento [NVIO], ed anche, direttamente, di quelli/ e che ricercano attivamente le informazioni su questi temi [RICE]. 3) La scarsa rilevanza diretta, invece, del livello di status sociale del padre degli allievi [LDIR-LDIP] su questi atteggiamenti e comportamenti dei loro figli, ma la rilevanza invece per la scelta del tipo di scuola da questi frequentata [TSCU], ed indirettamente percio` anche su questi problemi, dato che, come abbiamo gia` accennato, le scuole umanistiche avevano dedicato molto piu` spazio a queste attivita` delle altre. 4) L’importanza delle attivita` di educazione alla pace nelle scuole [ASCU] per stimolare la ricerca attiva degli allievi [RICE] che, come abbiamo gia` visto, portano sia, direttamente, ad una maggiore partecipazione ad iniziative per la pace esterne alla scuola [PART], sia ad una maggiore informazione oggetti va [INFO] che, a sua volta, e` collegata ad un maggiore atteggiamento nonviolento [NVIO] che poi, come gia` accennato, porta ad una maggiore partecipazione. Come scrivevo nel libro in cui viene riportata questa ricerca “Questa e` una conferma dell’importanza di attivita` di educazione alla pace nelle scuole, e della possibilita` di rompere, attraverso degli strumenti pedagogici, la mancanza di informazione su questi argomenti che i nostri dati hanno fatto emergere, come pure, essendo di solito fatte in gruppo, hanno la capacita` di rompere la mancanza di comunicazione tra i giovani che abbiamo riscontrata .Questo “isolamento”…e` una delle cause piu` importanti del distacco [riscontrato in altre ricerche] tra pacifismo dichiarato ed azione” (L’Abate, 2001, p. 78). E concludevo: “L’attivita` scolastica per la pace non porta direttamente ad un accrescimento della partecipazione, ma agisce indirettamente, attraverso una catena di ricerca attivaà più informazione à più nonviolenza à più partecipazione. Questo mi sembra un segno molto positivo, mostra infatti che la scuola, piu` che plagiare gli studenti, li aiuta ad essere piu` critici, e piu` coerenti tra il loro agire e il loro modo di pensare” (ibid. pp. 78-79). Questa, per quanto mi risulta, e` una delle poche ricerche al mondo che hanno cercato di valutare le attivita` di educazione alla pace nelle scuole riuscendo a dimostrarne la validita`. E’ questa la ragione del percheÅL e` stata scelta tra le tante presentate ad un convegno internazionale, e pubblicata addirittura in Ungheria in un volume apposito sulla ricerca per la pace negli anni 90 (Balazs, Wiberg, 1993) Ma prima di concludere questo paragrafo vorrei sottolineare come questa metodologia, pur interessante e proficua, sia considerata da alcuni statistici come eccessivamente soggettiva per le implicazioni sottolineate anche da Blalock nella costruzione e nell'individuazione dei modelli, e che spesso viene preferita l'analisi fattoriale, che lascia al modello il compito di mettere insieme nei vari fattori i singoli elementi che possono incidere sul fenomeno allo studio. Per le nostre ricerche in campo psichiatrico abbiamo utilizzato sia l'analisi causale sotto forma di tradizionale associazione tra fattori sociali e ricoveri psichiatrici, attraverso la costruzione di indicatori complessi (di urbanizzazione, di sviluppo economico, di depressione economica, di rapidita` di mutamento, ecc.), sia l'analisi fattoriale con lo studio di indicatori semplici (disoccupazione, analfabetismo, numero di bagni per abitazione, ecc.) senza un loro raggruppamento per categorie complesse. Quest'ultima metodologia e` piu` 'oggettiva' perche` i raggruppamenti e l'individuzione dei fattori viene fatta senza l'intrusione di una soggettivita` interpretativa usata nella costruzione di indicatori complessi. Ma l'analisi fattoriale e` anche piu` 'cieca' perche` lavora, di solito con indicatori semplici (p.e.numero di bagni per abitazione, analfabetismo, tasso di ricovero psichiatrico, ecc.) difficilmente interpretabili in quanto tali. Questa esperienza ci porta a preferire, percio`, modelli misti che uniscano alcuni aspetti dei due metodi. In particolare sembrerebbe opportuna una loro integrazione con la costruzione, in una prima fase, anche con l'aiuto dell'analisi fattoriale, di indicatori complessi, e, in una seconda fase, della individuazione tra di loro di rapporti di causalita`, tramite, ad esempio, la "path analysis" di cui abbiamo parlato prima (Wienand, L'Abate, Tesi, 1988, p.29). 2) Dalla causalita` circolare all'analisi processuale Uno dei problemi che complicano notevolmente, e rendono piu` complessa l'analisi causale, e` la presenza, e la sempre maggior importanza, della causalita` circolare, o interattiva, e cioe` di un tipo di causalita` simmetrica, e non asimmetrica come quella di cui abbiamo parlato in precedenza. Halbwachs, ad esempio, distingue due tipi di causalita`, lineare e circolare "La causalita` circolare implica una connessione di reciprocita` che, senza smentire la connessione lineare, costituisce tuttavia una struttura piu` ricca e complessa della mera linearita`, introducendo un principio di reversibilita` che rappresenta un progresso decisivo nella comprensione dei processi fisici" (in Fisichella, p.72). Ed egli lo considera caratteristico della causalita` fisica. "Esiste un contraccolpo dell'effetto sulla causa necessariamente legato alla relazione della causa con l'effetto, e tale contraccolpo non e` secondario, qualitativamente e quantitativamente, ma comporta una autentica reciprocita`" (Ibid., p.71). E Liss (1987) e Morin (1984) ritengono che una societa` complessa non possa essere studiata senza far ricorso a questo tipo di causalita`. Questa, dal punto di vista grafico, puo` essere rappresentata cosi`: La freccia di ritorno e` chiamata anche "Feed-back loop". Ma il feed-back non e` necessariamente diretto, ma puo` essere indiretto, con l'intervento di altre variabili. Ad esempio, cosi`: Ma le variabili intervenienti possono essere anche molte di piu`, e rappresentare un vero e proprio circuito e circolo. Uno degli esempi piu` noti, nel campo delle scienze sociali, di causalita` di questo tipo, e` quello individuato da Myrdal in un suo famoso studio sulle condizioni dei negri negli Stati Uniti d'America. Egli parla di questo processo come rispondente al "principio di cumulazione" che porta al fenomeno noto come "circolo vizioso". Secondo questo principio la situazione dei negri e` interpretabile sulla base di una pluralita` di fattori: pregiudizio dei bianchi, discriminazione, occupazione, salari, alloggi, vitto, vestire, salute, educazione, stabilita` nei rapporti familiari, modo di comportarsi, in particolare nei riguardi della legge, lealta` verso la societa`, ecc., tutti legati tra di loro da un processo di causalita` reciproca. Secondo Myrdal un cambiamento in uno di questi fattori - nei due sensi, in piu` o in meno - tendera` a provocare un cambiamento di tipo cumulativo anche negli altri, esso cioe` sara` rinforzato continuamente dalla reazione dell'altro (Myrdal, 1944, pp.75-78, 1065-1070). E Bastide ha utilizzato lo stesso principio nell'interpretazione sociologica delle malattie mentali (Bastide, 1977, p.218). Goglio scrive, a proposito della causalita` circolare: "L'importanza dei feed-back loops, specialmente nei sistemi sociali, non ha bisogno di molti commenti. E' raro, spiegando il processo causale di un determinato fenomeno sociale, non incappare in uno di questi, quando poi non si incappi in una intera ragnatela di feed-backs" (Goglio, 1979, p. 68). Egli individua tre diverse situazioni "facilmente riscontrabili in un sistema sociale e caratterizzate dalla presenza di feedbacks" (Ibid.): 1) Situazione di controllo. Un cambiamento in A causa un cambiamento di ugual segno in B; un cambiamento in B causa un cambiamento di segno opposto in A. Questo e` un esempio di feed-back negativo, che e` al centro di ogni meccanismo di controllo sociale. 2) Situazione di amplificazione. Un cambiamento in A causa un cambiamento in B di ugual segno; un cambiamento in B causa un cambiamento in A di ugual segno. E' questo un feed-back positivo che corrisponde ad un sistema di amplificazione trasformando piccoli cambiamenti in cambiamenti sempre maggiori (la causalita` cumulativa di Myrdal rientra in questa categoria). 3) Situazione di esplosione. Avviene quando il feed-back positivo sfugge di mano, e` privo di controlli. Il processo di continue amplificazioni, in un loop esplosivo, continua finche` il sistema sopravvive. Ma anche il feed-back negativo puo` esplodere: in tal caso la direzione dei cambiamenti oscilla, ma il cambiamento diventa sempre piu` grande in dimensione assoluta finche` il sistema sopravvive (ibid., p. 68). Ma queste tre situazioni sottolineano, come fondamentale, la variabile tempo, e mettono al centro dell'analisi non tanto le cause ma i processi. Conviene percio` dare uno sguardo ad un saggio metodologico di J. Galtung (1977c), che ha al suo centro la variabile tempo ed il passaggio dall'analisi causale a quella processuale. Galtung parte dalla constatazione che le scienze sociali, quando hanno trattato fenomeni micro, hanno di solito raccolto dati sincronici, con una crescita quasi esplosiva di metodi di raccolta dei dati. Egli ne trae la conclusione che il desiderio di essere nomotetici, di cercare cioe` delle leggi di spiegazione del comportamento umano, ha portato i ricercatori di questo campo a restringersi a dati di tipo sincronico. Dall'altra parte, invece, per quanto riguarda gli storici, lo studio delle societa` intere (macro), ed il desiderio di essere diacronici, li ha quasi costretti in una posizione idiografica, allo studio, cioe` di un caso o situazione particolare. Questo ha portato, sostiene Galtung, ad una scarsa comunicabilita` tra queste due branche delle scienze sociali, e ad una ancora piu` pericolosa polarizzazione tra i due assi micro e macro. Il rimedio per questo, secondo Galtung, e` quello di sviluppare una scienza sociale che sappia essere, nello stesso tempo, e nomotetica e diacronica. Per questo il centro del suo saggio e` sulla correlazione diacronica. Lo schema seguente e` utile a capire il suo ragionamento: (ibid.p.101). Il disegno di ricerca 0 si basa su una matrice di dati sincronici in cui vengono prese in considerazione molte unita` e molte variabili. In certe forme piu` sofisticate si riconosce il valore del tempo (per esempio la distanza di tempo tra la prima e la seconda indagine) ma la preoccupazione maggiore e` nel tenerlo sotto controllo, nel ridurne l'influenza. Il disegno di ricerca 1 si basa invece su una matrice di dati diacronici, raccolti su un'unica variabile in molte unita` diverse. Questo tipo di ricerca e` molto valida, sostiene Galtung, per la ricerca nomotetica se il numero di punti temporali e` sufficientemente vasta. Se questi sono infatti solo 2 le possibilita` di analisi sono scarse, a meno che i due punti temporali siano collocati prima e dopo un evento cruciale. Il disegno 2 si basa invece su una matrice di dati su piu` variabili ma un'unica unita`. E' il miglior disegno per la ricerca idiografica, dato che l'idea che e` alla sua base e` quello che la singola unita` e` studiata attraverso piu` variabili nel tempo, e` quello che uno storico, a livello di societa`, od un biografo, a livello di un individuo, farebbe comunque, anche se, forse, in modo non troppo sistematico, senza cioe` preoccuparsi di riempire del tutto la matrice dei dati. Il disegno 3 e`, secondo Galtung, quello ideale, perche` lavora sia sincronicamente sia diacronicamente su piu` variabili e su piu` unita`. Ma e` il piu` difficile da organizzare perche` i dati non esistono gia` pronti, e la loro acquisizione richiede notevoli spese di tempo, denaro, energia. Per questo di solito si ricorre, per la ricerca diacronica, ai disegni 1 e 2. Ma Galtung ritiene importante portare avanti il disegno 3, semplificandolo, ma senza ridurlo agli altri due. Per questo egli pensa sia possibile procedere cosi`: 1) prendendo poche piuttosto che una o molte unita`. Se si vuole studiare due variabili, o anche una sola dimensione, ma scelta bene e molto importante, si dovrebbero avere almeno quattro o cinque unita` ben distribuite su quella dimensione, per permettere una verifica sistematica delle ipotesi. 2) prendendo poche piuttosto che una o molte variabili.Galtung propone di selezionare almeno una variabile, ben scelta, tra quelle indipendenti, ed una tra quelle dipendenti, per poter studiare l'interazione tra di loro nel tempo. 3) prendendo pochi piuttosto che uno o molti punti temporali. E' molto importante studiare le traiettorie normali, e per questo scopo sono necessari almeno 4 o 5 punti-tempo, ma se possibile anche piu`. Ma prima di concludere con Galtung,e con le sue indicazioni piu` puntuali per portare avanti un tipo di ricerca di questo genere, vorrei fare una digressione sull'analisi comparata. Vari studiosi ritengono che sia questo, sulla scia dell'insegnamento di Weber (ma anche di altri classici, come Tocqueville e Durkheim), il metodo piu` tipico e piu` valido nel settore delle scienze sociali. Smelser, ad esempio, ha dedicato a questo tipo di analisi, un libro piuttosto importante, in cui cerca di fare il punto, partendo dai classici su citati, su tale metodologia. Anche egli, come Galtung, nelle sue osservazioni conclusive, parte dalla distinzione e contrapposizione tra ricercatori ad impostazione idiografica e nomotetica. I primi utilizzano un approccio di tipo "configurazionale", partendo da un singolo caso e cercando di arrivare ad una "comprensione" del modello dell'unita`, ad una visione d'insieme delle relazioni esistenti tra le sue parti costitutive (senza uno specifico riferimento a "modelli causali" a priori, ma operando sul piano 'valutativo', 'estetico'). Essi inoltre cercano soprattutto di spiegare il singolo evento, tentando di rendersi conto del perche` un evento si sia, o non si sia, verificato. Essi infine incorporano , nel loro lavoro, diversi ordini di variabili causali: molti fattori sono messi in gioco al fine di aumentare la credibilita` della spiegazione di un dato evento, portando anche in campo fattori 'accidentali'. Gli studiosi con impostazione nomotetica, invece, usano un approccio di tipo 'aggregato' (nei termini di Kaplan 'sommatorio'), e, nello studio di casi aggregati, i ricercatori sono specificamente orientati, fin dall'inizio, verso le variabili in relazione causale tra di loro. Piuttosto che cercare di spiegare un singolo evento essi cercano di spiegare come quel tipo di eventi si distribuisca in unita` diverse, ed il loro interesse e` specificamente rivolto alle relazioni statistiche e probabilistiche tra causa ed effetto. Essi infine, per spiegare un fenomeno, mirano ad escludere cause estranee al fine di determinare l'esatta forza della relazione causale ipotizzata tra due o piu` fenomeni. Ma Smelser (1982), pur sottolineando le differenze di metodo, non ritiene che i due approcci abbiano basi teoriche diverse. Scrive Smelser : "L'analista idiografico si basa soprattutto sull'osservazione di un'ampia gamma di eventi e di relazioni al fine di individuare un modello complesso e le sue implicazioni. Il ricercatore con indirizzo nomotetico ha la tendenza ad usare indici quantificabili - mediante indagini, censimenti, campionamenti, ecc. - delle variabili scelte per lo studio. Alla fine pero` i due approcci - nella misura in cui entrambi tentano di dare spiegazioni - non divergono necessariamente ed in maniera sostanziale per quanto riguarda la natura delle forze causali a cui si fa riferimento....l'approccio idiografico e quello nomotetico non implicano basi teoriche diverse. Le loro differenziazioni si basano soprattutto sul metodo di spiegazione, sul metodo di organizzazione delle variabili e sulle tecniche di ricerca impiegate " (ibid., p. 271). In sostanza egli ritiene che, pur con metodologie e focalizzazioni diverse, ambedue abbiano il loro centro nella ricerca di relazioni causali. L'analisi comparativa non e` percio` un'altra metodologia, ma viene a far parte, a pieno titolo, dell'analisi causale. E Smelser dedica le pagine successive alle tecniche per aumentare la validita` della deduzione causale (campionamenti, comparazione controllata, e uso di casi vicini, l'analisi multivariata, l'introduzione del tempo, gli errori di livello nella determinazione delle associazioni e delle cause), ed infine conclude sostenendo l'importanza, per la comprensione piu` valida delle associazioni emerse dall'analisi comparativa, dello studio del contesto teorico nel cui ambito si muove il ricercatore. Rimando al testo di Smelser per una analisi piu` puntuale di quelle tecniche. Vorrei solo fare un'ultima citazione, che sottolinea ulteriormente il legame tra "metodo comparativo" e "analisi causale". " I vari metodi utilizzati per determinare le associazioni tra le variabili - scrive Smelser - e per attribuire loro un significato causale implicano il tentativo di controllare le potenziali fonti di variazione delle cause, escludendole o mantenendole costanti e rafforzando cosi` le ipotesi favorevoli ad altri fattori causali" (Smelser, p. 316). Ma tornando a Galtung, egli, per giungere a quello che ha definito il modello ideale, che lavora contemporaneamente e in senso diacronico tra piu` unita` e piu` variabili, ritiene importante sviluppare due diversi tipi di analisi diacronica, la prima univariata e la seconda bivariata, visti come passi graduali per arrivare al modello prescelto. L'analisi diacronica bivariata permette di confrontare tra di loro le principali forme di traiettorie (diritta, concava all'insu`, concava all'ingiu`, mista), e sottolinea l'importanza, per la comprensione dei diversi andamenti, di tener conto di alcuni parametri: la costanza, la regolarita`, la monotonicita` . La costanza e` misurata dall'area fra la linea retta di riferimento e la traiettoria empirica, o stimata nel caso di piu` unita`. Piu` piccola la misura, piu` elevata la costanza. La regolarita` e` misurata come correlazione diacronica tra X e Y intorno ad una traiettoria teorica, basata su piu` unita` di osservazione. La misura dovra` essere basata su indici di correlazione se le variabili sono su scale ad intervalli. La monotonicita` e` data dal numero di volte che la derivata prima della traiettoria calcolata tra le unita`, cambia disegno. Piu` elevato questo numero, minore la monotonicita`. Galtung introduce poi il concetto di invarianza, che richiama la precedente discussione sui rapporti tra causa ed effetto (e cioe`, con l'esempio dell'automobile, del progressivo passaggio, man mano che aumenta il gioco dello sterzo, tra causa e non causa). L'invarianza e` calcolata contando il numero delle terze variabili in rapporto alle quali la relazione si e` dimostrata essere invariante. Piu` elevato questo numero, piu` invariante e` la relazione. Ma, secondo Galtung, questa misura acquista piu` senso come confronto basato su un insieme teorico tra non correlazioni in un rapporto e quelle di un altro. Andando direttamente alle sue conclusioni egli mostra come fosse chiaramente limitato il concetto di relazione causale basato su una massima costanza, regolarita`, monotonicita`, ed invarianza. Egli ritiene che si possa capire come sia stato possibile sviluppare questo concetto (di relazione causale) sulla base di una correlazione sincronica: semplicemente assumendo la costanza e la monotonicita` nel tempo, e mancando di notare questi aspetti della relazione. Il fuoco e` stato sulla regolarita`, e l'enfasi sulle condizioni di invarianza, con condizioni completamente irrealistiche, e percio` piuttosto poco interessanti per un rapporto che si definisce causale. Ma se si introduce l'analisi diacronica e si allentano queste condizioni si possono sviluppare delle concezioni molto piu` interessanti di come si possano studiare gli affari sociali. Si puo` anche costruire una tipologia di tipi diversi di relazioni a seconda del livello (alto o basso) dei quattro parametri su citati.In questo quadro ci sarebbero da una parte i 'rapporti causali universali', quando la relazione diacronica e` caratterizzata da valori molto alti di costanza, regolarita` e monotonicita`. Si dovrebbero poi distinguere relazioni universali e particolari sulla base della loro dipendenza da condizioni molto larghe o molto strette. La stessa distinzione sarebbe usata per i processi, che sono, in generale, relazioni diacroniche caratterizzate da bassi valori di costanza, regolarita` e monotonicita`. Ma se tutti questi valori sono molto bassi, non c'e` alcuna relazione. Questo porta Galtung a concludere che "cosi` definite, le relazioni causali diventano casi speciali dei processi, e questo ultimo diventa il concetto piu` generale, e molto piu` utile, da utilizzare nelle scienze sociali" (Galtung, 1977c, p.130). E questo tende ad aprire il discorso, che faremo in un capitolo successivo, dell’importanza e dei metodi dell’analisi processuale. |
Capitolo 2 L'ANALISI STRUTTURALE 1. Le premesse dell'analisi strutturale Il concetto di "struttura" e` stato, ed e` tuttora, al centro di un acceso dibattito sociologico e metodologico. Due sono le accezioni prevalentemente usate di questo concetto. Nel primo la "struttura" e` vista come sostanza, come base reale, come fondamento della societa` stessa, (Radcliffe-Brown). Nell'altra, invece, la struttura e` vista come "modello" astratto (qualcosa di simile al "tipo ideale" della metodologia weberiana) che puo` servire a cogliere gli aspetti fondamentali della realta` sociale, senza pero` confondersi con essa (Levi-Strauss, 1970). Al di la` del dibattito, come avremo occasione di vedere, i due concetti sono ambedue utili e necessari, il primo per cogliere la realta` dei fenomeni a livello di micro-societa`, di tipo semplice, che possono essere colti anche nella loro realta` e nello studio della loro struttura di base; il secondo, invece, per l'analisi delle societa` complesse, a livello macro, il cui studio complessivo non puo` essere fatto se non con l'aiuto di un "modello strutturale" che ne colga gli aspetti essenziali. Avremo infatti occasione, analizzando i metodi di analisi strutturale a livello micro e macro, di vedere come nel primo campo non si cerchi, di solito, di individuare modelli a priori, come invece si fa spesso nel secondo campo per cercare di cogliere, in quest'ultimo, quegli aspetti che si considerano indispensabili allo studio della realta`. Ma prima di passare ad una analisi, sia pur sintetica, dei principali contributi sociologici allo studio della struttura sociale, vorrei aggiungere altre due considerazioni. La prima sull'importanza dell'analisi strutturale, non vista pero` come sostitutiva di quelle causali e funzionali, ne` di quella processuale, ma come integrativa di questi altri metodi. Gia` in precedenza abbiamo gia` visto come, per comprendere un fenomeno, sia importante cogliere, non solo quelli che Boudon ha chiamato gli "effetti personali" che sono alla base del fenomeno stesso, e che possono essere colti nel modo piu` valido attraverso approcci di tipo qualitativo che saranno alla base dell'analisi processuale, che analizzeremo in seguito; ma anche quelli che Boudon ha definito "effetti emergenti", e che Stzompka definisce invece come "effetti strutturali", che non possono essere colti se non studiando la struttura stessa all'interno della quale un fenomeno avviene. Come farlo e` appunto l'oggetto di questo capitolo. Ma sull'importanza di questi effetti vorrei dire qualcosa di piu` sulla base del lavoro di Merton riportato nel capitolo sulla teoria quale esempio di teorizzazione a medio raggio. Egli, cercando di interpretare la devianza (Merton, 1959) cerca di annullare l'equazione molto diffusa "deviazione=anormalita`", e cerca di spiegare la devianza attraverso lo studio della struttura sociale stessa. "Le strutture sociali determinano le circostanze in cui la violazione dei codici sociali costituisce una risposta 'normale' (cioe` prevedibile)" (Ibid., p.186). Come si e` gia` detto egli fa infatti derivare i possibili comportamenti degli individui (conformismo, innovazione, ritualismo, rinuncia, ribellione) da un'adattamento al conflitto esistente a livello strutturale tra mete culturali socializzate a tutti (nel caso in questione il successo e la possibilita` per tutti di raggiungerlo), ed i mezzi istituzionalizzati che, nella realta`, permettono di raggiungerlo solo a pochi privilegiati provenienti, soprattutto, dalle classi sociali piu` elevate (Ibid., p. 250 e segg.). Ma il contributo di Merton non e` il solo, e si colloca sulla scia di contributi in questo senso sia di Durkheim, sia di Marx, e di altri, che lo hanno anticipato in una interpretazione strutturale della realta`. Una seconda considerazione sento il bisogno di farla per distinguere piu` chiaramente il concetto di "struttura" da quello di "sistema". La definizione che ne da` Levi-Strauss. ad esempio: "In primo luogo una struttura presenta il carattere di sistema. Essa consiste in elementi tali che una qualsiasi modificazione di uno di essi comporti una modificazione in tutti gli altri" (Levi-Strauss, 1970, pp.311-312), non si differenzia quasi per niente da quella che e` la definizione normale di sistema quale "organizzazione di parti interdipendenti e interrelate che formano un'unita`" (Theodorson, 1975, p. 404). E dato che sempre piu` si usa un approccio sistemico per lo studio dei fenomeni e della societa` complessa, con modalita` che vedremo nel capitolo sull'analisi processuale, c'e` il rischio di considerare questi due approcci come equivalenti, sostitutivi l'uno dell'altro, il che non e` vero. Una delle differenze, secondo me principali, tra questi due concetti e` quella che nel concetto di sistema c'e` implicito un concetto di pluricausalita` che puo` essere positiva se apre le porte a quella che abbiamo definito analisi processuale, e che vedremo nell'ultimo capitolo di queste dispense; ma che puo` anche portare ad una posizione che potremmo definire di qualunquismo metodologico. Infatti uno studioso inglese di problemi della devianza, lo Wilkins, gia` citato, sottolinea come la multicausalita`, mettendo l'accento per qualsiasi fenomeno sulla pluralita` delle cause che lo possono provocare, tende a scoraggiare il momento operativo ed a lasciare le cose, sia pur indirettamente, cosi` come stanno. Wilkins, infatti, dopo aver analizzato la teoria plurifattoriale della criminalita`, sostiene la necessita` di superare il distacco tra teoria e prassi, distacco che secondo lui e` aumentato anche a causa di questa teoria. Ma questo superamento richiede, sempre secondo questo studioso, una critica alla concezione plurifattoriale della criminalita` : " I sostenitori di questa teoria - scrive infatti lo Wilkins - argomentano che la ricerca non ha trovato alcun fattore singolo come causa del crimine, ma piuttosto che molti differenti fattori appaiono contemporaneamente correlati con la maggiore o minore frequenza di attivita` criminale, questo sarebbe la conferma della pluricausalita`. Ma la teoria non facilita la deduzione di alcuna ipotesi o di alcuna conseguenza pratica che sia in qualche modo di aiuto..... le implicazioni di questa non dimostrata e non dimostrabile "teoria" come base dell'azione sociale e` ovvia. Il meglio che ne possiamo cavar fuori e` una strategia casuale - prova qualsiasi cosa, puo` darsi che serva "(Wilkins, 1967, p.37). L'analisi strutturale, invece, senza cadere nei rischi opposti dell'unicausalita`, tende a sottolineare l'importanza strategica di alcune variabili, e le reciproche interrelazioni. Questo puo` servire a comprendere in modo molto piu` valido su quali punti far leva ai fini sia di un mantenimento, sia di una modifica del sistema. Ma dato che questo e` il punto centrale del nostro discorso mi sembra opportuno chiarirlo attraverso un esempio che ci riporta, come suggerisce Bastide, all'originario significato architettonico del termine "struttura", di stretta derivazione dal latino "struere", costruire (Bastide, p. 6). Se io guardo ad una costruzione edilizia come ad un sistema io tendero` a tener conto di tutti gli aspetti, sia estetici, sia funzionali, ed altri. Dovro` percio` guardare sia ai colori, alle forme, all'ampiezza delle finestre, e cosi` via. In questa moltitudine di aspetti e` molto probabile che io rischi di sottovalutare la struttura edilizia che non influisce tanto sulla comodita` o sull'estetica della costruzione, quanto sulla sua stabilita`. Ma se fossi invece interessato sia a consolidare, sia ad eliminare completamente la stabilita` di tale edificio, io dovrei concentrare l'attenzione sulla sua struttura. Mi accorgerei percio` che molte cose, finestre, muri, porte, ecc. possono essere comodamente eliminate o sostituite senza con questo minacciare in alcun modo la stabilita` dell'edificio. Restera` percio` uno scheletro composto di muri e di pilastri che pero`, da una attenta analisi, mostrera` anche qui delle sensibili differenze. Infatti certi pilastri e certi muri, pur essendo fondamentali per la stabilita` dell'edificio stesso possono, con certi accorgimenti architettonici, essere eliminati o sostituiti, altri invece non possono esserlo affatto. E' questa qui la struttura portante dell'edificio, quella su cui dovro` agire sia ai fini di stabilizzarlo in caso di pericolo di crollo, sia ai fini di abbatterlo nel modo piu` rapido possibile, nel caso io cerchi di fare questo. Il primo di questi due approcci puo` essere definito sistemico. Esso tende a sottolineare gli aspetti funzionali dell'edificio in questione, la sua maggiore o minore comodita`, la sua rispondenza ai miei criteri di estetica, e cosi` via. E tendera` a porre l'accento su quei lavori, marginali, che possono aumentare tale funzionalita`, senza modificare le caratteristiche strutturali dell'edificio. Il secondo di questi approcci puo` invece essere definito strutturale. Esso concentra la sua attenzione sulla struttura di base dell'edificio, su quegli aspetti cioe` maggiormente collegati alla stabilita` o meno dell'edificio in questione (L'Abate, 1974, pp 46-47). L'analisi strutturale, secondo me, senza dimenticare l'esistenza di un livello piu` generale, quello sistemico, concentra pero` la sua attenzione su quella struttura interna cercando di coglierla nei suoi aspetti fondamentali e nelle interrelazioni reciproche tra di essi. Per questo utilizzera` dei modelli che gli permettano di cogliere questi aspetti, senza pretendere pero` che questi siano omnicomprensivi e definitivi. E' perfettamente congruente con questo approccio un processo di approssimazione successiva che permetta di rendere piu` congruente al tutto l'analisi strutturale, senza pero` perdere di vista il fatto che e` sempre necessariamente parziale rispetto al sistema globale. Un tale approccio, comunque, implica una particolare concezione del sistema. Esso postula, infatti, un sistema non talmente intercorrelato tra tutte le sue parti che qualsiasi modifica in una di esse comporti necessariamente una modifica di tutte le altre della stessa entita`; ma un sistema invece le cui parti, pur reciprocamente interrelate, hanno una certa maggiore o minore autonomia rispetto al tutto (Gouldner, 1967). Da cio` deriva che esse hanno percio`, necessariamente, un maggiore o minore legame con il sistema in questione, e percio`, una diversa importanza strategica ai fini del mutamento dello stesso. (L'Abate, 1974, p.47). 2. L'analisi contestuale La forma piu` semplice, ma anche la piu` grezza, di analisi strutturale, e` quella contestuale. Essa si limita a studiare le caratteristiche del contesto in cui il fenomeno avviene, e cerca di determinare l'influenza che esse hanno sullo svolgimento del fenomeno stesso. E' Boudon che sottolinea l'importanza, nelle inchieste, di prendere in analisi il contesto in cui esse si svolgono. Egli, per illustrare questi tipo di ricerca, fa un confronto tra quello che lui definisce il sondaggio "atomistico" e quello "contestuale". Il primo permette solo l'inclusione di variabili individuali, che caratterizzano l'individuo in quanto tale, ma che forniscono informazioni alquanto limitate sul contesto, o ambiente sociale, del quale egli fa parte. I sondaggi di tipo contestuale, invece, permettono l'inserimento di variabili che caratterizzano non solo i soggetti, ma anche il contesto al quale appartengono. Un esempio riportato da Boudon permette di chiarire meglio questa metodologia. Lipset ed i suoi collaboratori, studiando le elezioni interne di un sindacato americano dei tipografi, predisposero un piano di rilevazione a tre livelli di campionamento. Per prima cosa scelsero un campione di sezioni "locali" del sindacato, poi, al loro interno, un campione di sezioni di fabbrica. Infine, all'interno di queste ultime, intervistarono tutti i soggetti delle sezioni prescelte. Volendo, avrebbero potuto fare ricorso ad un campionamento diretto, e cioe` prendere un elenco di iscritti al sindacato e procedere ad una scelta di tipo casuale al loro interno. Ma questo avrebbe appunto trasformato la ricerca in un sondaggio "atomistico", ed avrebbe fatto perdere tutte le informazioni di tipo contestuale che la ricerca cosi` condotta ha permesso di mettere in luce. Una delle variabili incluse nel campionamento dai ricercatori citati e` stato il "grado di consenso all'interno delle sezioni". Questo ha fatto emergere i risultati qui acclusi: Da questa tabella risulta che il grado di impegno degli individui verso i problemi sindacali e` strettamente correlato al grado di consenso della sezione a cui gli individui appartengono. I membri delle sezioni consensuali partecipano di piu` di quelli invece delle sezioni conflittuali. Un sondaggio di tipo atomistico avrebbe forse permesso di individuare delle variabili individuali che avrebbero spiegato le ragioni dell'impegno sindacale (eta` dei piu` attivi, tempo di appartenenza al sindacato, sesso, ecc.) - che del resto emergono anche da una analisi contestuale - ma avrebbe fatto perdere uno dei suoi fattori determinanti, e cioe` il clima politico del contesto. Dall'esempio Boudon ne trae le conclusioni che "i sondaggi di tipo contestuale sono chiamati a svolgere un ruolo fondamentale nella ricerca sociologica perche` permettono - contrariamente a quelli atomistici che staccano gli individui dal loro contesto - di analizzare il comportamento individuale collocandolo in una 'struttura sociale'" (Boudon, 1970, p.47). Boudon sottolinea inoltre la possibilita` di caratterizzare l'ambiente sociale non solo in base ad un'unica variabile, come nel caso precedente, ma in base a piu` variabili delle quali dovranno essere individuate le relazioni reciproche, contemporaneamente all'analisi delle relazioni che legano le variabili contestuali a quelle individuali. Altre ricerche, citate da Boudon, hanno infatti, invece di caratterizzare l'ambiente sulla base del voto dei singoli - come nel caso precedente - costruito variabili di relazione attraverso l'analisi sociometrica (che analizzeremo nel prossimo paragrafo), che ha permesso di descrivere la struttura dei rapporti tra i membri di un gruppo. Cosi` le ricerche di J.Coleman nel campo della sociologia dell'educazione, utilizzando una tecnica di questo genere, hanno permesso di dimostrare che - in modo autonomo ed indipendente rispetto alla riuscita scolastica ed altre caratteristiche individuali considerate di solito nello studio della mobilita` sociale - una delle cause dell'abbandono prematuro della scuola da parte di giovani provenienti da strati sociali meno privilegiati era appunto la loro mancata integrazione nel gruppo costituito dagli alunni della classe (Ibid., p.48). Una tecnica particolare di campionamento che e` risultata utile per un approccio di questo tipo, e`, secondo Boudon, il "campionamento a valanga". Essa comporta l'individuazione iniziale di un campione ristretto che comprende un piccolo numero di persone, cui si aggiungono progressivamente altri soggetti con i quali i primi dichiarano di avere dei rapporti, continuando cosi` fino al completamento del campione. Questa tecnica e` particolarmente indicata, dice Boudon, quando si studino gruppi o contesti troppo grandi percheÅL si possano considerare tutti gli individui che ne fanno parte. Il metodo consente infatti di determinare, con costi minori, le interdipendenze esistenti tra variabili individuali e variabili di relazione. Secondo Boudon la rilevazione contestuale e` relativamente poco utilizzata anche per i suoi maggiori costi, rispetto a quelle atomistiche, ma si sviluppera` sicuramente in modo notevole, data la sua importanza per l'analisi sociologica. Un'altro tipo di distinzione che sottolinea anche questa - anche se non esclusivamente - l'importanza e lo studio del contesto, il cui ruolo emerge con piu` chiarezza da uno studio prolungato, e` quella tra sondaggi istantanei e sondaggi longitudinali. Questi ultimi, in particolare, replicando le osservazioni sullo stesso campione a diverse riprese, permettono di studiare meglio i processi di mutamento, perche` fanno seguire i cambiamenti di stato degli elementi di un sistema sociale da una fase all'altra. Esso e` stato utilizzato per ricerche di sociologia politica, per studiare, in particolar modo, i meccanismi di cristallizzazione delle opinioni durante le campagne elettorali. Ma per rendere piu` valido questo tipo di ricerca ai fini dell'analisi contestuale Boudon ritiene sia possibile immaginare e svolgere dei sondaggi longitudinali di tipo contestuale, che consentirebbero di studiare mutamenti a livello individuale in funzione di mutamenti della struttura sociale del contesto ( Ibid.,p.49). Anche lo studio degli "effetti strutturali" proposto da Blau (Blau,1960) mi sembra far parte dell'analisi contestuale. Blau propone infatti di studiare questi effetti attraverso una procedura a piu` stadi. Nella prima si studiano le caratteristiche individuali e delle persone facenti parte di un gruppo, nella seconda si raggruppano i dati individuali sulla base delle loro somiglianze interne, nella terza si elaborano i dati a livello del gruppo complessivo. Infine si confrontano le differenze trai dati complessivi e quelli individuali, se questi emergono con chiarezza ci troviamo di fronte ai citati "effetti strutturali". Non staro` qui a discutere il metodo. Una analisi critica di esso, ed alcune proposte per migliorarlo da parte di altri ricercatori sono riportate nel saggio di Gilli che riferisce ed analizza la proposta di Blau. Volevo solo sottolineare qui che la logica del metodo mi sembra rientrare a pieno titolo in questo tipo di analisi. 3. L'analisi ecologica Un secondo tipo di analisi contestuale molto utilizzato in campo elettorale, data la segretezza del voto e la difficolta`, talvolta, a rilevare con oggettivita` e sincerita`, attraverso questionari ed altri tipi di indagini dirette, l'orientamento politico delle persone, e` l'analisi ecologica. Essa si basa sul rapporto esistente tra vita umana ed ambiente in cui essa si svolge, nel caso particolare, in quanto sociologi, l'ambiente sociale, e sull'esistenza, e l'individuazione, di "aree sociali" particolari. Ad esempio aree ad alta immigrazione, o caratterizzate dalla presenza di classi sociali o gruppi etnici diversi, o aree di transito, ecc., che sono collegate al fenomeno, spesso riscontrato, di "segregazione residenziale", e cioe` della tendenza dei gruppi sociali simili di andare a vivere in aree territoriali contigue. Il metodo e` molto semplice. Sulla base di una serie di indici (piu` usati sono quelli di posizione sociale, o classe, basato di solito sul tipo di occupazione e sui livelli di istruzione, talvolta anche sul reddito e sul tipo di alloggi; l'indice di urbanizzazione, basato sulla presenza o meno di caratteristiche urbane; di segregazione; ed altri (L'Abate, 1971), si individuano le varie aree sociali del territorio allo studio. Poi si analizza la distribuzione, secondo le stesse aree, del fenomeno che si vuole analizzare che puo` essere, o il voto per i vari partiti politici, nel caso di ricerche elettorali, o le malattie mentali diagnosticate come tali, o i suicidi, o i tassi di criminalita` di vario tipo, o l'inadempienza scolastica, ecc. Questi ultimi dati possono derivare da una raccolta di informazioni a livello individuale (malattie mentali, suicidi, ecc.), o sulla base di dati aggregati a livello di sezione elettorale (comportamento elettorale) o di censimento, oppure di zona (tassi di inadempienza scolastica, ecc.). I costi, ed il tempo, per questo tipo di analisi, sono abbastanza ridotti, e questo ne spiega la diffusione e l'uso frequente. Un altro vantaggio e` la facilita` a trovare i dati necessari. Chi abbia avuto occasione di lavorare negli archivi di Ospedali Psichiatrici, o altri simili, sa che e` era abbastanza facile trovare, per ogni caso, l'indirizzo della persona, mentre altri dati, quali la categoria professionale, o anche lo stato di famiglia, spesso erano carenti o mancanti. Ma e` importante tener presente anche un grosso limite che Boudon mette chiaramente in luce (Boudon, 1969), e cioe` che da una correlazione ecologica non e` possibile inferire una correlazione individuale. Questo e` legato all'impossibilita`, od alla difficolta`, di tenere sotto controllo altri fattori che possono essere piu` direttamente correlati al fenomeno in questione rispetto a quelli utilizzati per definire l'area sociale in studio. In una nostra ricerca sulle aree sociali di Firenze e sulla diffusione in esse delle malattie mentali diagnosticate, e` emersa nell'area ricca una presenza di malattie mentali tra le donne decisamente superiore a quella degli uomini della stessa area, ed in contrasto con l'andamento scalare riscontrato (piu` si passava dalle aree sociali ricche a quelle depresse, piu` aumentavano i tassi di malattie mentali diagnosticate). Una ricerca individuale su tutti i casi delle donne diagnosticate come malate di mente di quella zona ha permesso di riscontrare che esse erano, in grande maggioranza, o donne di servizio residenti in zona, o portiere o mogli di personale di servizio, e che quindi la correlazione riscontrata era determinata dall'alta presenza, nella zona, di personale di questo tipo, e da elevati indici di incidenza di malattie mentali proprio in questa categoria (L'Abate, Magherini, Nicoletti). Da questi ben noti limiti molti ne hanno tratto un giudizio negativo su tutto il metodo. Personalmente sono convinto che queste fondate critiche mettono in crisi non il metodo in se` stesso, ma la superficialita` con cui spesso esso e` stato utilizzato. Infatti per correggere il difetto su esposto ci sono due possibili rimedi: 1) tenere sotto controllo anche altri fattori, oltre a quelli che hanno portato alla costruzione delle aree stesse, che si pensa possano essere collegati al fenomeno in questione. Nel caso citato si sarebbe dovuto rilevare, se attraverso gli archivi cio` fosse stato possibile, non solo la localita` di residenza, ma anche la professione della persona, o del coniuge; lo status-socioeconomico della famiglia, e l'eventuale immigrazione. Attraverso un tale controllo inferenze tipo quelle su riportate non avrebbero potuto essere fatte perche`sarebbe emerso chiaramente il fattore di disturbo della correlazione ecologica riscontrata; 2) nel caso invece questo non sia possibile perche` si dispone solo della residenza dei casi in analisi (a livello individuale, o a livello di aggregato territoriale), la correlazione ecologica corrispondente va considerata solo come una prima ipotesi, da convalidare ulteriormente, e non come una conferma. E' possibile anche, con particolari tecniche statistiche, determinare i margini minimi e massimi che puo` avere la correlazione individuale che da essa si vuole inferire, diminuendo percio` il livello di incertezza di questa seconda fase (Boudon, Lazersfeld, 1969). Tenendo presenti queste indicazioni il metodo resta valido ed estremamente fruttuoso specie nelle prime fasi di una ricerca, quando su un determinato fenomeno si conosce estremamente poco, e non e` ancora nato un interesse conoscitivo su di esso che permetta di svolgere ricerche piu` approfondite e molto piu` costose (L'Abate, 1971, p.128). 4. L'analisi strutturale a livello micro 1) la sociometria Come abbiamo gia` visto, a livello di studio della realta` che si puo` definire "micro", e cioe` delle relazioni sociali, dei gruppi sociali, di vicinati, di piccole comunita`, di strutture scolastiche, di strutture sindacali, ecc, si e` sviluppata una forma di analisi strutturale che ha cercato di cogliere nella sua sostanza, uno degli aspetti sociali fondamentali dei rapporti sociali, e cioe` i rapporti interattivi. Uno degli strumenti fondamentali in questo campo e` l'analisi sociometrica. Molti manuali di metodologia sociologica non ne parlano nemmeno, ma alcuni di loro vi dedicano invece uno spazio abbastanza rilevante. Tra questi il Guidicini (1968), ed il Santoro (s.d.). La sociometria, che in senso etimologico viene da "socius" e "metrum", e` stata fondata da Moreno, (psichiatra austriaco poi trasferitosi in U.S.A.), con l'intento di "definire e misurare l'uomo, in quanto essere sociale" (Guidicini, p. 374). Moreno era stato allievo di Freud a Vienna, ma era stato anche influenzato da Comte e Le Play, che cercano di osservare empiricamente le interazioni tra gli uomini e le influenze dovute all'ambiente, e dal materialismo dialettico di Marx (Manco, p. 1182). Essa non e` solo una tecnica di ricerca, ma anche un modo particolare di vedere la realta`. In questa visione del mondo hanno un grosso spazio i concetti di creativita`, di spontaneita`, e di ruolo. I principi alla sua base sono infatti quelli della spontaneita` e della creativita`, intesi in senso reale, come presenti negli esseri umani e nelle relazioni che si stabiliscono tra di loro. Se questi principi vengono tenuti in considerazione ne risulta che gli uomini non sono piu` degli automi pre- o sovradeterminati, ma sono degli esseri umani dotati di spontaneita`, e di iniziativa, a livelli piu` o meno grandi (Manco, 1979, p.1182). Infatti Moreno non e` interessato solo al problema delle tecniche di analisi, cui pero` da` molto spazio, ma anche alle modifiche del comportamento che la sociometria poteva non solo rilevare, ma anche provocare. La sociometria e` cioe` una antesignana di quelle tecniche, che si svilupperanno in seguito, di ricerca-intervento, o di ricerca per l'azione. "Secondo il Moreno - scrive Guidicini - la ricerca sociometrica sviluppa nei soggetti una condizione particolare, grazie alla quale essi cessano di essere dei soggetti passivi, per diventare degli attori che partecipano coscientemente ai propri esperimenti e ne valutano i risultati: una analisi dei comportamenti sociali diventa sociometria nella misura in cui conferisce, ai membri di un gruppo, uno status attivo di chercheur" (p. 376). Questa caratteristica, ambivalente, di strumento di analisi e di mutamento dei rapporti sociali, e` stata considerata da Gurvitch uno degli aspetti piu` innovativi del metodo. Egli scrive, infatti: "Cio` che costituisce tutta l'originalita` della sociometria, e` che la misura (metron) vi appare solamente come un mezzo tecnico ben delimitato per meglio cogliere le relazioni qualitative con il socius: queste relazioni sono caratterizzate dallo loro spontaneita`, dal loro elemento creatore, dai loro rapporti con il tempo, dalle loro integrazioni nelle configurazioni concrete e singolari" (cit. in Guidicini, p.375). Essa infatti ha influenzato non solo la ricerca sociologica, ma anche la psicologia, la psichiatria, la scienza dell'educazione, ed altri settori delle scienze sociali. Dal punto di vista dell'analisi essa cerca di cogliere, vedremo dopo come, quali e quante relazioni un individuo stabilisce con altri individui; come si delineano e si evidenziano i meccanismi di emarginazione e di leadership; quali sono i gruppi che tendono a porsi come sottogruppi all'interno della collettivita`; in quale modo venga esercitata la pressione di gruppo; come si sviluppino organismi e rapporti informali, ed altro (Manco, p.1183). Dal punto di vista dell'intervento attivo, trasformativo (anche se Moreno cerca di superare il distacco tra metodi di ricerca e di azione), gli strumenti sociometrici fondamentali sono lo psicodramma ed il sociodramma. Lo psicodramma e` un insieme di tecniche attraverso le quali si cerca di analizzare gli aspetti salienti della personalita` di un individuo facendo recitare ad un singolo soggetto il ruolo di protagonista nell'ambito di una specifica situazione preordinata. Il modo in cui egli recita il suo ruolo, la storia che racconta per giustificare le sue assenze, e tutte le altre espressioni del suo recitare, sono elementi fondamentali per lo studio del suo pensiero e per cercare di cogliere il suo vissuto esperienziale, ed i suoi sentimenti nei confronti del problema e della persona con la quale gli e` stato chiesto, o ha scelto, di identificarsi (Manco, p.1184, Guidicini, p. 378). Il sociodramma invece e` centrato sul gruppo, ed e` stato definito "un metodo di ricerca attivo e profondo sulle relazioni che si formano trai gruppi e sulle ideologie collettive (Manco,p. 1184). Esso implica il coinvolgimento di un gruppo in una recita collettiva con vari ruoli (ad esempio, i manifestanti che partecipano ad una manifestazione di protesta, le forze dell'ordine, gli spettatori, ecc.), in una situazione specifica che tende spesso a prefigurare situazioni in cui il gruppo puo`, o si prepara a , venirsi a trovare, con scambio dei ruoli in modo da aiutare le persone a "mettersi nei panni degli altri" (L'Abate, 1985, pp.118-121). Ma vediamo piu` a fondo il bagaglio metodologico dell'analisi sociometrica, che e` quello che piu` interessa in questo contesto. I concetti e gli strumenti di fondo alla base di questa analisi sono: 1) L'atomo sociale, l'individuo in quanto ricevitore o espressore di scelte da parte di altri individui. Esso e` l'unita` di misura di tutto il sistema sociale. Ogni atomo sociale e` attratto, o respinto, da altri atomi. 2) Le emissioni, le scelte che un dato individuo (o atomo sociale) compie tra gli altri individui, indicando le proprie preferenze. 3) Le ricezioni : le scelte che un dato individuo riceve dagli altri. 4) La rete sociometrica, che puo` avere la forma dell'intersezione, quando piu` individui si intersecano reciprocamente (hanno cioe` elementi in comune), o l'unione, quando piu` individui sono legati tra loro da rapporti stabili. 5) TeleÅL, e` un processo di empatia bidirezionata , cioe` l'attrazione, o repulsione reciproca, tra due individui o atomi sociali. 6) Il test sociometrico, e` uno strumento che serve a misurare il livello e l'intensita` di relazioni organizzate esistenti all'interno dei gruppi sociali. Esso e` somministrato chiedendo ad ogni soggetto di scegliere, o rifiutare, altri individui (o atomi sociali) interni alla schiera degli appartenenti ad un gruppo di cui anche egli fa parte. Le attivita` possono essere diverse (sia per lo svolgimento di compiti, che per attivita` di vita - matrimonio, ecc.-, sia di tempo libero). 7) Socio-gramma, e` la rappresentazione grafica delle scelte e dei rifiuti emersi dalla somministrazione del test sociometrico. Per evitare una collocazione arbitraria nello spazio dei singoli individui Northway ha proposto la cosiddetta tecnica del bersaglio, e cioe` la rappresentazione in piu` cerchi concentrici (di solito tre o quattro) collocando nel cerchio piu` interno (piu` vicino al centro del bersaglio) gli individui piu` popolari (quelli con il maggior numero di ricezioni o scelte), nel cerchio piu` esterno coloro che ricevono il numero minore di scelte. 8) Ruoli sociometrici, i membri che non ricevono e non effettuano alcuna scelta sono gli "isolati", (o "isole sociometriche"); i membri che non sono prescelti, ma effettuano scelte, sono gli "ignorati"; i membri che ricevono un numero di scelte molto inferiore alla media sono i "marginali" o i "trascurati"; gli "status medio" sono coloro che ricevono un numero medio di scelte; quelli che sono scelti piu` della media sono i "popolari"; i piu` scelti in assoluti sono i "leaders"; La "diade" sono due persone che si scelgono l'un l'altro per la stessa attivita`; la "cricca" e` quel sottogruppo i cui membri si scelgono a vicenda ed e` chiuso nei riguardi di altri sottogruppi, o del gruppo piu` vasto (Manco, p. 1186). 9) Indici sociometrici. Gli indici calcolabili sono molteplici. Quelli piu` usati sono "l'indice di interazione", calcolato con la percentuale tra il totale delle designazioni reali (scelte o rifiuti) e la somma di quelle che sarebbero possibili; "l'indice di stabilita`", che serve a mettere in evidenza (ripetendo il test dopo un certo periodo, o dopo un particolare intervento) le variazioni numeriche di un gruppo dovute ai movimenti dei suoi membri (separazioni, abbandoni, ecc.) (Santoro, p.295); "l'indice di espansivita`", che deriva dal rapporto tra il numero totale dei rifiuti espressi da un individuo, e quelli invece delle scelte; "l'indice di percezione di status", che e` calcolabile quando, oltre a chiedere le scelte ed i rifiuti, si chiede alle persone di "indovinare" da chi ritengono di essere stati scelti, o rifiutati; esso e` costruito calcolando il rapporto tra il numero di scelte realmente ottenute, ed il numero di scelte che lui ritiene di aver ricevuto (Guidicini, pp.384-385). Ma alcuni esempi di rappresentazioni grafiche (sociogrammi), permetteranno di capire meglio sia i tipi di reti possibili, sia alcune diverse strutture di autorita` di gruppo che possono emergere da una ricerca sociometrica. I) Le strutture tipiche di relazione Nello schema 1 le attrazioni tra gli individui prendono la forma di una catena, in cui l'individuo A e` al centro dei collegamenti reciproci tra due diverse catene. Nello schema 2 le attrazioni prendono la forma di "diadi" (o coppie) di unita` isolate, o di gruppi di tre, staccati gli uni dagli altri. Nello schema 3 i sottogruppi sono centralizzati intorno a due individui dominanti (si chiamano "stelle" quando ricevono almeno cinque scelte) che non sono uniti da rapporti reciproci di attrazione. Nello schema 4 due individui (K1 e K2) sono reciprocamente molti uniti, o in via diretta, o attraverso la scelta di altri intermediari. II) Le strutture di autorita` II.1. Leader popolare (stella) II.2. Leader potente A differenza del leader popolare quello potente non ha rapporti diretti con tutti i membri, ma solo con alcuni di loro che sono pero` scelti, piu` o meno direttamente, dagli altri. II.3. Leader isolato Per l'effetto del rapporto di "tele`" (scelta reciproca) tra A e B, A, pur non essendo stato prescelto da nessuno, puo` dirigere tutti alla stregua di "padrone invisibile" ( la cosiddetta "eminenza grigia") di cui si parla spesso sia in campo politico che, soprattutto, in quello dell’organizzazione mafiosa in cui il vero capo e` sconosciuto, e tale deve essere, a tutti fuorcheÅL al suo diretto interlocutore. L'individuazione del tipo di leadership esistente, o altre forme di analisi sociometrica del gruppo, hanno permesso di studiare, in molte ricerche, i rapporti tra questi aspetti strutturali e vari altri fattori, quali, ad esempio, il livello di soddisfazione del gruppo, la rapidita` nello svolgimento di compiti e della risoluzione di rompicapo, la persistenza dei legami, ed altro. Questo ha fatto emergere, tra l'altro, che strutture organizzative centralizzate portano ad un minor numero di errori nei flussi informativi, ed anche ad un'organizzazione piu` stabile, ma ad una bassa soddisfazione dei membri che, oltre una certa soglia, influenza negativamente lo svolgimento del compito, sia in termini di efficienza che di affidabilita` (Bavelas, 1953). Un particolare accenno mi sembra importante fare all’uso della sociometria nelle nostre ricerche per la pace. In una ricerca sull’effetto dell’introduzione di giochi cooperativi in una classe di una scuola materna in provincia di Ferrara (L’Abate, 2001, p 110 e seg.), dai sociogrammi derivanti dall’osservazione dei giochi spontanei (quando il ricercatore non svolgeva i giochi cooperativi ed i bambini erano liberi di organizzarsi come credevano) emerge con chiarezza che prima della sperimentazione i bimbi erano divisi in tre gruppi, all’interno dei quali c’era una buona collaborazione, inesistente invece tra gruppi diversi. Ognuno dei tre gruppi svolgeva una attivita` differente, ed aveva un leader diverso. Dopo un certo periodo della sperimentazione, con un numero di allievi ridotto a causa di un periodo piuttosto lungo di malattie (che saranno un fattore di disturbo notevole) il gruppo, tutto unito, svolge un gioco drammatico con un leader diverso da quelli precedenti. Da notare che anche il bambino che inizialmente faceva parte di una diade staccata dagli altri due gruppi, restato solo a causa della malattia del suo compagno, accetta di essere inserito nel gruppo collettivo. Nell’ultima fase dell’osservazione, dopo circa tre mesi dall’inizio della sperimentazione, il gruppo tende a lavorare unito, facendo diverse attivita`, una dopo l’altra (gioco a palla, le capriole, una drammatizzazione) con leaders diversi per ognuno di questi giochi. C’e` da notare pero` la ricostituzione, separata dagli altri bambini, della diade iniziale a causa del ritorno dell’allievo malato, che non avendo partecipato per molto tempo alla sperimentazione, ne e` restato immune.Tutti gli altri, invece, come abbiamo detto, giocano insieme con leader a rotazione. Nel commento che di solito faccio quando proietto questo sociogramma sottolineo l’importanza dei risultati ottenuti sia per il superamento della divisione iniziale tra i due gruppi contrapposti, sia sul fatto di avere una leadership alternata, elemento fondamentale per dar vita ad una reale societa` democratica. In un’altra ricerca, invece, (Ricci, a.a.1997/98) il test sociometrico e` stato fondamentale per la valutazione dei risultati di vari modelli pedagogici sperimentati. Il test sociometrico finale ha dimostrato chiaramente come la struttura della classe si era modificata riuscendo a far per superare l’emarginazione iniziale di alcuni bambini immigrati. 2) L’analisi dei reticoli sociali Ma nei tempi piu` recenti, sotto l'influenza della sociometria, ma anche di altri stimoli (in particolare della graph analysis), si e` sviluppata un'altra forma di analisi strutturale, la "network analysis" o "analisi dei reticoli sociali", anche questa utilizzata prevalentemente, ma non esclusivamente, per lo studio dei rapporti a livello micro, e cioe` delle reti familiari e vicinali, e di piccoli gruppi in genere. Anche questa, come la sociometria, ha valenze non solo metodologiche ma anche teoriche, in quanto implica una particolare "visione del mondo" e dell' "essere umano". Nel criticare, infatti, l'impostazione tradizionale, scrive il Boissevain, uno studioso della scuola antropologica di Manchester, che e` stata una delle piu` attive nel portare avanti questa metodologia: "La gente decide la propria linea di azione sulla base di cio` che e` meglio per se`, e non solo, come gli struttural-funzionalisti vorrebbero farci credere, sulla base delle regole di comportamento sanzionate ed accettate. L'uomo e` percio` anche un manipolatore, un operatore interessato a se` stesso, come pure un essere morale. Egli cerca costantemente di migliorare o mantenere la sua posizione scegliendo tra linee di azione alternative. Ma siccome egli dipende anche dagli altri, e` impossibile per lui realizzare i propri interessi senza tener conto degli altri e senza dimostrare che questa azione in qualche modo va a vantaggio anche degli altri, o almeno non li danneggia.... Invece di vedere l'uomo come membro di gruppi o di complessi istituzionali che ubbidisce passivamente alle loro norme ed alle loro pressioni, e` importante vederlo come un imprenditore che cerca di manipolare norme e rapporti per il proprio beneficio psicologico e sociale" (Boissevain 1974, pp.6-7). E scrive Chiesi, in un interessante articolo su tale metodologia cui ci riferiremo ampiamente, e che riporta anche la citazione precedente: "Per gli antropologi della scuola di Manchester quindi le norme di gruppo, che certamente condizionano e sanzionano l'agire umano, non possono essere viste come pressione anonimamente esercitata dalla societa` in quanto gruppo impersonale. Esse vengono esercitate attraverso l'interazione degli altri attori facenti parte di un sistema di interdipendenze" (Chiesi, 1980, pp.296-297). Ma vediamo meglio, sulle linee del saggio di Chiesi, le basi teoriche di questa metodologia. Le affinita` maggiori del metodo sono con l'antropologia strutturale di Levi-Strauss, con il concetto di rete, o reticolo sociale, introdotto dalla scuola di Manchester, con la psicologia strutturale di Piaget, e con la sociometria di Moreno. "Tutte queste concezioni - scrive Chiesi - hanno in comune: a) l'importanza riservata ai modelli di relazioni, ai legami e ai flussi tra gli individui; b) la ricerca di strutture regolari e presumibilmente piu` semplici che giacciano sotto la complessa e incoerente apparenza dei fenomeni sociali; c) lo studio delle caratteristiche morfologiche della struttura in quanto tale prescindendo in maggiore o minore misura dallo studio delle caratteristiche degli individui che occupano le posizioni di questa struttura; d) la ricerca di metodi di analisi autonoma in grado di descrivere ed analizzare i modelli strutturali come unita` di indagine" (Ibid, pp.295-296). Chiesi sottolinea poi come il concetto di struttura sociale alla base del metodo prescinda dai ruoli concreti e dagli status (cioe` dalle funzioni) delle relazioni degli individui, e non perche` il loro studio non sia utile, ma perche` si ritiene possibile studiare le forme relazionali in quanto tali come oggetto di studio comprensibile in se stesso. L'influenza maggiore su questa impostazione e` stata quella della concezione di Simmel della sociologia come "geometria del sociale", che isola le forme del sociale analizzandone la struttura, e lasciando alle altre scienze umane il compito di occuparsi del contenuto (psicologico, economico, antropologico, ecc.) attraverso i quali queste forme diventano oggetti empirici (op. cit., p.297). Sulla scia di Simmel, Von Miese ritiene che l'oggetto della sociologia siano i fenomeni interumani, le relazioni tra gli individui, e cioe` lo studio del mero collegamento tra gli uomini determinabile e misurabile secondo la distanza e la costellazione dei rapporti. Pur mettendo in dubbio la possibilita` di isolare del tutto le funzioni dalle strutture, come sostengono i due autori citati, scissione criticata da Durkheim, Chiesi ritiene comunque che sia possibile prospettare dei campi di indagine in cui il concetto sostanziale di funzione possa essere ignorato. "Ad esempio - scrive Chiesi - la densita` di un reticolo e la sua forma ci puo` dire qualcosa sull'organizzazione di una societa` segreta o di un gruppo clandestino. Il problema delle societa` segrete e` quello di massimizzare l'integrazione dei componenti, minimizzando contemporaneamente, per ragioni di sicurezza, il numero dei contatti che ciascun membro ha con gli altri affiliati" (Ibid., p.299). Ed ancora: "lo studio dei percorsi di acquaintance degli individui di una data popolazione ci puo` dare utili indicazioni sulle fratture tra strati sociali o tra razze riscontrabili nel reticolo di conoscenze di ciascun individuo. Anche in questo caso - scrive Chiesi - una volta definito il contenuto delle relazioni interumane (rapporti di conoscenza) l'analisi rimane prettamente formale" (op.cit.p.300). I concetti alla base della "network analysis" sono percio` quelli di legame, o relazione, di distanza sociale, di spazio e di posizione, visti tutti come dimensioni fondamentali di un "reticolo sociale". Vediamo, anche qui, i concetti e gli strumenti alla base dell'analisi dei reticoli, nello stesso modo sintetico che abbiamo utilizzato per la sociometria: 1) Spazio. Il concetto di distanza, nella network analysis, e` concepito solo come mera relazione tra gli individui. Essa cioe` considera secondario il problema delle dimensioni della distanza e la loro misurabilita` in termini assoluti (anche se esistono possibilita` di tenerne conto che sono alla base della proposta di Galtung (1977a) di modelli strutturali per lo studio delle macrosocieta`, che analizzeremo nel prossimo paragrafo). La distanza 3, ad esempio, tra due individui (punti) significa che esistono tre legami (linee) che uniscono i due punti (vertici) in questione attraverso i contatti con altri due individui intermedi. La distanza tra un colonnello ed un sergente, ad esempio, visti i gradi intermedi (tenente colonnello, maggiore, capitano, tenente, sottotenente e maresciallo) sara` quindi 7, quella tra nonno e nipote 2. 2) Posizione. La network analysis non si interessa dello status e del ruolo in quanto caratteristiche sostanziali della posizione (che, secondo l'impostazione di Simmel, devono essere studiate dalle scienze umane speciali) ma solo della sua collocazione relativa rispetto a tutte le altre, ed alle relazioni caratteristiche che legano quella posizione alle altre (attiguita`, o distanza, centralita`, o perifericita`, e simili). 3) Indici della network analysis. Oltre alla distanza, gia` citata, gli indici piu` utilizzati sono quelli di centralita`, di densita`, di connettivita`, e di incidenza. La centralita` e` la misura di quanto un attore disti dall'attore piu` distante da lui nel reticolo sociale, calcolato sulla base dei gradini interattivi tra di loro. Gli attori con i valori piu` bassi appartengono al centro della struttura, quelli invece con i valori maggiori alla periferia (Galtung, 1977a, pp. 166-167). Bavelas propone di calcolare l'indice come rapporto tra la sommatoria delle distanze di un vertice del grafo da tutti gli altri, e la sommatoria di tutte le distanze del grafo (Chiesi, 1981, p.590). L'indice di densita` e` la percentuale della sommatoria tra tutti i legami esistenti tra tutte le persone del network (escludendo ego sulla base del quale, invece, di solito, si definisce l'esistenza o meno delle relazioni) in rapporto al numero totale di possibili legami tra tutti i membri del network (Di Nicola, 1986, p.150). La densita`, calcolata percio` sulla probabilita` che tra due punti (vertici) esista un legame (definito "arco"), porta ad individuare network a maglia larga (a bassa densita`) o a maglia chiusa (ad alta densita`) che, secondo Turner, sono quelli con percentuale dell'indice superiore al 60% (Ibid. p.151). L'indice di connettivita`, e` invece la misura della probabilita` che due vertici di una rete, presi a caso, siano raggiungibili attraverso un dato percorso (Ibid. p.155). Secondo la Di Nicola questa misura e` particolarmente importante quando si abbiano dei grafi diretti, e cioe` orientati e descritti percio` come una freccia direzionale, tra un vertice e l'altro. In questo caso i percorsi del grafo sono praticabili solo nel senso indicato (Ibid.). Secondo Galtung questo indice e` particolarmente importante quando si voglia mettere a fuoco le caratteristiche non tanto dell'attore individuale, quanto della struttura nella sua interezza. Esso permette infatti di distinguere operativamente i cosiddetti gruppi primari, con il massimo indice di connettivita`, da quelli cosiddetti secondari, con indici di connettivita` minimi (Galtung, 1977a, p.166). L'indice di incidenza e` il numero medio di relazioni che i membri di un network hanno con gli altri appartenenti allo stesso reticolo. L'incidenza di un network serve percio` ad indicarci quanto le persone (i vertici) siano in media connesse al network analizzato. (Di Nicola, p.152). Un'altro indice sottolineato dalla Di Nicola per comprendere meglio anche i valori della densita` e dell'incidenza, che sono ad esso connessi, e` quello dell'ampiezza (size). Alcuni autori infatti, nel caso di reticoli molto ampi, ritengono fondamentale dividerli in piu` segmenti, e calcolare la densita` per singoli segmenti (Ibid., p.153). Questo permette, ad esempio, di calcolare il grado di connessione tra due segmenti, sulla base delle relazioni che attraversano il confine. "Se i legami sul confine sono pochi, se in altro termine il confine e` 'forte' le persone che fungono da mediatori, in quanto hanno relazioni in ambedue i segmenti, diventano strategicamente molto importanti (Ibid.). Ma questo, a sua volta, tende a sottolineare l'importanza di altri concetti, o indici, come quello di neighbourhood (vicinanza), che e` dato dal numero di vertici collegati al vertice in questione da un percorso di lunghezza prestabilita (in genere 1 o 2) (Chiesi, 1981, p.591). E quelli di cluster, che e`, all'interno di una rete, un insieme di persone con legami reciproci comparativamente piu` densi, ma non del tutto chiusi verso l'esterno. In caso contrario si ha una clique (in italiano 'cricca'), in cui ogni vertice e` direttamente legato ad altri vertici con almeno un arco, ed in cui la densita` dei legami e` uguale al 100% (Di Nicola, p. 154). Per altri approfondimenti sul significato ed il calcolo di questi indici, e di altri meno utilizzati, si rimanda ai lavori di Chiesi e della Di Nicola, ripetutamente citati. Ma prima di concludere con alcune riflessioni, del Chiesi, sulle potenzialita` e sui limiti di questa tecnica, vorrei presentare alcuni grafici riportati dalla Di Nicola sulla tipologia di famiglie ad un solo genitore (donne separate o divorziate) che permette meglio di capire alcune potenzialita` di questa metodologia. Il grafico fa emergere tre tipologie nettamente differenziate di reti sociali in cui sia la struttura (con maggiore o minore presenza al suo interno del nucleo di origine, o del ruolo di un partner), sia i supporti sociali, psicologici, emotivi, sono altamente differenziati. Questa analisi ha permesso alle autrici, che erano interessate a studiare i rapporti tra struttura reticolare, supporto sociale ed il benessere psicologico delle donne capofamiglia, di trovare che: "le donne con reticolo costituito dalle famiglie di origine sono piu` sicure, ma tendenzialmente meno interessate ad uscire dalla dipendenza della famiglia; le donne che fanno riferimento a reticoli estesi, sono molto piu` insicure, ma tendenzialmente piu` disponibili, piu` orientate alla carriera, al lavoro " (Di Nicola, cit., p.87). In conclusione le autrici, rispetto all'idea generalizzata che i network a maglia chiusa siano di supporto psicologico, emotivo, e quindi diminuiscano il livello di stress, ipotizzano invece che: "- i reticoli a maglia aperta sono di supporto per le donne che sono interessate a crearsi una nuova identita`; i reticoli a maglia chiusa sono di supporto per le donne che tendono a mantenere e riconfermare la loro identita` (precedente alla rottura del matrimonio, quindi identita` giocata sul ruolo di moglie e di madre)" (Ibid., pp.87-88). Ma la Di Nicola utilizza questi risultati non tanto, e non solo, per mostrare la validita` della tecnica di analisi dei reticoli sociali, quanto per sottolineare il fatto che nell'articolazione delle relazioni tra ego-parentela-vicinato, non basti fermarsi all'individuazione degli aiuti reticolati dalla rete, ma sia necessario prendere in considerazione anche il senso soggettivamente inteso che ego attribuisce alle singole relazioni. E la conclusione del capitolo da parte della Di Nicola e` quella che "Solo una analisi delle relazioni sociali mediate simbolicamente da` ragione dell'estrema complessita` ed impossibilita` di ricondurre l'interpretazione della struttura, della finalita`, delle reti sociali primarie entro un quadro di mero funzionalismo, del tipo le reti primarie esistono, hanno delle funzioni, erogano i servizi di cui usufruisce un ego che e` al centro di un flusso che e` solo di risorse" (Di Nicola, op.cit., p.88). Ma questo sottolinea la necessita` di integrare l'analisi delle reti sociali, con altri metodi di rilevazione, quali, ad esempio, l'approccio fenomenologico, che porta a studiare le reti primarie non solo come "oggettivamente esistenti", ma tenta anche di ricostruire le "relazioni a partire dal senso soggettivamente inteso ad esse attribuite dal soggetto" (Ibid., p.144). Chiesi, che sottolinea la possibilita` di usare queste tecniche non solo nello studio delle reti primarie, ma anche nel rapporto tra gruppi e tra strutture globali (che analizzeremo nel prossimo paragrafo), sostiene che queste tecniche non vadano viste come sostitutive dell'analisi causale, ma piuttosto come integrative. Mi sembra opportuno concludere il paragrafo con un approfondimento di questo aspetto. Egli era infatti partito proprio dalla distinzione tra queste due metodologie e dalle maggiori potenzialita` dell'analisi dei reticoli rispetto a quella causale. "Mentre da una parte la definizione dei nessi di causalita` rimane a totale arbitrio del ricercatore, dall'altra si moltiplicano gli sforzi per rendere matematicamente piu` cogenti i risultati, una volta decisi aprioristicamente i nessi di causalita`. Alla soddisfazione per il grado di formalizzazione raggiunto corrisponde l'insoddisfazione per la debolezza esplicativa di questi strumenti, debolezza messa a nudo dalla rigorosita` stessa del metodo " (Chiesi, 1980, p.292). Questi limiti e questa insoddisfazione possono, sostiene Chiesi, sottolineare l'opportunita` di considerare i fenomeni sociali sotto un'ottica completamente diversa. Come esempio di questo diverso approccio egli cita una ricerca di Coleman e collaboratori, antecedente a quella cui si riferisce Boudon nel capitolo su "Comprensione e spiegazione" di queste stesse dispense. Anche questa verte sul grado di innovativita` di un medico che prescrive un nuovo farmaco. Questo puo` essere legato, e cioe` avere un'alta correlazione, con alcune caratteristiche personali dei medici in esame, ad esempio ad un diverso atteggiamento nei riguardi della professione, con la distinzione tra "orientamento verso la professione", o "orientamento verso il paziente". I medici orientati professionalmente sono coloro che ritengono importanti il riconoscimento presso i colleghi, l'attivita` di ricerca e le pubblicazioni. Quelli orientati verso i pazienti sono invece coloro che ritengono come qualita` prevalenti del medico il riconoscimento presso i pazienti e la stima presso la comunita` locale. La ricerca di Coleman ha portato vari elementi in appoggio all'ipotesi che i medici orientati professionalmente fossero tendenzialmente piu` innovatori rispetto all'altra categoria analizzata. Ma si puo` anche ritenere che l'introduzione dell'innovazione non dipenda tanto da questo tipo di variabili, quanto dalla posizione che l'individuo ricopre nella sua rete di rapporti con gli altri colleghi. I medici piu` isolati, quelli cioe` che meno frequentemente entrano in contatto con i loro colleghi, sarebbero percio` i meno innovatori. Questo pone al centro dell'analisi la posizione di centralita` e l'integrazione nei rapporti interpersonali e, secondo gli autori della ricerca, questo fa si che la diffusione dell'innovazione segua stadi diversi a seconda della struttura del reticolo relazionale e del tipo di relazione. "Inoltre, - scrive Chiesi - quello che piu` conta...... non solo la spiegazione relazionale presenta un'efficacia esplicativa maggiore, ma individua la forma del processo innovativo, un processo a valanga (snowball process) che puo` essere espresso con la funzione matematica dei fenomeni di reazione a catena" (Ibid., p.293). Un'altro esempio citato da Chiesi riguarda invece lo studio della mobilita` sociale, non visto come analisi causale dei fattori che favoriscono la mobilita`, ma piuttosto come lo studio dei reticoli dei percorsi di mobilita` occupazionale seguiti dai singoli individui nell'ascesa o nella discesa della scala di status. Questo, tra l'altro, evita il determinismo implicito in certi modelli causali; infatti, individuando le catene di mobilita` dei percorsi di carriera degli individui l'attore non e` piu` determinato da fattori strutturali o di atteggiamento, ma e` visto come libero di scegliere percorsi attuali piu` o meno lunghi di carriera:"lo studio si sposta cioe` - scrive Chiesi - dalla motivazioni dell'individuo ai percorsi che deve compiere una volta che ha deciso di fare carriera " (Ibid., p.293). Ma nelle conclusioni al secondo dei due saggi dedicati da Chiesi all'analisi di questa metodologia egli cita numerosi esempi di ricerche che integrano i due approcci, analizzando contemporaneamente sia dati sulle caratteristiche individuali delle persone o dei gruppi in analisi, sia dati sulle caratteristiche strutturali delle reti in cui essi sono inseriti. Quale esempio di questa integrazione egli cita un programma di ricerche. "Recentemente - scrive e` stata prospettata una ipotesi di studio che indaga le relazioni tra profittabilita` dell'impresa e capacita` di instaurare legami personali tra i consigli di amministrazione strutturalmente rilevanti rispetto al reticolo successivo " (Chiesi, 1981,p.603). 5. L'analisi strutturale a livello macro Le due metodologie che si sono sviluppate per una analisi strutturale a livello macro sono quella dell'omologia strutturale, messa a fuoco soprattutto da R. Boudon, e l'uso di modelli strutturali, portato avanti da J. Galtung e dal sottoscritto. 1. L'omologia strutturale Abbiamo gia` visto come Boudon consideri impossibile usare dei metodi quantitativi quando si vogliono studiare dei fenomeni unici, quali, ad esempio, la nascita del capitalismo analizzato da Max Weber. Secondo questo studioso quando si vogliano studiare le origini e le ragioni d'essere di un fenomeno unico, si possono utilizzare tre metodi diversi: 1) Si postula l'esistenza di leggi storiche o di cambiamento che consentono di spiegare il fenomeno in questione riconducendolo a queste leggi. Boudon, che sviluppera` in seguito la sua critica a questa teoria nel suo "Il posto del disordine", ritiene che questo tipo di spiegazione sia tautologica e non scientifica, e percio` da non prendere in considerazione in un testo sulla metodologia della ricerca. 2) Si cerca di fare emergere una implicazione di tipo logico tra un fenomeno sociale a carattere generale ed il particolare fenomeno che si vuole spiegare. E' appunto il metodo da lui definito come "ricerca delle omologie strutturali" che analizzeremo in questo paragrafo. 3) Si cerca di dimostrare che tale fenomeno e` presupposto da un insieme di altri fenomeni. Questo metodo viene definito da Boudon come "analisi funzionale", ed avremo occasione di analizzarlo nel capitolo successivo. Boudon comunque sottolinea come questi ultimi due, pur essendo di estremo interesse per uno studio dei metodi qualitativi di analisi sociale, piu` che dei veri e propri metodi, con procedimenti ben precisi, sono ancora degli orientamenti a carattere generale. Quattro sono gli esempi, citati da Boudon, dell'uso della metodologia dell'omologia strutturale. La ricerca di Panofsky, sull'architettura gotica ed il pensiero scolastico, in cui questo studioso, riflettendo sulle caratteristiche originali dell'architettura gotica, riesce a dimostrare come in questa i progetti architettonici siano concepiti nella stessa forma, ed articolati nello stesso modo dei trattati di filosofia scolastica. La ricerca, gia` citata, di Max Weber, sull'etica protestante e lo spirito del capitalismo. Weber, e` , secondo Boudon, lo studioso che ha piu` contribuito alla messa a punto di questo metodo. Ed infine quelle di Tocqueville, sull'antico regime e la rivoluzione, e di L. Goldmann, sul romanzo e l'alienazione dell'uomo nella societa` capitalista. Pur sottolineando alcune differenze, non secondarie, tra i metodi utilizzati dai vari autori analizzati, secondo Boudon, dalle loro analisi e da altri studi piu` recenti che hanno usato metodi simili per lo studio di fenomeni sociali complessi, si puo` dedurne che questa metodologia si sviluppa in due fasi: I) la costruzione di tipi ideali; II) la ricerca di corrispondenze strutturali tra questi tipi. I) La costruzione di tipi ideali E' questo uno degli aspetti piu` tipici della metodologia weberiana, che ha molto influenzato la ricerca sociologica successiva. "Uno dei temi importanti della metodologia di Weber - scrive Boudon - e` infatti che i concetti delle scienze sociali non possono essere definiti con esattezza come avviene per quelli delle scienze naturali e della filosofia. Essi si ottengono dando rilievo a certe caratteristiche del fenomeno esaminato e trascurandone altre" (Boudon, 1977, p.91). Naturalmente questo metodo porta ad una immagine volutamente semplificata della realta`. Ma, nel caso di Weber, ad esempio, che per la spiegazione del capitalismo moderno dara` rilievo, nella sua costruzione del "tipo ideale", all'idea di accumulazione del capitale, di calcolo razionale, di circolazione della ricchezza, ecc., la semplificazione ha il vantaggio di mettere in luce l'originalita` del capitalismo industriale rispetto a quello basato sull'usura o sulle forniture militari, fenomeni noti in molte altre societa`. II) La ricerca di corrispondenze strutturali tra questi tipi Secondo Boudon la nozione di omologia strutturale, e percio` della fase in questione, puo` avere due significati distinti : a) di identita`; b) di corrispondenza e similitudine. Il primo significato e` riscontrabile nei lavori di Panofsky, sull'architettura, e di Levi-Strauss, sui miti, ambedue basati sul confronto tra due categorie di prodotti mentali. Panofsky, ad esempio, sottolinea come i progetti delle cattedrali gotiche e i testi della scolastica abbiano un'articolazione del pensiero, o, almeno, dell'esposizione, la cui struttura logica e` la stessa (in termini matematici, nota Boudon, si parlerebbe di strutture lessicografiche). Lo stesso procedimento si puo` riscontrare nelle ricerche di Levi-Strauss sui miti. In questi casi la nozione di omologia e` perfettamente definita, ed il termine di omologia sta per identita`. Ma quando, come negli studi di Weber, Tocqueville e Goldmann, gli aspetti sociali messi in relazione tra di loro non appartengono alla stessa sfera mentale, le strutture e le omologie che si stabiliscono tra di loro sono spesso definite piu` vagamente. Nel caso di Weber il capitalismo viene spiegato mettendo in evidenza, non un fascio di cause o di circostanze storiche, ma piuttosto il parallelismo tra due strutture, quella del comportamento dell'imprenditore capitalista da un lato, e quella della mentalita` puritana, dall'altro. Secondo Boudon il parallelismo riscontrato e` interpretato da Weber in maniera causale, e cioe` che il protestantesimo e` una causa del capitalismo, ma il metodo di imputazione causale e` diverso da quello usato sia dagli storici che dai sociologi empirici ( questi ultimi coni metodi quasi sperimentali o lo studio delle variazioni concomitanti), perche` si basa sull'individuazione di una relazione tra questi due termini che deriva dalla loro "identita`", o omologia, di struttura. Ma anche altri studiosi usano, nel complesso, una metodologia simile. Goldmann, ad esempio, si pone il problema di sapere perche` si assista, nella storia della letteratura moderna, ad un mutamento delle forme letterarie, che porta ad una egemonia sempre piu` evidente del romanzo a partire dal secolo XIX. Il romanzo, di cui esistono accezioni molto diverse, e` definito da Goldmann, con una caratterizzazione idealtipica, come la sola forma letteraria che consente la descrizione degli avvenimenti quotidiani, del banale, del vissuto. E l'egemonia del romanzo nella societa` contemporanea viene spiegata da questo studioso con la omologia tra la sua natura idealtipica e la condizione dell'uomo nella societa` capitalista che lo porta, nell'interpretazione di Goldmann, a ripiegarsi sui suoi interessi, bisogni, e preoccupazioni quotidiane. L'ultimo esempio, citato da Boudon, e` quello di Tocqueville che descrive la filosofia dei lumi come tipo ideale, che egli definisce "idea madre"." Per quanto le loro strade divergano - scrive Tocqueville parlando dei filosofi illuministi - muovono tutti da un medesimo punto di partenza: essi pensano che e` indispensabile sostituire norme semplici elementari desunte dalla ragione e dalla legge di natura alle norme tradizionali, consuetudinarie, complesse, che reggono la societa` del loro tempo. In fondo in fondo, cio` che si potrebbe chiamare la filosofia politica del settecento consiste proprio in questo solo principio" (in Boudon, cit., p.94). E confrontando la filosofia politica francese del XVIII secolo con il pensiero anglosassone Tocqueville sottolinea il profondo contrasto tra il carattere utopistico e rivoluzionario della prima, e la natura empirico-riformatrice del secondo. Questo contrasto viene interpretato, da questo studioso, sulla base di una differenza di fondo tra questi due tipi di societa`. La societa` francese, il cui tratto fondamentale e` quello della "centralizzazione amministrativa", tendeva ad emarginare gli intellettuali che non avevano ne` autorita` ne` alcuna funzione pubblica, ed in cui le decisioni fondamentali venivano prese dalla moltitudine di "funzionari". Da li`, secondo Tocqueville, il carattere astratto-rivoluzionario della filosofia dei lumi (Boudon, cit., p.94). La societa` inglese, invece, caratterizzata da un forte "decentramento amministrativo", tendeva a coinvolgere costantemente gli intellettuali nella "quotidiana pratica degli affari". E questo ha influito notevolmente sullo sviluppo di una filosofia empirico-pragmatica, ed a portare gli intellettuali inglesi in posizioni riformatrici. Secondo Boudon la metodologia della ricerca di omologie strutturali corrisponde ad una procedura spontaneamente utilizzata da numerosi sociologi, e richiama i principi della sociologia della conoscenza (K.Mannheim) che postula la corrispondenza dei prodotti mentali con aspetti non mentali, strutturali, di una societa`. Egli ritiene, inoltre, che la vitalita` di questa metodologia, ripresa da vari altri autori, anche attuali, sia dovuta in gran parte al fatto che sia l'unica disponibile quando si affrontano temi relativi a fenomeni sociali complessi, che non si possono studiare sulla base di modelli causali semplici, e per i quali il sociologo non puo` disporre delle risorse di dati comparativi. Le conclusioni di Boudon sono percio`: "Per riassumere possiamo dunque dire che il tipo di metodo applicato nello studio dell'etica protestante anche se conduce a risultati difficilmente verificabili, che persuadono piu` di quanto non convincano, appare come l'unico possibile nella spiegazione di certi fenomeni sociali" (Ibid. p., 95). L'uso di modelli strutturali Il secondo metodo di cui abbiamo parlato e` l'uso di modelli strutturali per l'analisi delle societa` contemporanee. Abbiamo gia` accennato come sia possibile studiare la struttura reale dei rapporti reciproci in piccoli gruppi o comunita` limitate. Quando, invece, si studiano societa` complesse gli aspetti strutturalmente significativi sono tanti, da non poterli cogliere tutti, ed essere costretti, attraverso un modello, di evidenziare quelli che si ritengono piu` importanti. Implicitamente quasi tutti i sociologi hanno usato una metodologia del genere senza pero`, spesso, considerare il loro come modello, ma pensando di cogliere la realta` stessa. In particolare i modelli piu` noti sono quelli di Marx, Spencer, Durkheim, Weber, Parsons, a livello macro-strutturale, e quelli invece di Simmel, Mead, Schutz a livello micro-strutturale . Non credo sia il caso di riprendere questi modelli, ampiamente riportati nella letteratura specializzata (Turner Gallino, Barbano, De Marchi). Mi sembra invece importante vedere le motivazioni all'uso di modelli macro-strutturali esplicitati fattane da Galtung, e qualche esempio di modelli di questo tipo. Galtung inizia sottolineando il carattere metodologico dell'analisi strutturale, come di quelle funzionali e causali, che non sono teorie, ne` paradigmi, ne` semplici proposizioni. Egli differenzia l'analisi strutturale da quella funzionale non per il fatto di rigettare assiomi di interdipendenza, che fanno parte di tutti e due i metodi, ma per quello di non assumere alcun genere di "direttivita` rispetto allo scopo" tipico invece del funzionalismo. L'analisi strutturale cerca di cogliere solo gli aspetti strutturali visti come l'insieme di relazioni, o rapporti, che, piu` dell'insieme distaccato di attori, danno vita ad un sistema sociale , un "insieme" di elementi e relazioni interdipendenti che al cambiamento di uno tendono a cambiare tutti. In generale, dice Galtung, "Piu` densa la rete di interrelazioni, piu` olistica e` l'immagine data, piu` essa e` staccata dal livello dell'attore" (Galtung, 1977a, p. 161). Ma l'analisi strutturale non si interessa solo dei rapporti sociali (o relazioni), ma anche dei meta-rapporti, e cioe` dei rapporti tra rapporti. Per esempio il rapporto tra una moglie e suo fratello puo` essere visto come opposto a quello tra moglie e marito (se la prima e` stretta e calda, la seconda e` distante e fredda, e viceversa). Inoltre essa cerca di cogliere la differenza tra una struttura profonda, ed una struttura di superficie, che richiama l'idea di Lazarsfeld di una struttura latente (Lazarsfeld, 1978), che e` qualcosa di piu` costante, meno "accidentale" e forse piu` "pulita" e piu` "semplice" della realta` empirica. Ma l'analisi strutturale differisce non solo dall'analisi funzionale, ma anche da quella causale, perche` in essa l'idea fondamentale non e` quella di "causa", ma quella di "trasformazione". Un sistema parentale, un mito, un vocabolo, vengono visti come la trasformazione di un altro, sulla base della struttura profonda comune. Ma non c'e` l'assunzione implicita che l'elemento allo studio sia derivato da un processo di trasformazione dell'altro, ma solo che la trasformazione puo` essere definita come cio` che trasforma S1 in S2 e che l'invarianza e` la struttura profonda. Sulla base di queste indicazioni risulta chiaro per Galtung perche` l'analisi strutturalista di Levi-Strauss (Levi- Strauss, 1970) tende ad essere non-diacronica, atemporale (che e` diverso dal dire sincronica, e` infatti "senza tempo"). Secondo Galtung, infatti, l'analisi di Levi-Strauss fa emergere un sistema di "regole”, come negli scacchi, piuttosto che permettere di capire i processi. La sua idea di fondo e` quella che il numero delle trasformazioni e delle permutazioni corrette degli elementi di base e` limitata dalla struttura profonda comune. "La comprensione di questo tipo di ragionamento - scrive Galtung - non e` in termini temporali, ne` in quelli causali (come si e` prodotto ?), ne` funzionali (a cosa porta?), ma nei termini trasformazionali: come questo puo` essere visto come una trasformazione di altre strutture?" (Ibid., p.163). Ma Galtung ritiene che questo tipo di analisi, che e` sicuramente una forma di comprensione, pur rappresentando un positivo rifiuto delle implicazioni manipolative cui spesso ha portato il comportamentismo, puo` portare ad una visione del mondo in cui ogni uomo risulti agito da queste permutazioni, in cui e` grande l'area delle cose immutabili e piccola quella delle mutabili, ed in cui lo "spazio di manovra o di gioco" dell'uomo e` ridotto, rendendolo piu` solido, ma anche piu` rigido (Ibid., p.163). Per questo ritiene che l'analisi strutturale faccia parte di una categoria diversa, piu` generale, di quella "strutturalista", perche` il suo punto di partenza e` solo la definizione di struttura data prima, in cui puo` essere importante distinguere tra elementi essenziali e accidentali, ma senza far di questo una filosofia, ne` lo scopo precipuo del metodo, ma considerandolo solo come un problema comune a tutte le scienze. Quali sono, secondo Galtung, le implicazioni in positivo di questo tipo di analisi? Esse sono quattro. La prima e` quella che non dovrebbe essere vista come antitetica all'analisi funzionale, in particolare di quella forma che lui definisce "radicale" e che vedremo nel prossimo capitolo. Ma dovrebbe portare ad una comprensione piu` profonda del lato strutturale, senza pero` togliere spazio ai valori, ed all'azione diretta ad uno scopo, senza percio` sopravvalutare l'agire e l'implementazione delle strutture latenti. Secondo, non dovrebbe essere considerata antitetica nemmeno dell'analisi causale. Ma l'idea di causazione, che non e` di per se` irragionevole, non dovrebbe essere interpretata troppo strettamente. Si deve lasciar spazio a idee di rapporti dialettici piuttosto che meccanici, probabilistici piuttosto che deterministici, non monotoni piuttosto che monotoni, e non dovrebbero essere visti come una "legge di natura", ma solo come una invarianza, sia pur provvisoria, che puo` essere rotta se non serve piu`. Ma resta l'idea che "cambiamenti in un posto possono essere portati avanti attraverso cambiamenti in un'altro", idea che puo` essere utilizzata sia come strumento per l'azione, sia come base di predizioni. Terzo, l'idea di trasformazioni dovrebbe essere uno dei pilastri del sistema, ma dovrebbe essere legata a nozioni di analisi causale e funzionale per permettere una analisi nei termini di trasformazioni per che cosa?, e da portare avanti come?, per arricchire, e forse anche inglobare, queste altre nozioni. Quarto, bisogna avere un sistema analitico ricco in termini di rapporti, in modo da tener conto del fatto che le strutture sociali fanno si che i rapporti variano di peso e possono essere anche negativi; sono asimmetrici, e non solo simmetrici; sono multilaterali, e non solo bilaterali; e che ci possono essere rapporti tra elementi a diversi livelli di complessita`: tra "status" o attori in un sistema, tra sistemi in una struttura, tra strutture in una societa`, ecc. (Ibid., p.164). Galtung prende poi in analisi la teoria dei grafi ed i recenti sviluppi della chimica organica cercando di tirarne fuori alcuni insegnamenti che possano essere utili anche per lo studio dei sistemi sociali. Non mi sembra il caso di appesantire il capitolo con una analisi puntuale di questi aspetti. Alcuni di questi, riguardanti la teoria dei grafi, alla base dello studio dei reticoli sociali, li abbiamo gia` visti nel paragrafo precedente. Cerchero` solo di sottolineare alcuni elementi innovativi che permettono l'utilizzo di questi concetti ai fini dell'analisi delle strutture sociali. Per quanto riguarda la teoria dei grafi Galtung ritiene che non possa essere sufficiente, se si vuole mettere l'accento non solo sugli individui, ma anche sulla struttura sociale nel suo insieme (e non solo quella informale ma anche quella formale), dei grafi che uniscano gli elementi, ma che sia necessario pesare i rapporti interattivi, ad esempio da -1 , nel caso di valori massimi negativi, a +1, per valori massimi positivi. A livello di sistema sociale l'interazione puo` essere infatti simmetrica, equalitaria, ma anche asimmetrica, inequalitaria, e puo` essere forte o debole. Alcuni sviluppi ed indici elaborati dalla teoria dei grafi, quali l'indice di interazione, o quello di centralita`, possono essere di aiuto a questo fine. Dalla chimica organica, e dai grafi utilizzati in questo campo, si puo` prendere il concetto di atomo sociale, che del resto abbiamo gia` visto essere presente in sociometria, che non va visto pero` solo come un singolo individuo, ma come singolo attore sociale (esseri umani, gruppi, nazioni, regioni, globi). Si puo`, inoltre, vedere come, con una classe di atomi molto piccola, si possa costruire una enorme classe di molecole, e come, all'interno della stessa classe, gli atomi analoghi possano diventare diversi a seconda della loro diversa posizione all'interno di una struttura. In altre parole, rispetto alla teoria dei grafi, che tende a lavorare con elementi non distinguibili reciprocamente, possiamo avere anche tre classi di elementi, il che permette una maggiore discriminazione, ed una maggiore varieta` dal lato degli elementi. Dal punto di vista dei rapporti, rispetto ai grafici direttivi di cui abbiamo parlato, si perde qualcosa perche` in chimica organica la relazione e` simmetrica, senza distinzione tra cio` che viene e cio` che va, in una posizione o elemento. Ma, sia pur non raffinata c'e` una misura di peso, che e` data dal fatto che sia possibile avere un legame, o un doppio legame, e questo tipo di grafo permette percio` di discutere problemi dei sistemi sociali che fino adora erano sfuggiti all'attenzione. In chimica, con gli stessi elementi, passando da rapporti singoli, a doppi, o tripli, possiamo ottenere sostanze con caratteristiche completamente diverse. Questo rende possibile lo studio di fenomeni analoghi in campo sociale. Per far questo Galtung propone due dizionarietti per la traduzione di concetti chimici in quelli sociologici. Vediamoli (op.cit. p. 173):. DIZIONARIO I Questo modello ci permette di parlare in modo corretto di attori con diverso rango, determinato quest'ultimo da una diversa capacita` interattiva. Questo permette a Galtung di introdurre un secondo dizionarietto di traduzione di concetti chimici in quelli sociologici (op.cit.p. 174): DIZIONARIO II La formula strutturale nella chimica organica diventa la "carta dell'organizzazione" in campo sociale. Il punto centrale e` l'esistenza degli isomeri. Gli esempi successivi, con alcune illustrazioni grafiche riprese dalla chimica che non riportiamo, su due istituti universitari, analoghi come componenti, ma diversi nella loro struttura, o su incontri di primi ministri, con i loro assistenti, permettono a Galtung di sottolineare l'utilita` di questi concetti. In un istituto universitario, ad esempio, considerando i professori T, gli assistenti M, e gli studenti U, se un assistente si trova ad essere intermediario dei rapporti tra due professori, pur mantenendo una valenza inferiore, viene a svolgere un ruolo fondamentale, con un indice di centralita` superiore a quello dei professori stessi. E negli incontri tra primi ministri, a seconda se i primi ministri siano legati reciprocamente da un legame semplice o doppio, e gli assistenti siano invece reciprocamente disuniti, oppure legati anche loro reciprocamente, si puo` passare da sistemi feudali, i primi, a sistemi piu` o meno defeudalizzati, tanto piu` si stabiliscono legami diretti tra le periferie stesse. Le ulteriori considerazioni di Galtung riguardano il costruttivismo, che egli vede in analogia con il passaggio dalla chimica organica classica a quella sintetica, ma di cui abbiamo gia` parlato nel capitolo sui valori. Galtung ha utilizzato questo modello "feudale" per l'interpretazione dei fenomeni piu` diversi, come la guerra, i processi rivoluzionari, i rapporti di dipendenza nord-sud, l'imperialismo, la pace. Ma prima di vedere meglio come Galtung applica il modello e trarne alcune indicazioni sul metodo in generale, vorrei fare una digressione. Il modello strutturale a livello macro-sociologico piu` noto e` sicuramente quello di Parsons, basato, come e` noto, sull'individuazione di quattro sotto-sistemi (biologico, psicologico, sociale, culturale), con quattro funzioni diverse (adattiva, integrativa, perseguimento dello scopo, latenza), e sullo studio delle interazioni reciproche tra questi sottosistemi che fanno si` che l'equilibrio complessivo possa essere mantenuto. Esso ha stimolato notevolmente la riflessione sociologica contemporanea. Sembrerebbe logico, percio`, in un capitolo sull'uso dei modelli ai fini dell'analisi strutturale, partire da questo modello, o almeno dargli uno spazio adeguato. Non lo faremo per le seguenti ragioni: 1) perche` e` sufficientemente noto proprio per l'immensa letteratura che ha stimolato; 2) perche` non corrisponde ai criteri indicati da Galtung e che qui ci interessano, e cioe` della possibilita` di studiare la struttura indipendentemente dalle funzioni (indipendenza che abbiamo visto essere anche alla base dell'analisi dei reticoli). Invece il modello di Parsons (1951), che e` stato definito struttural-funzionalista, si basa proprio sui rapporti reciproci tra questi due livelli. E' vero che lo stesso Galtung parla della necessita` di superare la separatezza dello studio delle strutture, delle funzioni e delle cause. In questo senso il lavoro di Parsons puo` essere considerato come un tentativo pionieristico di superare la divisione tra analisi strutturale e analisi funzionale. Ed e` forse questa la ragione del grande interesse che esso ha suscitato. Ma questo collegamento viene fatto, come e` stato fatto notare piu` volte, (Capecchi, Turner), privilegiando gli aspetti funzionali rispetto a quelli strutturali. Tanto che Parsons viene giustamente considerato un funzionalista e non uno strutturalista. E questa mi sembra una seconda valida ragione per non inserirlo in questo paragrafo. I grafici qui acclusi mi sembrano sufficientemente chiari per comprendere la sostanza del ragionamento di Galtung (Galtung, 1983, p. ). Da questo emerge come i "centri" siano strettamente collegati tra di loro, mentre le periferie sono collegate tra di loro solo tramite i centri cui sono legate. Nei termini della teoria dei grafi gia` vista nel grafico in questione la distanza tra i centri e` 1, o al massimo 2 (tra C1 e C3), mentre quella tra periferie e` al minimo 2, nel caso di periferie collegate allo stesso centro (es. P32 e P31) ma di solito 3 (tra P31 e P42), o 4 (tra P31 e P11). Questa diversa distanza reciproca tra periferie, rispetto ai centri, e` alla base della struttura dei rapporti imperialistici: Fig. 2 Struttura dell’imperialismo. Questo fa emergere un'altro aspetto strutturale fondamentale. Sia all'interno del centro che della periferia c'e` una disarmonia di interessi, e c'e` un centro ed una periferia interni. Il centro (la parte del tondo tratteggiata) del centro e` piu` grande rispetto al centro invece della periferia. Ma l'idea fondamentale, e la base principale, dei rapporti imperialistici, e` quella che il centro della nazione centrale ha una specie di avamposto, opportunamente scelto, nella nazione periferica, e cioe` nel centro di quest'ultima. Tra i due centri c'e` percio` un rapporto armonico di interessi reciproci, mentre lo stesso non e` vero per le periferie che sono invece, di solito, in un rapporto reciproco disarmonico. La linea verticale tratteggiata in mezzo ai due cerchi sta ad indicare che la disarmonia interna alla nazione periferica e` maggiore di quella all'interno della nazione centrale. Grazie a questo anche la periferia della nazione centrale tende ad avvantaggiarsi dell'intero assetto, e dei rapporti squilibrati tra nazione centrale e nazione periferica. E questo tende a porla in situazione disarmonica con la periferia della nazione periferica. Se questo assetto non si rompe, vedremo dopo come, questo tende a creare appunto quelli che sono stati definiti rapporti imperialistici che tendono a riprodursi ed a rinforzarsi. La presentazione e`, naturalmente, in questo breve riassunto, necessariamente schematica e riduttiva. Chi fosse interessato e` invitato a leggere il saggio in questione. Dalla persistenza di questi rapporti, a seconda dei tipi di scambio privilegiati nel rapporto, ne emergono quelli che Galtung chiama i cinque tipi di imperialismo (ibid. p. ): La tabella e` sufficientemente chiara per non dover essere commentata. Ma veniamo ora, per concludere, alle indicazioni operative per superare questo stato di cose, e che abbiamo gia` intravisto parlando di rapporti "defeudalizzati". L'ultimo grafico permette di vedere la differenza tra una triade feudale ed una defeudalizzata. DIAGRAMMA 3 Un confronto tra sistema feudale e defeudalizzato. Come si puo` notare il sistema a sinistra ha solo interazione verticale, a senso unico, dall'alto al basso. Il sistema a destra ha invece il massimo di collegamenti, perche` sono stati aggiunti tre tipi di interazione, quella verticale dal basso verso l'alto, l'interazione orizzontale, che unisce tra di loro le due periferie, e l'interazione multilaterale. Nel sistema feudale le posizioni strutturali sono dissimili. Il potere strutturale e` tutto concentrato nell'alto. In quello defeudalizzato, invece, non c'e` soltanto il massimo grado di interazione, ma anche una completa similarita` (simmetria) nelle posizioni strutturali. C'e` ancora differenza di classe, ma c'e` uguaglianza di interazione reciproca, nessuno ha il monopolio dell'interazione come nell'altro caso. Le implicazioni di queste diverse strutture, e le diverse strategie utilizzabili per portare avanti il processo di defeudalizzazione sono analizzate a fondo da Galtung in questi, ed in altri saggi, ma non rientrano negli argomenti che qui ci interessano. Volevo solo mostrare come un modello strutturale, come quello qui presentato, possa essere di ausilio alla comprensione ed all'interpretazione della realta` che ci circonda, e come da esso si possano trarre anche indicazioni utili per il suo superamento, o modifica. I grafici di Galtung sono di estremo interesse per l’elaborazione di una strategia alternativa al processo di globalizzazione che viene portato avanti, attualmente, soprattutto negli interessi del grande capitale, delle banche, e degli imprenditori corrotti che speculano sulle differenze dei costi del lavoro nei paesi emergenti e nel mondo occidentale sviluppato (Friedmann, 2004). E come questo processo sia strettamente collegato al “circuito causale della guerra” (L’Abate, 2008, p. 22). E mostrano anche come sia possibile una alternativa a questo sviluppo se i movimenti di base dei vari paesi del mondo, per la pace, per i diritti umani, per la salvaguardia del creato, per l’equita` tra uomo e donna, ecc. ecc., invece di lavorare ognuno per conto suo, e spesso addirittura in concorrenza l’uno con l’altro, cominciano a lavorare insieme (ad esempio come sta avvenendo nei vari Forum Mondiali o Regionali per una Alternativa) per dar vita ad un processo di globalizzazione dal basso (Pianta, 2001) che metta in moto un processo di sviluppo alternativo, sostenibile nel tempo, e basato sui principi di equita` e di giustizia (si veda Friedmann, citato, in particolare la nuova introduzione dell’autore, 2005) Un secondo modello strutturale che penso sia utile presentare come esempio di questa metodologia e` stato da me elaborato su ispirazione del pensiero gramsciano. Esso si basa sulla constatazione dell'importanza dei rapporti interattivi di dominanza non solo di classe ma anche urbano rurali. Ma vediamo il grafico: MODELLO DELLA BASE STRUTTURALE Il modello, avendo quattro attori principali, e non solo due, permette di superare il limite dei rapporti bipolari in cui le interazioni sono, o conflittuali o cooperative. Da qui i due modelli, quello cooperativo, o dell'equilibrio, quello conflittuale, o della coercizione. Un modello a quattro elementi permette invece di considerare conflitto e consenso come coesistenti, e permette di vedere meglio l'importanza strategica di alleanze tra Bu e Br che non rinforzino i processi di dominanza urbano rurale, anzi tendano a superarli. E fa emergere chiaramente la scarsa capacita` innovativa di azioni e di lotte di Bu che non tengano conto della situazione di dominanza verso Br e che non cerchino di aiutarla a superarla, limitandosi invece ad una richiesta corporativa di maggiori salari e maggiori privilegi, rendendo, di fatto, Bu alleato di Au nel rinforzo dei rapporti di dominanza verso Br. Anche questo modello e` stato utilizzato, utilmente, per la comprensione del fenomeno guerra nella societa` contemporanea percheÅL mostra la possibilita` di un superamento delle divergenze tra le teorie marxiste dello sviluppo nei paesi occidentali (che puntano sul ruolo innovatore della classe operaia - Bu, che in realta` sta diventando sempre meno innovatore, e spesso strettamente collegato agli interessi di Au), e le teorie invece del marxismo terzo-mondista che punta invece sulla forza rivoluzionaria degli emarginati del terzo mondo (Br) (classe dominata rurale - senza alcuna allusione alle Brigate Rosse!) per rovesciare l’attuale processo di sviluppo imperialistico (si vedano le distinzioni di Galtung). Il modello gramsciano qui utilizzato mostra come solo una alleanza tra queste due componenti della classe dominata (Bu e Br) puo` portare ad un reale cambiamento dell’attuale modello di sviluppo. Ma vorrei concludere il paragrafo, con una demistificazione di questo e degli altri modelli analizzati. I modelli, infatti, possono essere utili per comprendere la realta`, e non tutta la realta`, "ma vanno formulati e usati con particolare cautela, senza venir in alcun modo assolutizzati" (Geymonat, p.26). E l'altro pericolo cui accennavo, nel mio saggio citato, e` quello di credere che l'analisi strutturale sia l'unico, od anche semplicemente il principale, metodo di analisi. In realta`, continuo a ripeterlo, i vari metodi che abbiamo visto, e quelli che vedremo nel proseguo delle pagine, non sono alternativi l'uno all'altro, ma complementari. Solo studiando un fenomeno attraverso l'analisi causale, quella strutturale, quella funzionale, e quella processuale, si puo` arrivare a cogliere gli aspetti fondamentali del fenomeno in questione. In caso contrario la nostra conoscenza sara` parziale, ed anche deformata dal particolare metodo utilizzato. Ma avendo distinto tra analisi strutturale a livello micro e macro, non vorrei aver lasciato credere che questi due livelli siano irrimediabilmente distinti, e che si debbano utilizzare metodologie diverse per affrontare temi ai due livelli citati, tesi che ho gia` cercato di confutare in varie parti del libro, ma in particolare nel capitolo sull'individualismo metodologico. Infatti l'individualismo metodologico e` un metodo che permette, e richiede, un collegamento tra questi due livelli. Ma alcuni autori, che ritengo opportuno analizzare, cercano, attraverso dei loro modelli, di collegare esplicitamente questi due livelli. Il primo e` Ritzer, il cui modello, ispirato da Gurvitch che ritiene fondamentale vedere la struttura non come qualcosa di statico ed immodificabile, ma come un processo (di strutturazione e/o di destrutturazione), l'abbiamo gia` analizzato nel capitolo su citato. Questa e` sicuramente una delle proposte piu` interessanti. Ma due altri autori fanno un tentativo di questo genere, con modelli che mi sembra opportuno prendere in analisi. Uno e` Collins, con la sua proposta di microfondazione della struttura sociale, e l'altro Giddens, con la sua teoria della strutturazione. Solo, dato che questi modelli mettono al centro della loro analisi non tanto le strutture, quanto i processi che le costituiscono o le decostituiscono, mi sembra piu` valido non prenderli in considerazione in questo capitolo, quanto piuttosto in quello finale, dedicato appunto all'analisi processuale. Quindi concluderei qui questo capitolo sottolineando l'importanza dell'analisi strutturale, di cui ho cercato di dare una idea delle principali metodologie finora sviluppate, ma anche la necessita` di integrarla, non solo con le analisi causale e funzionale, ma anche, e soprattutto, con quella processuale che permette di superare la staticita` e la rigidita` di modelli troppi fissi e costrittivi. |
Capitolo 3 L'ANALISI FUNZIONALE Il funzionalismo e l'analisi funzionale sono stati oggetto di numerosissimi lavori. La maggior parte di questi riguarda pero` piu` la costruzione teoretica che, nei termini da noi indicati, potremmo chiamare il "modello di societa`" da esso costruito come spiegazione della societa` intera (il sistema) e della interdipendenza tra le parti che lo compongono (i sottosistemi),. piuttosto che gli aspetti metodologici che sono stati invece se non del tutto trascurati, almeno marginalizzati rispetto al resto. In questo capitolo cerchero` di fare esattamente l'opposto, trascurando del tutto il funzionalismo quale interpretazione complessiva del mondo che ci circonda. Per questo non parlero` ne` di Parsons, uno dei piu` illustri funzionalisti, ne` di Luhman, un'altro funzionalista. che in tempi piu` recenti, rispetto a Parsons, sta suscitando un notevole interesse per la sua interpretazione sistemica-funzionalista della societa` complessa. Mentre faro` riferimento ad altri autori, come Lessner - o Galtung, che vengono di solito trascurati e che hanno invece dato all' analisi funzionale, considerata come un metodo di analisi del reale, e non come una visione del mondo omnicomprensiva, un contributo .che ritengo fondamentale. Per trattare questo argomento faro` un'analisi dei principali contributi a questa metodologia. Poi portero` alcuni esempi di ricerche che hanno utilizzato questo metodo di spiegazione, infine cerchero` di tirare le somme su quanto, dopo l'analisi e le critiche, resta valido di questa metodologia. l. Alcuni cenni storici Il funzionalismo si e` sviluppato in diversi campi, in particolare in psicologia, in linguistica, in antropologia e sociologia. In psicologia i funzionalisti, tra cui i piu` noti W. James e J. Dewey, sono stati influenzati dalla teoria evoluzionista di Darwin (con la sua focalizzazione sui rapporti, spesso difficili, tra organismo ed ambiente) e, sia pur in misura minore, dal pragmatismo (Mead), e dalla "psicologia dell'atto" della scuola austriaca di Brentano. Gli psicologi funzionalisti vedono i processi mentali, elementari o complessi, come strategie di cui l'organismo si serve per sopravvivere, come strumenti piu` o meno raffinati che gli consentono di non soccombere nei confronti - di un insieme' fisico e biologico il piu` delle volte ostile. "Il problema principale per la psicologia funzionalista - scrive Sadi Marhaba, autore di questa voce dell' enciclopedia Garzanti - non e` piu` quindi che cosa sono i processi mentali (come per la psicologia introspezionistica), bensi` a che cosa servono globalmente e come funzionano i processi mentali. Ogni condotta dell'organismo vivente e` pertanto un processo globale, il cui significato ultimo non va cercato negli elementi che lo compongono, bensi` nel rapporto adattivo con l'ambiente" (Ibid. pag.336). In linguistica il funzionalismo e` una metodologia che propone l'identificazione delle unita` linguistiche in base "alla loro funzione”, e cioe` in base al "principio 'di funzionalita`”. L'identificazione su base funzionale delle diverse unita` linguistiche avviene con l'impiego di tecniche precise, la. piu` importante delle quali e` la "prova di commutazione". Commutando (cioe` sostituendo) un segmento di significante con un altro si cerca di osservare se cio` comporta un mutamento anche di significato. Se cio` avviene vuol dire che il segmento sostituito era funzionale (o pertinente) (ibid. pag.337). In antropologia ed in sociologia il funzionalismo nasce dall'abbandono, in tali discipline, dei tentativi di spiegare le strutture sociali con la loro origine storica e nella loro particolarita` geografica ed epocale, a favore di un tentativo di comprendere le funzioni che tali strutture svolgono a favore della societa`, o parti di essa. Anche se sia Spencer che Conte hanno contribuito allo sviluppo del funzionalismo come "visione del mondo", uno dei primi contributi alla delineazione di una metodologia funzionalistica e` quello di E. Durkheim. Una delle sue regole metodologiche suona cosi`: "Quando ci si accinge a spiegare un fenomeno sociale, bisogna ricercare separatamente la causa efficiente che lo produce e la funzione cui esso assolve" (Durkheim, 1963, pag. 95). Per Durkheim infatti l'analisi funzionale non puo` esaurire il processo conoscitivo: "mostrare a che cosa un fatto sia utile non vuol dire spiegare ne` come esso sia nato, ne` come esso sia cio` che eÅL, poicheÅL gli impieghi ai quali serve suppongono si` le proprieta` specifiche che lo caratterizzano, ma non le creano" (Ibid. pag. 91). Per questo, secondo Durkheim, l'analisi funzionale, pur indispensabile per comprendere un fenomeno, e` insufficiente e va integrata con altri metodi di analisi. Ma altri sviluppi dell' analisi funzionale si hanno con le ricerche antropologiche di Radcliffe-Brown e di Malinowski, e con gli approfondimenti metodologici di Merton. Ma prima di vedere questi aspetti conviene cercare di chiarire meglio cosa si intende o si puo` intendere per funzione. 2. Alcuni chiarimenti semantici Sul concetto di funzione c'e` una notevole confusione,' sia percheÅL si usa questo termine per parlare di concetti diversi, sia percheÅL per parlare di questo stesso concetto si usano spesso parole diverse. Tra queste ultime Merton (Merton, pp.34-37) annovera come sinonimi di funzione, i termini' "uso", "utilita`", "scopo", "motivo", "intenzione", "fine", "conseguenze". Per superare questa confusione terminologica-concettuale Merton ritiene necessario distinguere tra categorie soggettive di disposizione (obiettivi, scopi, intenzione, fine, Ecc.) e categorie obiettive di conseguenze osservate. Ma per tornare ai diversi concetti del termine funzione, due sono quelli principali che hanno, o hanno avuto, un ruolo importante nella ricerca antropologica e sociologica. Il primo e` quello di funzione nel senso matematico. Funzione designa, in matematica, la relazione tra due o piu` valori in cui ogni variazione dell' uno provoca una variazione dell' altro o degli altri.. In questo senso, ad esempio, la maggiore o minore facilita` di accesso all'universita` dipende (e` funzione di) dall'estrazione sociale dei giovani, oppure nei termini di Durkheim, il suicidio varia in ragione inversa al grado di integrazione dei gruppi sociali di cui l'individuo fa parte. (Durkheim, 1972); intesa in questo senso l'analisi funzionale non sarebbe altro che il metodo scientifico tradizionale e sarebbe assimilabile a quello causale. Rudner, ad esempio vede l'analisi funzionale come parte della spiegazione teleologica (diretta ad uno scopo). In essa lo scopo futuro sarebbe successivo agli effetti. Egli (1968, pp.139 e segg.) ritiene che piuttosto che spiegare il meccanismo solo in termini funzionali, a partire dai suoi effetti successivi, e quindi futuri rispetto al meccanismo stesso, rischiando percio` di fare scambiare la causa con l'effetto, sia piu` opportuno renderne conto nei termini della motivazione presente letta come vera causa efficiente. Percio`, secondo questo Autore, la proposizione "Smith studia molto seriamente percheÅL vuole diplomarsi con onore", che vede la funzione dello studio (o scopo) il diplomarsi con onore, che porterebbe alla conclusione paradossale che eventi futuri (non esistenti) abbiano efficacia causale, andrebbe trasformata in questa forma: "L'attuale duro lavoro di Smith e` spiegato (o causato) dal suo desiderio (presente) di conseguire l'obiettivo di diplomarsi con onore" (ibid. p.14l). Attraverso procedure di questo tipo l'analisi funzionale si trasforma in quella causale, senza pretese, infondate, di aver trovato un metodo di analisi originale. "I risultati acquisiti fino ad oggi debbono mantenersi circoscritti unicamente - scrive R.- (per quel che concerne la. spiegazione) all'articolazione di qualche idea prescientifica o di qualche pia speranza circa il fatto che possa essere fornita, in ultima istanza, una spiegazione funzionale dell' elemento in questione (ibid. p. 175). Ed anche Brown (1963, p. 110) ritiene che i rapporti funzionali siano una sottospecie di quelli causali. La diversita` tra i due tipi di relazione - secondo Brown - e` quella che i rapporti funzionali hanno un senso solo tra tratti all'interno di uno specifico sistema di un certo tipo - autoperpetuantesi - mentre la classe di rapporti causali e` molto piu` larga. I rapporti funzionali per Brown sono relazioni causali che operano all'interno di sistemi auto-perpetuantesi. Anche Giesen e Schmid mettono in discussione la pretesa di un procedimento autonomo di spiegazione (funzionalista) in concorrenza con quello causale (p.239). Per provare l'assunto che sia valido logicamente inferire che "il referente funzionale sia temporalmente successivo alla presenza del requisito funzionale", essi propongono tre soluzioni: 1) la sostituibilita` strutturale. "La prova dell'insostituibilita` strutturale di una alternativa di questo genere continua pero` a rimanerci preclusa, qualora non si disponga, per parte nostra, di una conoscenza completa di tutte le alternative funzionali possibili (269); 2) gli enunciati statistici; e cioe` sulla base di generalizzazioni statistiche con un determinato grado di probabilita`. Secondo G. e S. in un modello esplicativo di questo genere "sarebbe vano ricercare specifiche caratteristiche funzionalistiche” (p. 251). La terza possibile soluzione proposta e` quella della teoria dell'autoregolazione. I sistemi autoregolativi consistono in elementi tra loro correlati che, quando mutano le condizioni ambientali possono creare o conservare i requisiti (funzionali) per l'osservanza di determinati valori normativi, e cioe` per il mantenimento di una situazione di equilibrio. Secondo G. e S. "la funzionalita` di un sistema equivale all'osservanza di determinati valori normativi, per effetto di un'autoregolazione nei confronti di condizioni ambientali mutevoli. In una parola: la funzionalita` e` l'equivalente dell'adattamento"(p.252). In genere, in queste situazioni, le relazioni funzionali sono, per la maggior parte, reciproche. A e` funzionale a B e B e` funzionale per A. Ma secondo i due studiosi i referenti funzionali non spiegano mai soltanto i loro requisiti. Per questo G. e S. concludono che "Un tentativo di spiegazione funzionalistica di un evento mediante le sue conseguenze qualora sia condotta in concorrenza col modello di spiegazione causale, e` destinato quasi sempre a fallire" (p.256). Ma secondo questi studiosi non per questo l'analisi funzionale e` inutile "al contrario: la ricerca comparativa degli equivalenti funzionali rientra, probabilmente, nel novero dei migliori procedimenti possibili per accrescere le nostre conoscenze delle relazioni macrosociologiche" (p.256). Secondo G. e S. tuttavia le teorie funzionalistiche dei sistemi possono spiegare non tanto l'esistenza di determinati equivalenti funzionali, quanto piuttosto la presenza di specifici referenti funzionali o di processi. Ma queste ultime tesi introducono di gia` al successivo significato di funzione, derivato invece dalla biologia. I progressi biologici hanno portato a distinguere tra gli organi e le funzioni, che sono l'insieme coordinato delle operazioni che questi organi effettuano per il mantenimento della vita. A ciascun sistema di organi corrisponde dunque una funzione che concorre all'equilibrio dell'organismo (Cot-Mounier, 1976, p.71). L'organismo, nella sua totalita`, puo` essere spiegato solo grazie agli apporti di diverse scienze, e puo` dirsi completo solo quando ad esso si aggiunga la conoscenza dei bisogni dell' organismo, giaccheÅL non si puo` comprendere chiaramente la funzione di un organo se non si sa a quali bisogni esso deve soddisfare."Si comprende - scrivono Cot e Mounier - come gli studi biologici abbiano potuto sedurre certi sociologi, i quali hanno incominciato a vedere nella societa` un insieme armonioso di individui. Come si studia la funzione del fegato per l'organismo, cosi` si puo`, in modo analogo, studiare la funzione della famiglia sotto il profilo del contributo che essa da` all'organizzazione, alla conservazione ed al funzionamento della societa`. Il funzionalismo, sia in campo sociologico che antropologico, trae origine da questo secondo concetto di funzione, e cioe` dall'idea della totalita` sociale intesa come un organismo nel cui ambito i suoi diversi elementi costitutivi svolgono un determinato ruolo" (ibid. pp. 71-72). Anche Durkheim e` stato molto influenzato da questa concezione. Egli vede il consorzio sociale non esaurirsi in una somma dei suoi membri individuali, ma rappresentare invece una totalita` sui generis che opera secondo regole e mediante forze sue proprie rispetto alla quale gli individui componenti sono parti organiche inseparabili dal tutto (Mori, 1975, p.136). Secondo Mori questa impostazione porta Durkheim a correggere il meccanicismo della spiegazione causale con il principio di reciprocita` tra causa ed effetto, riconoscendo al secondo la funzione di esercitare una reazione conservatrice e rafforzatrice della prima. La prima spiega i singoli fenomeni sociali ricercandone le cause in un complesso di fatti oggettivi, costituiti dalle forme associative tipiche della societa` in esame (l'ambiente sociale interno); la seconda considera la funzione che i singoli fenomeni sociali svolgono relativamente alla conservazione ed al consolidamento dell'ambiente sociale interno stesso (p.136). Conclude il suo commento Mori: "In tal modo Durkheim si precludeva la possibilita` di intendere ogni specie di trasformazione della societa`, e la spiegazione funzionale, subordinata a quella causale, assumeva un carattere essenzialmente statico" (ibid.). . Il primo ad utilizzare il metodo funzionale in antropologia, staccandolo pero` da quello causale, e` Radcliffe-Brown. Egli ritiene che la spiegazione di un fatto consista in una ricerca della funzione che esso svolge relativamente alla conservazione dell'unita` strutturale (sia sincronica che diacronica) della societa` a cui appartiene (1960) . Secondo Mori permane in R.B. il carattere statico del funzionalismo di Durkheim. Anche Malinowski utilizza un approccio funzionalistico per lo studio delle societa` primitive. "Il funzionalismo Malinowskiano - scrive Mori - e` il corollario di una interpretazione strumentale della cultura, intesa come un insieme di mezzi rivolti al soddisfacimento di un sistema di bisogni. Questi ultimi vengono distinti in bisogni primari o fondamentali, che hanno un'origine puramente fisica, e in bisogni derivati o culturali, che sono relativi alla fabbricazione, conservazione, trasmissione degli strumenti utili al soddisfacimento dei bisogni primari" (p.137). Percio` la spiegazione di un singolo fatto sociale e` riconducibile alla funzione da esso svolta nel soddisfacimento di un bisogno o fondamentale o derivato. La funzione per M. va riferita non alla totalita` del gruppo (come per R.B.), ma al singolo individuo visto come sede di bisogni primari. Questo permette al funzionalismo di M., dice Mori, "di essere alquanto piu` dinamico e aperto all'intelligenza delle trasformazioni sociali di quanto non lo fossero quelli di Durkheim e di Radcliffe-Brown" (p.137). 3. Il contributo di Merton alla codifica dell'analisi funzionale Ma vediamo come Turner sintetizza il contributo dei primi funzionalisti, prima di analizzare Merton (ma molte delle critiche, come avremo occasione di analizzare, valgono anche per questo ultimo autore). 1) Il mondo sociale era visto in termini sistematici. In gran maggioranza, tali sistemi erano considerati aver bisogni e requisiti che dovevano essere assolti per assicurare la sopravvivenza. . 2) Malgrado il loro interesse per l'evoluzione, i pensatori hanno teso a vedere i sistemi con bisogni e requisiti come aventi degli stati di normalita` o di patologia - connotando cosi` un equilibrio sistematico o/e l'omeostasi. 3) Visto come un sistema, il mondo sociale era visto come composto da parti mutualmente interdipendenti; l'analisi di queste parti interrelate ha messo a fuoco il come esse hanno assolto ai requisiti degli insiemi sistemici, e percio`, di come esse hanno mantenuto la normalita`, o l'equilibrio, del sistema. 4) Vedendo in modo tipico le parti interrelate in rapporto al mantenimento di un insieme sistemico, l'analisi causale e` diventata spesso vaga, cadendo in tautologie o teleologie illegittimate (Turner, pag.55). ' Merton parte da una analisi critica di tre postulati che sono stati utilizzati in antropologia culturale e che egli ritiene discutibili e non necessari. Questi sono: I) Il postulato dell'unita` funzionale della societa`. Questo emerge negli scritti sia di Radcliffe-Brown che di Malinowski. Nelle parole di Radcliffe-Brown "la funzione di una particolare usanza sociale e` il contributo che essa da` all'intera vita sociale intesa come funzionamento del sistema sociale totale. Tale visione implica che un sistema sociale (l'intera struttura sociale di una societa` insieme alla totalita` degli usi sociali in cui quella struttura si rileva e da cui dipende per continuare ad esistere) abbia un certo genere di unita` di cui noi possiamo parlare come di un'unita` funzionale" (Radcliffe-Brown, pag. 397). E il Malinowski: "... noi vediamo che ogni istituzione contribuisce da una parte all'opera di integrazione della comunita` come un tutto, ma soddisfa pure i bisogni fondamentali dell' individuo". Secondo Merton questo postulato e` falso percheÅL l'integrazione sociale varia di intensita` sia nel tempo che nello spazio. In particolare se l'integrazione puo` essere alta in societa` preletterarie e` in genere molto piu` bassa in quelle contemporanee. Il postulato dell'unita` funzionale percio`, secondo Merton, non solo non corrisponde alla realta` della nostra societa` ma puo` essere anche dannoso ai fini conoscitivi percheÅL distoglie l'attenzione da possibili disparate conseguenze di un fatto sociale o culturale (uso, opinione, comportamento, tipo, istituzione) per diversi gruppi sociali e per singoli membri di questi gruppi (Merton, p. 39 e segg.). Detto in altre parole non si puo` postulare, in linea di principio, l'unita` dell'intera societa`, prima di ogni osservazione concreta. In conclusione scrive Merton: "Non si puo` dare per scontata la piena integrazione di tutte le societa`, ma questa e` una questione empirica di fatto, in cui dobbiamo essere preparati a trovare una serie di gradi d'integrazione….Dall'esame critico di questo postulato siamo giunti ad affermare che una teoria di analisi funzionale deve richiedere una specificazione delle unita` sociali sostenute da date funzioni sociali; inoltre che si deve riconoscere che gli elementi di una cultura hanno molteplici conseguenze, alcune di esse funzionali e altre non funzionali" (Ibid.,pp.52-53). II) Il postulato del funzionalismo universale. Secondo questo postulato tutti gli elementi sociali o culturali standardizzati assolvono funzioni positive. Cosi` esprime Malinowski questo concetto: "La visione funzionalista della cultura insiste, percio`, sopra il principio per cui in ogni tipo di civilta`, ogni costume, oggetto materiale, idea ed opinione adempiono una qualche funzione vitale" (Malinowski,1926, pag. 1.32). Secondo Merton tale postulato e` storicamente comprensibile per il desiderio degli antropologi culturali di contrapporsi al pensiero evoluzionista che vedeva la societa` come un insieme di sopravvivenze a cui si doveva risalire per ricostruire le tappe dello sviluppo. E questo portava a trascurare l'analisi della societa` studiata e delle interrelazioni tra i vari aspetti di questa. Ma questa spiegazione, secondo Merton, distrae l'attenzione da una serie di conseguenze non funzionali, teoricamente e praticamente importanti, delle forme culturali esistenti e ad interpretare come funzionalmente necessari aspetti secondari (ad esempio i bottoni delle maniche degli abiti maschili europei) che sono una semplice sopravvivenza di una tradizione. Scrive Merton: "Dall'esame del secondo postulato sul funzionalismo universale...e` risultato non solo che noi dobbiamo essere preparati a trovare conseguenze non funzionali, oltrecheÅL funzionali di queste forme, ma anche, che il teorico alla fine dovra` fare i conti con il difficile problema di sviluppare un sistema per stabilire una netta valutazione delle conseguenze, se la sua ricerca deve avere una portata sulla tecnica sociale" (ibid. p.53). III) Il postulato dell'indispensabilita`. Anche questo postulato e` sostenuto, tra gli altri, dal Malinowski: "In ogni tipo di civilta`, ogni costume, oggetto materiale, idea od opinione, adempie una funzione vitale, ha qualche compito da realizzare, rappresenta una parte indispensabile in un tutto operante (ibid., pag.132, sottolineatura di Merton). Secondo Merton questo postulato e` il piu` ambiguo tra tutti percheÅL non chiarisce se sia indispensabile la funzione o l'elemento che adempie la funzione o entrambi. Esso contiene due asserzioni distinte: A) Alcune funzioni sono indispensabili e la loro soppressione comporterebbe la fine della societa`. In altre parole esse sarebbero delle precondizioni funzionalmente necessarie per una data societa`. B) Alcune forme sociali e culturali sarebbero necessarie all'adempimento di ciascuna di queste funzioni, esisterebbero cioe` strutture specializzate e insostituibili. A queste due asserzioni Merton contrappone, come fondamentale per l'analisi funzionale, il seguente teorema: "Proprio come lo stesso elemento puo` avere molteplici funzioni, cosi` la stessa funzione puo` essere variamente adempiuta da diversi elementi" (Merton, 1966, p.49), e questo sottolinea il concetto fondamentale di alternative funzionali. Ma Merton non si limita a criticare i postulati del funzionalismo classico ma introduce due nuovi concetti: la funzione manifesta e la funzione latente. Questa distinzione tende a evitare di confondere tra di loro le motivazioni coscienti di un comportamento sociale, e le sue conseguenze oggettive. Per funzioni manifeste si intendono le conseguenze oggettive che contribuiscono a favorire, in piena coscienza, l'adattamento di un'unita` determinata; mentre per funzioni latenti si intendono conseguenze del medesimo tipo, solo involontarie ed inconsce. Gli scopi principali della distinzione sono molteplici: 1) Chiarisce l'analisi dei modelli di comportamento apparentemente irrazionali. Ad esempio gli indiani Hopi organizzano cerimonie per propiziare la pioggia (funzione manifesta). Ma queste hanno anche una funzione latente di rafforzare la coesione del gruppo offrendo ai suoi membri, disseminati in un vasto territorio, l'occasione di riunirsi periodicamente. . 2) Essa dirige l'attenzione dello studioso su campi di indagine teoreticamente fruttuosi. Questo perchè il concetto porta a studiare aspetti in genere trascurati e che sono invece quelli potenzialmente piu` ricchi per possibili scoperte. Merton cita le ricerche sulla Western Electric (Hawthorne) che hanno fatto un passo avanti notevolissimo quando si e` passati dall'analisi dei fattori manifesti (come ad esempio l'influenza sulla produttivita` della intensita` della illuminazione) a quelli latenti. Come, ad esempio, la riscoperta dell' importanza dei gruppi primari informali che si trovano nelle organizzazioni industriali. 3) Essa impedisce la sostituzione di giudizi morali alla analisi sociologica. L'esempio di Merton e` quello della macchina politica americana che avremo occasione di analizzare in seguito. Cot e Mounier citano anche l'analisi del consumo vistoso fatta da Veblen che permette di capire come la funzione manifesta di un acquisto di beni di consumo per la soddisfazione dei bisogni (es: automobile) specie in rapporto al tipo, sia in realta` spesso secondaria ad un'altra funzione (latente) di dimostrare la nostra potenza pecuniaria e quindi l'acquisizione ed il mantenimento del prestigio, e cioe`, in complesso, quello di elevare o confermare il proprio status sociale (op. cit. p. 83). Questo, notano gli Autori, permette di arricchire notevolmente la nostra conoscenza sociologica rivelando dei veri e propri paradossi fra funzione apparente, sulla quale spesso si e` incentrato un discorso ideologico o morale, e la funzione reale apparente. Ma vediamo meglio, con l'aiuto di Turner (Turner,1986, pp. 94Å 99) il protocollo metodologico dell'analisi funzionale proposto da Merton. Essa si svolge attraverso cinque principali fasi: 1) Essa inizia con una pura e semplice descrizione delle attivita` individuali e di gruppo, descrizioni che dovrebbero rendere possibile individuare gli items, o aspetti particolari, sociali da sottoporre ad analisi funzionale. 2) La seconda fase prevede l'indicazione delle alternative principali escluse dalla dominanza di quel particolare modello. Queste servono ad individuare il contesto strutturale in cui sono emersi inizialmente, e poi mantenuti, i modelli osservati, ed offrono altre chiavi per comprendere le funzioni e le conseguenze del particolare aspetto in analisi rispetto ad altri, o rispetto al sistema nel suo complesso. 3) La terza fase prevede il fare una valutazione del significato, mentale o emotivo, di quella attivita` per i membri di gruppo. Questo puo` offrire qualche indicazione dei motivi che sono dietro le attivita` degli individui coinvolti e percio` gettare dei lumi sulle funzioni manifeste dell'attivita`. 4) Distinguere l'insieme dei motivi per il conformismo o la devianza tra i partecipanti, che pero` non devono essere confusi ne` con la descrizione oggettiva del modello, ne` con la successiva valutazione delle funzioni assolte da esso, ma la comprensione della configurazione di motivi per il conformismo o la devianza, ed una valutazione dei bisogni psicologici assolti (o non assolti) dal modello, possono essere delle chiavi addizionali per la comprensione delle varie funzioni del modello allo studio. 5) L' ultimo gradino analitico prevede la descrizione di come i modelli investigati rivelino regolarita` non riconosciute dai partecipanti ma che appaiono aver conseguenze sia per gli individui coinvolti, sia per altri modelli centrali, o per altre regolarita` nel sistema. Questo permette di individuare le funzioni latenti di quel modello. Ma vediamo come Turner esprime graficamente questo protocollo. Torneremo nel paragrafo finale sulle critiche di tautologia e teleologia qui accennate, cercando di fare anche noi un "bilancio netto", (nei termini di Merton) dell'analisi funzionale, dopo aver pero` visto altri contributi teorici, ed alcune ricerche empiriche che hanno utilizzato questo metodo. 4. Altri contributi teorici al metodo 4.1. R. Boudon L'analisi funzionale e` quella forma di analisi che riguarda "i sistemi d'interazione che assumono la forma di sistemi di ruoli". Ma secondo questo autore l'analisi funzionale va chiaramente distinta dal "funzionalismo", o nella terminologia di Bourricaux, dall' iperfunzionalismo. Si passa dall'analisi funzionale al funzionalismo quando si introduce il postulato secondo il quale ogni sistema d'interazione e` un sistema di ruoli. In realta`, dice Boudon, si puo` parlare di ruoli solo quando ci si trovi dinanzi ad un contesto in cui tra gli attori ci sia una forma anche minima di organizzazione. Ma non tutta l'interazione avviene in un contesto del genere. Se i comportamenti sono tutti ricondotti all'esecuzione dei ruoli ed al compimento di specifiche funzioni, la societa` diventa semplicemente una totalita` non solo organizzata ma anche organica. Secondo Boudon le societa` devono essere considerate come grovigli complessi di sistemi d'interazione. Alcuni di questi sistemi sono classificabili sotto l'etichetta idealtipica di "sistemi funzionali " ed altri sotto quella di "sistemi di interdipendenza" (p. 76). Questo comporta il carattere aperto dei ruoli: essi sono spesso compositi, hanno una varianza, e quando si accumulano sullo stesso individuo, comportano delle incompatibilita`. "Questa apertura - scrive Boudon - assicura al soggetto sociale un margine di autonomia cosi` reale da esporre al ridicolo un sociologo che volesse trascurarlo " (1979, p. 77). Da qui, le giuste critiche di D. Wrong (1967) al funzionalismo, quelle cioe` di fornire un'immagine ultra-socializzata dell'uomo, e cioe` che i funzionalisti difendono il postulato secondo il quale il soggetto sociale tenderebbe ad interpretare in modo esageratamente conformista il proprio ruolo, e dall'altra che dimenticano invece che in molte situazioni in cui e` in gioco una scelta, una decisione, o un'azione, lo stesso concetto di conformismo e` poco pertinente. Compiendo una scelta o un' altra in campo politico o scolastico, o prendendo una decisione che riguarda i consumi o gli investimenti, io non agisco come titolare di un ruolo sociale, seguendo le sue regole, ma faccio scelte, decisioni, o azioni private, sottratte, per la stessa organizzazione sociale, al dominio delle norme. Scrive Boudon: "Se vogliamo quindi sintetizzare le varie distinzioni, possiamo dire che si passa dall'analisi funzionale alle forme contestabili di funzionalismo quando si commette una di queste due imprudenze: la prima consiste nel dimenticare che i ruoli sono generalmente compositi, ambigui, contraddittori, dotati di una varianza, che assicura una certa autonomia all'attore sociale. La seconda consiste nel trascurare il fatto che molti tipi di scelta, di azione o di decisione hanno - per la stessa organizzazione sociale un carattere privato, e non possono quindi essere analizzate come interpretazioni di ruolo fornite dagli attori" (Ibid., p. 77). Invece l' iperfunzionalismo fa tabula rasa dell' autonomia del soggetto sociale, alla quale l'analisi funzionale assegna invece un' importanza essenziale. Percio`, conclude B, "quando ogni azione viene concepita come l'interpretazione di un ruolo, e quando si abbandona il postulato secondo il quale la quasi totalita` dei sistemi funzionali lasciano all'attore sociale un certo margine di autonomia, i concetti stessi di azione, di decisione e di scelta vengono, d'un sol colpo, privati di ogni significato, anche se i termini che li designano continuano ad essere usati" (Ibid. ,p. 78). 4.2. M. Lessnoff Secondo L. il funzionalismo nelle scienze sociali si fonda sull'analogia con la biologia, la scienza degli organismi. Questi sono sistemi viventi. "In quanto sistemi, essi sono insiemi costituiti di parti tra loro interrelate; in quanto sistemi viventi, essi manifestano certe attivita` caratteristiche dell'organismo come insieme, e certi processi fisiologici svolti dalle sue parti. Queste attivita` e questi processi mettono l'organismo in grado di persistere come unita` nel tempo….Gli organismi sono sistemi che si auto-mantengono (pp. 166-167). Nell'auto-mantenimento dei sistemi viventi una parte importante e` svolta dal fenomeno dell'omeostasi (es = sistema di mantenimento della temperatura nei mammiferi - traspirazione e tremore) . Un'altra importante caratteristica dei sistemi viventi (organismi) e` la loro natura integrata. I vari processi e le attivita` necessarie per la sopravvivenza non si svolgono in isolamento reciproco, ma sono coordinati tra di loro, in modo da poter interagire per svolgere le diverse funzioni (sono correlate funzionalmente l'una con l'altra). Tra le parti di un organismo e i processi che esse svolgono esiste un rapporto di dipendenza e sostegno reciproco. L. si pone poi il problema di vedere le somiglianze e le differenze tra organismi biologici e societa` per vedere fino a che punto questi concetti possano essere utili e validi anche nelle scienze sociali. Le principali differenze, secondo L., sono due: 1). la prima e` quella che per gli organismi in genere, la morte e` inevitabile, mentre il suo equivalente, e cioe` la fine dell'esistenza di una societa` e` relativamente rara; 2) la seconda e` quella che mentre per gli organismi biologici maturi qualsiasi mutamento significa morte, o almeno, ridotte capacita` di vita, (l'unico mutamento possibile e` la perdita), le societa` possono, pur mantenendo piu` o meno la propria identita`, mutare largamente nel tempo la loro struttura. Una societa` puo` sopravvivere pur diventando un tipo di societa` completamente differente. Ma queste differenze, secondo L., non impediscono l'applicazione del metodo funzionale. Ad esempio, pur essendo la morte di una societa` relativamente rara, si possono elencare le condizioni necessarie alla vitalita` della societa`, ed identificare il contributo delle varie attivita` sociali alla realizzazione di tali condizioni. Questo tipo di funzionalismo, che richiama l'operazione di solito chiamata come "analisi dei requisiti", per Lesnoff apre la strada a quello che egli definisce il funzionalismo della sopravvivenza della societa`. La seconda differenza invece mette al centro dell' analisi la necessita` di distinguere tra cio` che e` necessario per conservare il sistema nella sua forma esistente e cio` che e` necessario percheÅL il sistema sopravviva in una forma qualsiasi. Questa distinzione pone al centro la differenza tra contribuire alla vitalita` della societa`, o al conservare un tipo particolare di sistema sociale. Questo secondo tipo di funzionalismo implica una relazione di adattamento reciproco tra gli elementi del sistema, e cioe` istituzioni in relazione funzionale tra di loro, ed apre la strada ad un tipo completamente di verso di analisi che Lessnoff chiama funzionalismo delle relazioni tra istituzioni. Secondo Lessnoff i due tipi di funzionalismo possono essere non solo distinti ma separati. Pratiche sociali coesistenti possono essere interdipendenti e sostenersi reciprocamente, senza servire in alcun modo a soddisfare i requisiti della sopravvivenza della societa`, in tal senso possono addirittura essere disfunzionali (come esempio di un fenomeno del genere egli cita il principio di cumulazione di G. Myrdal). . . 4.3. Tullio Altan Egli parte dall' analisi e dalla critica. di quelli che lui definisce funzionalisti organici che studiano i fenomeni di funzionamento di una struttura o di un insieme di strutture; ad essi egli contrappone il suo funzionalismo critico che studia invece i fenomeni di funzionalita`. La distinzione tra questi due concetti e` il punto di partenza di tutto il suo discorso, ed egli la illustra ricorrendo all'esempio del terzo Reich: "Prendiamo il caso di un certo sistema socio-politico, il terzo Reich nazista, e una delle sue strutture fondamentali, la gestapo, la polizia segreta di stato, e cerchiamo di darne una interpretazione in chiave funzionalistica. Per quanto riguarda la Gestapo la conclusione in termini di funzionalismo organico e` semplice. Questo istituto ha notevolmente contribuito ad assicurare il funzionamento dell'intero sistema ed a mantenerlo in essere, e deve quindi essere considerato funzionale nel suo ambito. Il Terzo Reich, grazie a questo istituto puo` quindi essere giudicato come un sistema funzionante. Ma possiamo dirlo anche funzionale?" (1965, p. 10). Ed egli conclude l'esempio facendo notare come il Terzo Reich non fu certamente funzionale per i tedeschi che esprimevano esigenze contraddittorie a quel sistema e che erano invece in armonia con i valori della parte piu` avanzata della societa` occidentale di quel tempo. D'altra parte, posto tale sistema in relazione con la situazione ed i problemi del mondo occidentale tra le due grandi guerre "non solo non ci appare come un organismo funzionale, in quanto del tutto incapace di risolvere i problemi, ma anzi lo potremmo a buon diritto considerare come un fenomeno di disfunzione socioculturale" (Ibid.). In altre parole funzionamento si riferisce al modo di essere della vita sociale, considerata come un tutto organizzato, al cui funzionamento anche la parte contribuisce; funzionalita` puo` essere riferita sia alle singole parti che contribuiscono al suo funzionamento, sia al tutto, ed in tal caso si riferisce ad un carattere distintivo di tale entita` rispetto ad altre. Il grosso problema, secondo Tullio-Altan, e` appunto quest'ultimo. "Se la funzionalita` della parte e` chiaramente legata al funzionamento del "tutto", in relazione a che cosa puo` essere invece misurata la funzionalita` del tutto?" (Op.cit. p.7). Ed egli, analizzata la risposta data a questo problema da quelli che egli definisce funzionalisti organicistici, risponde che il punto di riferimento preso da loro per valutare funzionalmente le strutture, e` sempre il sistema, inteso sia nella totalita` che in un settore al suo interno; esso percio` non viene posto in discussione ne` verificato nella sua funzionalita`, mancando un punto di riferimento che possa servire come misura. La proposta di Tullio-Altan per superare questo stato di cose e` invece quella di ritirare fuori, sviluppandolo, un punto di riferimento che era gia` presente nei primi antropologi culturali e che era stato trascurato invece dai contributi successivi, compreso quello del Merton, e cioe` "il polo di riferimento costituito dalla condizione umana e dai suoi necessari problemi di vita" (Op. cit. p. 9 ) . "In altri termini, la misura della funzionalita` integrale si deve ricercare nel rapporto fra le concrete aspirazioni dei membri di un gruppo umano (aspirazioni che possono anche non essersi chiaramente definite e verbalizzate) e la capacita` delle strutture del sistema socio-culturale in atto a soddisfarle. Questo rapporto deve essere quindi colto in una prospettiva che abbracci sia le aspirazioni soggettive come pure le oggettive condizioni del loro possibile soddisfacimento, deve esser colto cioe` in un campo di forze nel quale le aspirazioni dei singoli conferiscono una valenza positiva o negativa alle strutture destinate a soddisfarle" (Op.cit.p.13). . Secondo T.A. lo studio di questa funzionalita` integrale e` possibile, da una parte attraverso l'uso di tecniche psico-sociologiche che ci permettono di misurare la rispondenza del sistema alle aspirazioni delle persone che ne fanno parte, dall'altra dall'inserimento, in questo tipo di analisi, anche della prospettiva storica che ci permette di chiarire la situazione che ha portato all' esistenza di certi determinati problemi. La conclusione di Tullio-Altan e` percio` questa: "Secondo il primo di questi due modelli (funzionalismo organico) la funzione di una struttura o comportamento codificato si misura dalla sua capacita` a contribuire al funzionamento dell'insieme socio-culturale, organizzato in maniera piu` o meno organica ed integrata; in base al secondo modello invece (funzionalismo critico) la funzione di una struttura o di un insieme organizzato di strutture si misura dalla loro capacita` ad aiutare gli uomini a risolvere i problemi tipici della situazione in cui vivono. Nel primo caso il termine di riferimento e` la totalita` del sistema, nel secondo e` la situazione problematica nella quale il sistema opera, che ci fornisce la misura della funzionalita` del sistema stesso e delle sue parti. Entrambi questi modelli sono validi nella ricerca antropologica, quello del funzionalismo organico per descrivere fenomeni umani di tipo statico, il funzionalismo critico per cogliere l'origine e la dinamica dei processi di trasformazione delle strutture" (0p.cit., p.19). 4.4. J. Galtung Galtung (1977b) distingue tra diverse concezioni del funzionalismo: 1) funzionalismo conservatore; 2) funzionalismo liberale; 3) funzionalismo radicale. I rispettivi assiomi sono questi: I) Gli assiomi del funzionalismo conservatore. l) Gli elementi sociali sono interdipendenti: cambiamenti in uno di loro sono generalmente accompagnati da cambiamenti in altri. 2) Il cambiamento sociale puo` essere interpretato come mosse per realizzare certi elementi chiamati funzioni. 3) Queste funzioni sono universali, e se non si realizzano all' interno di un certo livello, la societa` cessa di esistere (si disintegra) . 4) Le funzioni non sono valori, ma sono, quando realizzati, costruiti nella societa` come equilibrio stabile (nature's pointer) . 5) Le funzioni si realizzano non come risultato di un azione pianificata, ma come risultato di processi automatici di una societa` sana. 6) Il rapporto tra strutture e funzioni e` uno-ad-uno, nel senso che per ogni funzione c'e` in quella societa` una struttura che soddisfa quella particolare funzione, e nel senso che ogni struttura ha una funzione. 7) E' normale che le strutture siano positivamente funzionali (eu-funzionali) . II) Gli assiomi del funzionalismo liberale. 1) Gli elementi sociali sono interdipendenti; cambiamenti in uno di loro sono generalmente accompagnati da cambiamenti in altri. 2) Il cambiamento sociale puo` essere interpretato come mosse per realizzare certi elementi chiamati funzioni. 3) Queste funzioni sono universali ; e se non si realizzano all' interno di un certo livello, la societa` cessa di esistere (si disintegra) . 4) Le funzioni non sono valori, ma costruite in una societa` come equilibrio stabile (nature's pointer). Ma ci sono anche livelli di liberta` che rendono questo equilibrio stabile dinamico piuttosto che statico. 5) Le funzioni si realizzano, in parte come risultato di azione pianificata (funzioni manifeste), ed in parte come risultato di processi automatici (funzioni latenti). 6) Il rapporto tra strutture e funzioni e` molti-ad-uno, nel senso che ogni funzione definisce una classe di equivalenti funzionali piu` o meno sostituibili che soddisfano quella particolare funzione. 7) Le strutture sono in parte positivamente funzionali (eufunzionali), in parte irrilevanti (nonfunzionali) ed in parte negativamente funzionali (disfunzionali) III) Gli assiorni del funzionalismo radicale. 1) Gli elementi sociali sono interdipendenti. 2) il cambiamento sociale puo` essere interpretato come mosse per realizzare funzioni. 3) Non vi e` alcuna funzione universale. 4) le funzioni sono valori. 5)) Le funzioni si realizzano tipicamente come il risultato di azione pianificata. 6) Il rapporto tra strutture e funzione e` di molti-a-molti, nel senso che ogni funzione definisce una classe di equivalenti funzionali piu` o meno sostituibili che soddisfino quella particolare struttura. 7) E' normale che.. le strutture siano negativamente funzionali (disfunzionali) . Concludendo Galtung sostiene: "Ho cercato didimostrare che questa prospettiva (il funzionalismo radicale) non e` statica come il funzionalismo conservatore, e molto piu` dinamica di quanto abbia mai tentato di essere il funzionalismo liberale. In opposizione a quest'ultimo e` dinamico al di fuori di paradigrni, percheÅL non presuppone che i cambiamenti siano limitati ad un paradigma definito da un dato insieme di funzioni. La caratteristica del funzionalismo liberale era precisamente questo, mentre il presente paradigma tratta le funzioni come modificabili, rigettabili e sostituibili - anche come del tutto rigettabili. Un esempio tipico del significato di questa prospettiva e` data dai molti suggerimenti liberali in rapporto al problema della corsa agli armamenti: sostituirla con qualche altra corsa che soddisfi la maggior parte delle altre funzioni, ma che non abbia le conseguenze disastrose della corsa al riarmo (un suggerimento e` la corsa allo spazio). Ma altre funzioni potrebbero essere quelle del "mantenimento della capacita` industriale", del "mantenimento della nazione, o dello stato, come fattore principale negli affari internazionali", "la competizione" e cosi` via. Con il funzionalismo radicale tutte queste verrebbero messe in discussione, e verrebbero suggeriti sistemi alternativi, con altre funzioni. Il funzionalismo radicale va anche piu` in la`, mettendo anche in discussione l'intera idea di riferirsi ad una "societa`, vedendola come un particolare tipo di sistema sociale in una certa fase della storia umana, e di rilevanza decrescente per la comprensione sociale. L'idea di. "autosufficienza", cosi` basilare per il concetto di societa` - sia a livello biologico (riproduzione), economico (produzione), o culturale (significato, identita`) - e` importante solo in un mondo meno interconnesso e interdipendente. Nel mondo di oggi non e` l'auto-sufficienza, o la sopravvivenza di una data societa` che ha significato, ma la sopravvivenza dell'intera razza umana; e la domanda base e` quella in quali condizioni il mondo, la societa` globale totale, e` auto-sufficiente. Per questa ragione l'analisi di base dovrebbe essere fatta a livello del mondo intero, visto come un sistema sociale e come l'abitato ecologico dell'umanita`. In conclusione ecco una breve lista di quelle che Galtung ritiene le principali innovazioni di questa prospettiva: 1) Le strutture e le funzioni sono trattate senza tener conto del loro diverso peso: qualche funzione puo` avere un carattere del sine qua non, e qualche struttura puo` essere necessaria per tali funzioni. . 2) Anche le contraddizioni sono trattate, di conseguenza, senza tener conto del loro diverso peso: alcune possono essere molto piu` cruciali di altre. 3) Nessun metodo e` stato inventato per tracciare la totalita` degli effetti diretti ed indiretti, di una data struttura o funzione. “Se questi ed altri problemi,- scrive Galtung - fossero trattati adeguatamente questo ci permetterebbe forse di sviluppare un tipo di ragionamento che sottosta` a tutto quanto abbiamo detto: piu` un sistema e` integrato strettamente (nel senso definito), piu` vulnerabile esso sara` percheÅL le contraddizioni si trasmetteranno e si riverberanno di piu` attraverso il sistema. Se i sistemi meno interconnessi (i sistemi con molti zero) hanno la piu` forte protezione contro il crollo totale, questo e` dovuto alla loro maggiore capacita` di assorbimento. In breve: nella forza c'e` la debolezza e nella debolezza la forza (ibid., pp. 158-159) 5. Alcuni esempi di ricerche svolti con questo metodo. 5.1 Alcune funzioni. della macchina politica americana (Merton) Uno degli. esempi piu` noti di analisi funzionale e` quello della macchina politica americana presentata da Merton. Ecco come Boudon sintetizza tale analisi. La. dimostrazione di Merton e` all'incirca la seguente: 1) Le istituzioni politiche americane sono caratterizzate da una grande dispersione del potere politico: ogni carica pubblica e` strettamente limitata sia per quanto riguarda le attribuzioni che essa implica, sia per quanto riguarda il periodo durante il quale essa viene ricoperta. Inoltre l'azione del potere centrale e` strettamente limitata dalle prerogative dei poteri locali. 2) Da questa situazione derivano certe disfunzioni. Cosi` la dispersione del potere politico fa si che sia difficile per una grande societa` ferroviaria o elettrica di ottenere dall' amministrazione le decisioni che consentano di dirigere bene questa o quella impresa. 3) Le disfunzioni che derivano dalla dispersione del potere politico ufficiale vengono eliminate grazie al potere occulto e centralizzato di cui dispone la "macchina politica". Per sua stessa natura la macchina politica e` del resto portata a svolgere altre funzioni ed assicurare altri servizi nella societa`. Il suo potere le permette, come dicevamo, di organizzare a livello locale dei servizi di assistenza sociale o di consulenza giuridica per le classi piu` svantaggiate. Questi servizi le assicurano una clientela elettorale nello stesso tempo in cui svolgono una funzione sociale. Anche se esistono naturalmente dei servizi di assistenza sociale ufficiali, essi si trovano in una situazione di inferiorita` poicheÅL appaiono come degli organismi burocratici ai quali e` umiliante rivolgersi. Nei loro rapporti con i servizi sociali forniti dalla "macchina politica" i beneficiari hanno, al contrario, l' impressione di essere messi su di un piano di parita` poicheÅL si possono sdebitare del servizio ricevuto con un atto di fedelta` (il voto). La "macchina" serve anche ad organizzare e mantenere sotto controllo attivita` economiche che derivano dalle strutture sociali come la prostituzione o il furto, e che essendo illegali, non possono evidentemente essere inserite in un quadro ufficiale. Il ragionamento di Merton consiste, dunque, nel dimostrare che la struttura politica ufficiale porta a certe disfunzioni, che queste disfunzioni sono eliminate dall'esistenza di una struttura paraufficiale informale, e che quest'ultima svolge un certo numero di funzioni in relazione a certi sottogruppi sociali (Boudon, 1970, pp.99-100). Ma vediamo le indicazioni metodologiche che Merton da` sulla base di questo stesso caso. “Per comprendere la funzione del "capo" (boss) o della "macchina" e` necessario tener presenti due variabili sociologiche: 1) il contesto strutturale, che rende difficile, se non impossibile, l' adempimento di funzioni sociali essenziali da parte di strutture approvate moralmente, lasciando cosi` aperta la porta alle "macchine" politiche (o ai loro equivalenti strutturali) per adempiere a queste funzioni; o 2) i sottogruppi, i cui distinti bisogni sono lasciati insoddisfatti, ad eccezione delle funzioni latenti che la "macchina" adempie di fatto". 1) Il contesto strutturale: l'organizzazione politica nord-americana e` caratterizzata dalla mancanza di un potere centrale forte e dalla divisione del potere in "sparsi frammenti" per evitare che la liberta` sia minacciata. Questo pero` ha portato, secondo il Merton, che si rifa` a vari Autori, ad una carenza del potere legale: "quando la pubblica opinione o gruppi particolari di essa, richiedeva un'azione positiva nessuno aveva l'autorita` adeguata per agire". Dato che cosi` la democrazia veniva imbrigliata e resa inefficace dalla legge sorgeva il bisogno di una struttura che riuscisse a superare questo difetto e svolgere la funzione di centralizzare il potere politico per "soddisfare le necessita` dei diversi tipi sottogruppi della comunita`; le quali non sono sufficientemente soddisfatte dalle strutture sociali conformi alle leggi ed alla cultura", In altre 'parole secondo il Merton: "le deficienze funzionali della struttura sociale generano una struttura alternativa non ufficiale per soddisfare in qualche modo piu` effettivo le necessita` esistenti", 2) Funzioni della macchina politica per diversi sottogruppi: un primo sottogruppo e` quello formato dalle classi diseredate raggiunte dalla macchina politica proprio nei quartieri e nella comunita` dove esse vivono. "Con un'acuta intuizione sociologica la "macchina" riconosce che il votante e` in primo luogo un uomo che vive in un determinato quartiere, con specifici problemi personali e personali necessita`. I fini pubblici sono astratti e remoti; i problemi privati sono estremamente concreti ed immediati. Non e` attraverso un appello generale ai grandi problemi pubblici che la "macchina" opera, ma mediante le dirette e semi feudali relazioni fra le rappresentanze locali della "macchina" e i votanti nei quartieri". Il capo della sezione politica svolge, utilizzando i favori del boss e i legami politici, una intensa opera assistenziale (occupazioni, consigli legali, borse di studio, ricoveri in istituto o in colonie, ecc.) per le persone nel bisogno che vivono nel quartiere attraverso un metodo informale che contrasta con quello formalizzato e spesso burocratico degli Enti Assistenziali. La "macchina" assolve cioe` alla "funzione sociale di umanizzare e personalizzare tutte le forme di assistenza...in contrasto con l'Assistente dell'Ente di beneficenza che cosi` spesso viene da una classe sociale diversa, con una diversa educazione e da un gruppo etnico diverso, la gente della sezione e` "proprio uno di noi" e capisce tutto. La condiscendente e generosa signora puo` difficilmente competere con l'amico comprensivo nel bisogno". Un secondo sottogruppo e` quello dei piccoli e grandi "affari" per i quali il boss adempie la funzione di provvedere quei privilegi politici che implicano immediati guadagni economici, aiutandoli anche a coordinarsi ed evitare il caos della concorrenza incontrollata. "Le imprese affaristiche, fra cui le organizzazioni dei servizi pubblici (ferrovie, compagnie locali di trasporto, societa` di comunicazioni, luce elettrica) si distinguono particolarmente in questo campo, cercando speciali favori "politici per cui possano stabilizzare la loro situazione e avvicinarsi al loro obiettivo dei massimi profitti". Come dice un autore citato dal Merton "voi non potete costruire o far funzionare una ferrovia, una linea di autotrasporti, una societa` del gas, dell'acqua, o dell'elettricita`.. ...senza corrompere o entrare nel gioco di corruzione del governo". Questo porta percio` il Merton a concludere: "Dal momento che la ricerca di privilegi speciali trova il suo posto nella struttura della societa`, il boss adempie diverse funzioni anche per questo sottogruppo degli uomini d'affari in cerca di privilegi". . Un'altra particolare funzione della macchina politica per sottogruppi speciali "e` quella di fornire dei canali di mobilita` sociale per coloro che altrimenti sarebbero esclusi dalle vie piu` comuni dell' ''avanzamento'' personale...Come e` ben noto, la cultura americana da` un enorme importanza al denaro e al potere, come mete legittime per tutti i membri della societa`. . . tuttavia, certi sottogruppi e certe zone ecologiche si distinguono per una relativa impossibilita` a raggiungere questi tipi di successo. Essi costituiscono in breve delle minoranze da cui l'importanza culturale del successo pecuniario e` stata assorbita, ma che hanno scarso accesso ai mezzi convenzionali e legittimi per ottenere questo successo. Le possibilita` professionali per le persone che si trovano in tali zone sono quasi completamente limitate al lavoro manuale. “Dato che la nostra cultura stigmatizza il lavoro manuale mentre attribuisce un notevole prestigio al lavoro dell'impiegato, si spiega la tendenza a raggiungere questi obiettivi culturalmente approvati attraverso qualsiasi mezzo possibile. In questo contesto strutturale la macchina politica adempie la funzione di dare la possibilita` di elevarsi socialmente a questi gruppi che altrimenti non riuscirebbero”. Come dice un sociologo che ha studiato a fondo un quartiere povero di. immigrati "la politica. ed i "rackets" hanno fornito un mezzo importante di mobilita` sociale agli individui, che, a causa della base etnica e della bassa condizione di classe non possono avanzare lungo i canali "rispettabili". Un altro sottogruppo speciale per il quale la macchina politica assolve una funzione e` quello del "racket" o del "vizio" in modo analogo a quello degli affari citati in precedenza: "la funzione particolare della macchina. politica per la clientela criminale del vizio e del "racket" consiste nel.dare a costoro la possibilita` di operare per soddisfare le domande economiche di. un grande mercato senza la dovuta interferenza da parte del governo". In conclusione, in base a quanto detto, Merton fa notare come la macchina politica "adempie per questi sottogruppi alcune funzioni che non sono adeguatamente adempiute dalle strutture culturalmente approvate o piu` comuni". . Da questa analisi ne derivano alcune conseguenze: a) per una reale "azione sociale" e cioe` un intervento che superi realmente questo stato di cose e` necessario tener presente quanto su esposto. "Qualsiasi tentativo per eliminare una struttura sociale esistente, senza fornire altre strutture che possano adempiere le funzioni precedentemente adempiute dalla organizzazione abolita, e` destinato al fallimento...Cercare un mutamento sociale. senza il dovuto riconoscimento delle funzioni manifeste o latenti adempiute dall'organizzazione sociale che subisce il mutamento e` cadere in soluzioni utopistiche piuttosto che impegnarsi in una concreta attivita` sociale"... . Questo tende naturalmente ad eliminare ogni visione "moralistica" ed a sottolineare un punto di vista "realistico".. b) Attraverso l'analisi precedente Merton.aveva fatto notare come sia gli uomini d'affari rispettabili, sia i rappresentanti dei "rackets" si appoggino alla macchina politica e come questo porti i due gruppi ad una reciproca interferenza. Cio` lo spinge a formulare il seguente teorema (a carattere generale e non riguardante solo il caso specifico su cui si basa): "le funzioni sociali di una organizzazione contribuiscono a determinare una struttura (compreso il reclutamento del suo personale) proprio come la struttura contribuisce a determinare l'efficienza con cui le funzioni sono adempiute" e cioe` " la struttura influisce sulla funzione e la funzione influisce sulla struttura". 5.2. Le funzioni latenti del vicinato in una comunita` urbana del Mezzogiorno ed i problemi del suo risanamento (L'Abate,1966). Il quartiere analizzato era composto di baracche tipo quelle del famoso film di De Sica, "Il tetto", in un punto abbastanza centrale di Palermo e con circa 1200 persone che ci vivevano (ora e` stato distrutto) in condizioni indescrivibili, con un affollamento medio di 4,28 persone per vano (e con punte massime di 11 persone). L'attivita` lavorativa della maggior parte degli abitanti del Cortile era quella del trafficante (compra e vendita di oggetti usati: stracci, ferri, mobilio, ecc.). Per svolgere tale attivita` essi dipendevano da alcuni grossisti i quali affittavano loro, giorno per giorno, i carretti per la raccolta degli oggetti, ed ai quali si impegnavano a rivendere gli oggetti acquistati. La differenza tra il prezzo a cui loro cedevano tali oggetti ai grossisti e quello di vendita e` notevolissima (per alcuni tipi di stracci rivenduti dai grossisti a Prato si e` trovata una differenza da 50 a 200 lire) . I trafficanti del Cortile ne erano coscienti, tanto. che hanno tentato ripetutamente di organizzarsi in una cooperativa per elevare il proprio reddito e liberarsi dallo sfruttamento e dalla dipendenza dai grossisti, ma.senza successo. Questo fallimento ripetuto e` dovuto sia a carenza di fiducia reciproca, sia ad impreparazione a superare le difficolta` insite nella gestione di una cooperativa, ed infine anche ad una carenza di aiuti esterni per superare queste difficolta`, se non addirittura ad una serie di ostacoli creati loro (difficolta` ad ottenere fondi dalla banca), probabilmente su pressione degli stessi grossisti. Il problema che nello studio si voleva analizzare era la possibilita` di risanare il quartiere in questione portando gli abitanti ad abitare in case popolari. Il tentativo di risanamento di altri quartieri abbastanza simili a quello studiato erano in precedenza falliti per il rifiuto della popolazione a trasferirsi nei .quartieri costruiti per loro, tanto che questi erano stati poi occupati da persone del ceto medio ed anche medio-superiore. che, provvisti di macchine, non risentivano eccessivamente della distanza di tali quartieri dal centro della citta`. Ma il problema della distanza non era 1 'unica e nemmeno la principale delle ragioni che avevano portato gli abitanti di tali quartieri a rifiutare ii trasferimento. Questo fatto e` reso esplicito proprio grazie al concetto di funzione latente elaborato dal Merton. Tutti i quartieri palermitani, compreso quello da noi analizzato, sono caratterizzati da una organizzazione del lavoro che potremmo definire "di vicinato": cioe`, ogni quartiere e` piu` o meno "specializzato" in una o piu` attivita` specifiche, o addirittura in parti di una determinata attivita`. Cosi`, mentre il nostro Cortile era specializzato nel traffico di roba vecchia, altri avevano, come attivita` prevalente, o la .falegnameria o la fabbrica a mano di scarpe, od altre attivita` artigianali. E malgrado tra i singoli operatori economici (nel caso dei trafficanti o dei fabbricanti di scarpe) o tra i singoli laboratori artigiani (nel caso, ad esempio, dei falegnami) non esistesse alcun rapporto formale di lavoro, in realta` la vicinanza aveva dato vita ad una serie piuttosto intensa di rapporti informali. Tali rapporti si estrinsecavano in: a) una serie intensa di contatti verbali dopo il lavoro (usualmente nelle bettole), sui problemi dell'attivita` comune e sui mutamenti del mercato, con informazioni sui prezzi pagati da diversi grossisti e percio` su quelli che pagavano di piu`. Questo permetteva ai singoli operatori di non essere completamente indifesi nella contrattazione del prezzo, almeno nella misura (non elevata) in cui esistevano divergenze di prezzo tra i vari grossisti, e nella misura, anche questa limitata da legami particolari, in cui essi erano liberi di scegliere il grossista a cui rivendere il prodotto, o per il quale lavorare; b) in molti casi i rapporti erano piu`. stretti ed entravano addirittura nel campo della divisione e della specializzazione del lavoro, sia pur sempre su un piano completamente informale. Non era infrequente, infatti, ad esempio, che un laboratorio (o bottega) di falegnameria facesse solo sedie, un altro solo .tavoli, e cosi` via, tutti pezzi che poi insieme venivano a formare il mobilio di una stessa stanza. Per quanto riguarda il commercio di roba vecchia del nostro Cortile, anche qui si assisteva ad una certa specializzazione, con alcuni piccoli magazzini che raccoglievano solo un certo tipo di stracci o magari facevano anche il lavoro di lavatura ed imballatura, altri che raccoglievano invece tipi di stracci diversi oppure carta. e cosi` via. Questo permetteva di fare un lavoro migliore e quindi anche di aumentare i guadagni. Ritornando al concetto dl funzione latente dovrebbe esser chiaro, ora, dopo quanto detto sopra, che il vicinato, attraverso questi rapporti informali, svolgeva. una. funzione di tipo sindacale e paracooperativo, senza che organismi di questo genere fossero in alcun modo presenti, almeno formalmente, nella vita di questi cortili. Diventa percio` comprensibile come le persone che vivevano in condizioni di questo tipo, pur desiderando intensamente di andare a vivere in una casa decente (che spesso costava meno dei tuguri in cui abitavano), si fossero rifiutate di essere disperse in case popolari costruite ed assegnate senza tener alcun conto, sia delle loro esigenze di lavoro, sia delle funzioni che il vicinato assolveva a questo riguardo. Per quanto riguarda il Cortile da noi studiato risulto`, d'altra parte, che la popolazione, che sentiva fortemente il complesso di inferiorita` dal fatto di vivere in .un quartiere particolarmente malfamato, non avrebbe desiderato andare a vivere insieme, ma preferiva essere dispersa in quartieri diversi "per non ricreare il Cortile". Ma questo avrebbe reso i cascinari ancora piu` schiavi dei grossisti togliendo 1oro quel minimo di forza contrattuale che i legami reciproci attuali permettevano loro di avere. Da questo derivava una indicazione piuttosto precisa dal punto di vista operativo affincheÅL il Cortile potesse essere distrutto, come era previsto dal piano regolatore di Palermo, senza arrecare danni alle persone che vi vivevano, ma anzi aiutandole in un processo di miglioramento sociale e secondo le linee da loro richieste. Le alternative possibili erano principalmente due: 1) che tale funzione, che abbiamo definito di tipo sindacale e cooperativo venisse a cadere, ad esempio: attraverso una sostituzione dell'attivita` principale della maggior parte dei capi-famiglia del Cortile con altre attivita` non necessariamente omogenee (ad esempio: uno sviluppo dell'industria palermitana. e delle attivita` edilizie ad essa connesse avrebbe potuto aumentare la richiesta di personale non qualificato, e questo avrebbe indotto i cascinari, come era gia` avvenuto nel passato nei momenti di maggiore sviluppo economico, ad abbandonare la loro attivita` economica attuale per un'altra piu` stabile e piu` remunerata) ; 2) che si sviluppasse una struttura alternativa per lo svolgimento di quelle funzioni, che permettesse di assolverle egualmente malgrado la dispersione degli abitanti del Cortile in quartieri diversi. Questo sarebbe stato possibile, ad esempio, attraverso una formalizzazione dei rapporti di collaborazione reciproca tramite una cooperativa di trafficanti, cosa che abbiamo detto avevano tentato di fare ma senza riuscirci. Se percio` la collettivita` avesse voluto realmente risanare il quartiere senza che questo si traducesse in un danno per i suoi abitanti avrebbe dovuto o sviluppare la prima delle due soluzioni, o aiutare i cascinari nel processo di strutturazione cooperativa, che essi stessi avevano cercato di mettere in moto, e cioe`, o, nel primo caso, eliminare la funzione, o, trovare una alternativa funzionale, nel secondo. Naturalmente, il problema non era cosi` semplice. Noi abbiamo voluto sottolineare un aspetto tra i piu` importanti per. rendere piu` chiaro l'esempio. Va da seÅL che si sarebbe dovuto tenere conto anche di altri fattori, come il reddito (anche se abbiamo potuto analizzare come tale fattore non fosse quello fondamentale, dato che spesso le case popolari costavano meno dei tuguri attualmente abitati), o come le attivita` illegali (per aumentare il reddito molte persone del Cortile svolgevano un'attivita` secondaria illegale come il contrabbando di sigarette, o di altro). La dislocazione del Cortile, a cavallo di una linea ferroviaria, e la sua conformazione a casbah chiusa con il suo elevatissimo affollamento, facevano si` che tali attivita` si potessero facilmente nascondere alle persone dell'esterno ed alla polizia (che d'altra parte aveva una grande paura ad entrare nel Cortile). Il risanamento del Cortile avrebbe percio` richiesto, in precedenza, anche la soluzione di questo problema, e cioe` il fare in modo che il reddito lavorativo eliminasse la necessita` di ricorrere a tali attivita` (che del resto .erano realmente redditizie solo per pochissime persone. mentre per la maggioranza servivano solo ad arrotondare il guadagno giornaliero). Anche questo problema avrebbe del resto potuto essere risolto tramite una delle due soluzioni su accennate. 5.3. Le funzioni latenti delle piccole aziende in Italia (Berger, 1974). Susan Berger era una studiosa di scienze politiche del MIT di Cambridge (USA), e faceva parte del comitato esecutivo del centro per gli affari internazionali dell'universita` di Harward. Aveva studiato a fondo i vari paesi d'Europa su cui ha scritto vari libri. La ricerca in questione e` stata presentata ad un incontro di studio della Fondazione Agnelli che si proponeva di analizzare e mettere a fuoco l'Italia degli anni 70, confrontando su questo l'opinione di studiosi di varie discipline, tra cui economisti, sociologi, politologi, storici, italiani e stranieri. Il contributo di Susan. Berger e` intitolato "uso politico e sopravvivenza dei ceti in declino". Essa parte dalla constatazione che mentre tutti, studiosi, politici, operatori economici, sostengono che nel futuro dell'Italia non c'e` posto per le unita` economiche di piccole dimensioni, in realta` queste non solo continuavano ad esistere, ma erano addirittura in via di sviluppo. In quel periodo la forza di lavoro industriale impiegata in piccole aziende (con meno di 10 dipendenti) rappresentava il 28% dell'intera forza lavoro ed era quattro volte superiore a quella del Belgio, piu` del doppio della Germania, e molto maggiore che in Francia. E, nel commercio, contro una media nell'Europa Occidentale, del 79%, in Italia i negozi classificati piccolo commercio indipendente erano, al 1960, il 95% di tutte le vendite al dettaglio. E mentre negli. altri paesi erano in diminuzione, nel nostro erano invece in incremento. E’ questo, che puo` essere definito un “paradosso” dell'economia italiana, che la Berger cercava di spiegare nel suo lavoro. Il paradosso del ruolo dell’economia dei cosiddetti settori tradizionali (quelli in cui prevale la piccola proprieta` privata), investe anche il problema meridionale. Scrive la Berger nel saggio citato: "l'immagine di una Italia divisa in un sud tradizionale ed in un nord moderno... ha impedito che il paese acquistasse una reale comprensione dei suoi problemi e ha indotto... ..la convinzione che il sud si stesse muovendo lungo la stessa linea di traccia del nord, ma ad un ritmo piu` lento e con considerevole ritardo. Il Sud percio` avrebbe raggiunto, ora, uno stadio di sviluppo per il quale il nord sarebbe gia` passato qualche anno fa. In tal modo - continua la Berger - la "tradizione" e` concepita come una stazione di passaggio sulla strada della modernita`, e la soluzione nel sud sarebbe dunque di trovare qualche spinta piu` rapida lungo la stessa strada gia` percorsa dal nord" (ibid, p. 294). Secondo la politologa americana questo modo di ragionare, abbastanza diffuso, conteneva l'errore di credere che la strategia piu` efficace per migliorare le condizioni del Mezzogiorno consistesse nel rimodellare la societa` e l'economia sull'esempio del nord. Gli studi sull'economia dualistica in Italia davano infatti per scontato che i settori tradizionali fossero in prevalenza localizzati nel sud, e consideravano la loro presenza nel nord, come una anomalia, una persistenza di modelli sorpassati in una economia da societa` industriale avanzata. Nella realta`, invece l'economia italiana si e` configurata. - al sud come al nord - come economia dualistica nella quale imprese e settori moderni e tradizionali sono legati da stretti rapporti di dipendenza. Secondo la Berger il tessuto economico e sociale, e la stessa azione concreta dei settori piu` avanzati dell' industria del nord, sembravano essersi strutturati in modo tale da rendere la sopravvivenza dei settori tradizionali, di importanza essenziale e determinante. Nella realta`, pur essendoci al sud un maggior numero di piccole imprese che al nord, le differenze (97,5% e 92,3%) non raggiungevano l'ampiezza che quella che Berger chiama la "variante regionale dell'ipotesi dualistica" poteva lasciare prevedere, e dopo aver citato molte statistiche di tutti i settori, sia a livello nazionale, sia di una delle zone piu` industrializzate, la Lombardia,.la Berger sostiene: "in conclusione, nell' industria come nell' agricoltura e nel commercio, sia al nord che al sud, le piccole imprese impiegano la maggior parte della forza lavoro, ed il loro contributo alla formazione del prodotto nazionale lordo, bencheÅL di poco inferiore alla loro quota di occupazione, e` sempre molto elevata" (p. 301 ). Inoltre si assiste alla riscoperta, ed all’espansione di forme di lavoro "arcaiche", come il lavoro a domicilio, 1'appalto di mano d'opera, ed il lavoro minorile (i lavoratori a domicilio erano al tempo della ricerca della Berger, tra 1 milione - stima del Ministero del lavoro - e i 2 milioni e mezzo - stima del sindacato). Il lavoro a domicilio, che molto raramente viene dichiarato - offre all' imprenditore il vantaggio di sfuggire al versamento degli oneri sociali a favore del lavoratore, e di pagare salari inferiori a quelli stabiliti per legge. In complesso, scrive la Berger, la produzione si e` decentrata sia attraverso la dipendenza dalle grandi imprese di una parte consistente delle imprese minori, sia attraverso la spettacolare diffusione del lavoro a domicilio. Si e` decentrata cioe` verso unita` in cui fosse piu` facile sfuggire ai condizionamenti sull'orario straordinario, sulla sicurezza e sanita` degli ambienti di lavoro, e sottopagare la forza di lavoro, favorita in questo dalla struttura del sistema previdenziale, facilmente evadibile (ibid, p. 302). Le ragioni principali di questi andamenti e del persistere e progredire del settore “tradizionale” sono dalla Berger ricondotte ad alcune funzioni latenti, anche se la studiosa non utilizza questo termine che erano del resto state sottolineate anche da un sociologo italiano, A. Pizzorno, presente a quello stesso incontro: . 1) Funzioni economiche. Le grandi imprese non hanno interesse a fabbricare direttamente certi prodotti sia a causa della forte oscillazione della loro domanda, sia percheÅL essi richiedono troppa mano d'opera. Esse trovano percio` un maggior vantaggio economico nel mantenere, o addirittura creare, intorno a seÅL, una fitta rete di piccole imprese, che permette loro di razionalizzare solo ]a parte centrale del processo produttivo, senza affrontare il peso di una razionalizzazione piu` ampia, non giustificata dalla quantita` di produzione. 2) Funzioni politiche antisindacali. L'operaio della grande fabbrica ha piu` tendenza e possibilita` ad organizzarsi od a porre delle rivendicazioni, "mentre il piccolo produttore indipendente sfrutta se stesso ed i pochi operai alle sue dipendenze dei quali facilmente impedisce l'organizzazione" (Pizzorno, 1960, p. 79) . . Ma questa seconda funzione era l'effetto di tutta la politica del governo, di solito pero` appoggiata anche da almeno una parte dell'opposizione di sinistra. Questo percheÅL le eÅLlites politiche erano preoccupate di un indebolimento del settore tradizionale, che sembrava in grado di assorbire e metabolizzare una serie di problemi che avrebbero finito per scuotere e disgregare un tessuto sociale fragile, che aveva teso a sgravare le piccole imprese di parte degli oneri sociali, accollandoli allo stato, e chiudendo gli occhi su una serie di inadempienze da parte loro. La scarsa presenza sindacale nelle piccole imprese ha contribuito a mantenere al loro interno un regime di retribuzioni inferiori; distacco che si faceva maggiore proprio nei periodi di sviluppo economico, a causa dei miglioramenti ottenuti nelle grandi aziende con i contratti integrativi aziendali. "E' proprio in questi periodi - scrive la Berger - che cresce la disparita` salariale tra piccole e grandi imprese e di conseguenza aumenta anche, per quest'ultime, la convenienza a subappaltare la propria produzione...la concentrazione della pressione sindacale nel settore moderno contribuisce a mantenere piu` bassi i salari nel settore tradizionale" (op.cit. p.305). , La Berger percio` riteneva che, in complesso, il settore tradizionale non fosse presente come sopravvivenza o anomalia ma che rappresentasse un fattore di fondamentale importanza per la stabilita` dei suoi addetti, ma anche per la sua capacita` di espandere o di contrarre la propria forza lavoro: in tempi di recessione, assorbendo i lavoratori eccedenti del settore moderno, in tempi di espansione, costituendo una riserva di mano d'opera. La Berger parla percio` di "funzione di ammortizzatore del settore tradizionale" (ibid., p.311). La studiosa concludeva la sua analisi sottolineando - da parte di tutte le forze di governo ma anche di opposizione - "lo scarso sforzo politico e culturale finora dedicato al tentativo di individuare altri mezzi per ottenere gli stessi fini. Sono evidenti - scriveva la studiosa americana - i motivi che dovrebbero spingere l'Italia a desiderare altre soluzioni: gli attuali adattamenti non consentono alcuna fondamentale riforma economica e sociale; inoltre essi fanno ricadere sui gruppi piu` poveri e meno protetti della societa` la maggior parte dei costi sia delle disfunzioni che del progresso economico. La questione, naturalmente, non e` di sostituire con un'altra serie gli ammortizzatori rappresentati dal settore tradizionale, ma di aggiungerne di nuovi in modo di distribuire meglio, su piu` parti del sistema, gli scossoni del ciclo economico" (ibid.p.311). 6. Alcune indicazioni metodologiche Ma visti i principali contributi teorici alla delineazione di un paradigma dell'analisi funzionale, e visti alcuni esempi di ricerca portati avanti con questa metodologia, siamo in grado di tirare alcune conclusioni. Ma per prima cosa e` opportuno vedere anche altre critiche all'impostazione finora dominante, e cioe` allo struttural-funzionalismo di ispirazione mertoniana. Un sociologo americano contemporaneo, il Bredemeier (1955, p 173 e segg) sottolinea la necessita`. di tener conto delle cause che provocano determinati fenomeni e mostra l'inadeguatezza dell'analisi funzionale come si era sviluppata fino ad allora, che aveva cercato di spiegare certi modelli di comportamento soltanto in base alle loro conseguenze. Secondo il Bredemeier, l'analisi funzionale non e` riuscita a rendersi conto che "certi bisogni degli individui, che devono essere soddisfatti se essi devono avere dei ruoli necessari al funzionamento di un sistema, possono a loro volta essere generati da altri aspetti del sistema. E, cioe`, un'analisi funzionale che si concentri soltanto sullo studio della funzione (soddisfazione del bisogno) di un dato modello culturale e` molto probabile che sia seriamente incompleta ed equivoca. Una comprensione completa del modello in questione richiederebbe che ci si chiedesse, non solo "a che bisogno soddisfa", ma anche "qual’e` la fonte di questo bisogno", e cioe`, quali modelli di cultura fanno sorgere quel bisogno?". Una delle esemplificazioni portate dall' Autore per chiarire il proprio pensiero riguarda l'analisi della stratificazione sociale fatta da due "funzionalisti", Kingsley Davis e Wilbert E. Moore. Secondo tali Autori, l'ineguaglianza nella distribuzione delle ricompense della societa` (soprattutto il prestigio e il reddito) e`, per riprendere le parole del Bredemeier, "uno stratagemma sviluppato inconsciamente con il quale le societa` si assicurano che le posizioni piu` importanti siano coscientemente riempite dalle persone piu` qualificate"; in altre parole, l'ineguaglianza assolverebbe appunto alla funzione. di stimolo per i migliori ad occupare i posti piu` importanti, e per i quali sono piu` adatti. Il ragionamento che porta gli Autori a sostenere questa tesi e` questo: esistono delle posizioni nella struttura sociale che richiedono particolari capacita` e maggiore preparazione; le persone in tali posizioni svolgono usualmente, per la societa`, le funzioni piu` importanti; per fare in modo che esse siano coperte dalle persone piu` preparate e ad esse piu` adatte e` necessario che "le posizioni meno essenziali.. .non competano non successo con quelle piu` essenziali (a causa della rarita` delle capacita` che esse implicano)", e questo e` possibile appunto dando le maggiori ricompense a quelle posizioni alle quali la societa` da` maggiore importanza e per le quali le persone capaci di ricoprirle sono piu` rare. . Il Bredemeier critica questa impostazione in base alle seguenti. argomentazioni: non necessariamente in una societa` il rispetto che ciascuno ha di seÅL (e di riflesso anche il giudizio degli altri) deve essere basato sulla posizione di prestigio occupata, o sul reddito guadagnato; il rispetto puo` invece dipendere dallo svolgimento del ruolo per il quale ciascuno e` piu` adatto; se comunque i criteri di valore predominanti sono quei due su accennati (reddito e prestigio), questo porta come conseguenza che le persone che ne sono prive, o ne hanno poco, tenderanno ad avere anche un basso rispetto di se stesse (e ad essere poco rispettate dalle altre); da questo consegue che esse reagiranno in modo da cercare di minimizzare il danno, o ribellandosi, o rifacendosi su altri in peggiori condizioni, o sottomettendosi e trovando rifugio nel ritualismo, oppure lasciandosi andare e perdendo uno stimolo all'azione: tutto questo rende la societa` meno efficiente e costituisce una fonte di instabilita` per essa, il che indica. chiaramente che tale squilibrio di ricompense provoca delle notevoli disfunzioni piuttosto che assolvere a delle funzioni. Questo esame porta il Bredemeier a sostenere la necessita` di. una piu` precisa codifica dell'analisi funzionale, in modo che essa tenga conto anche delle fonti dei modelli osservati e non soltanto delle loro conseguenze. Percio`, nel caso citato, gli Autori avrebbero dovuto analizzare non solo a cosa servono la stratificazione sociale e la differenza di remunerazione su cui essa, di solito, si basa, ma anche i criteri di valore (modificabili secondo il Bredemeier) che fanno si` che esse adempiano a tale funzione. Anche l'esempio da noi portato, della funzione latente del vicinato in una zona depressa, ci sembra mostrare chiaramente l'esigenza di tener conto di questo aspetto. Concludendo, avevamo indicato due possibili soluzioni, o l'eliminazione della funzione grazie ad uno sviluppo di industrie e una divisione delle persone del Cortile tra attivita` varie, oppure la creazione di una struttura funzionale alternativa, come una cooperativa. Il che ci mostra chiaramente (cosa del resto accettata anche dal Merton, che parla appunto di prerequisiti funzionali per distinguerli dalle funzioni non necessarie) come non tutte le funzioni siano indispensabili, e come, in certi. casi, togliendo le cause che fanno si` che esse esistano, possa essere possibile eliminarle. In certe situazioni questo puo` essere piu` opportuno del trovare una alternativa funzionale che lascia intatta la funzione e modifica solo la struttura o la forma con la quale tale funzione e` assolta. Il non tener conto di questo aspetto porta necessariamente ad un punto di vista conservatore, cioe`, dato il legame reciproco tra struttura e funzione, l'accettare come inevitabili le funzioni trovando ad esse dei sostituti quando cio` sembri opportuno, fa si` che la struttura non venga modificata se non marginalmente. Anche il Merton non e` esente da. questo difetto. L'esempio da lui fatto della macchina politica ce lo mostra chiaramente. Egli infatti conclude l'analisi di questo fenomeno sostenendo che "qualsiasi tentativo per eliminare una struttura sociale esistente, senza fornire altre strutture che possano adempiere le funzioni precedentemente adempiute dall'organizzazione abolita, e` destinato al fallimento". In parole povere, egli, non chiede, e sembra non ritenere possibile, che venga modificata la struttura eliminando le cause che fanno si` che la macchina politica adempia a determinate funzioni, ma chiede soltanto che si cerchino altre strutture capaci d'assolvere le medesime funzioni. Il che non modifica molto. Lasciando infatti intatte le funzioni, non si vede nemmeno bene percheÅL vadano modificate le strutture che le assolvono. Ma per chiarire quanto detto conviene ridare uno sguardo alle singole funzioni che Merton aveva trovato a tale tipo di "macchina". La prima era quella di dare alle popolazioni misere dei quartieri depressi un aiuto non "peloso'" o "burocratico"; la seconda, quella di aiutare i grossi affari, da una parte, e coordinarsi reciprocamente, dall'altra, a guadagnare di piu`. La terza, quella di facilitare i gruppi soprattutto di immigrati a passare a classi sociali piu` elevate; la quarta, infine, di aiutare il "racket" a fare i propri affari senza interferenze governative. E' chiaro che tali funzioni difficilmente possono essere considerate equivalenti l'una con l'altra; alcune sembrano toccare quelli che Merton definisce prerequisiti necessari: in questa categoria tenderemmo a mettere l'aiuto alle popolazioni diseredate, la facilitazione alla mobilita` sociale ed infine il coordinamento delle attivita` economiche "oneste"; nell'altra categoria, e cioe` in quella delle funzioni non necessarie, quella di aiuto ai maggiori guadagni dei gruppi degli "affari" e del "racket". Anche per Merton, infatti, le funzioni per certi sottogruppi non necessariamente sono funzione per l'intera societa`, e anzi, in molti casi, esse possono essere delle disfunzioni. In altre parole, le prime funzioni, quelle che abbiamo considerate "necessarie”, sono funzioni non solo per il sottogruppo ma per tutta la societa`; le altre invece, al livello societario, sono delle vere e proprie disfunzioni. Il che mostra che se per le prime sara` opportuno, se vogliamo eliminare la macchina politica, cercare delle alternative funzionali per il loro svolgimento, per quanto riguarda le seconde sara` necessario fare in modo che esse spariscano modificando quegli elementi della struttura che fanno si` che esse esistano. Tutto questo mostra la necessita` di trovare dei criteri scientifici che permettano di individuare le funzioni che vanno mantenute, eventualmente modificando le strutture che le assolvono (se esse presentano anche disfunzioni che sembrano da eliminare), distinguendole da quelle che invece vanno eliminate attraverso l'eliminazione delle cause che fanno si` che esse esistano. Questo discorso ci porta ad affrontarne un altro strettamente collegato a questo, e cioe`: fino a qual punto le funzioni e le disfunzioni sono autonome le une rispetto alle altre? E' chiaro che se risultasse che certe disfunzioni sono strettamente legate allo svolgimento di alcune funzioni e non alla struttura (o ai modelli culturali) che le adempiono, la ricerca di una alternativa funzionale non servirebbe a molto, poicheÅL, lasciando intatta la funzione, non potrebbe eliminare le disfunzioni ad esse collegate. Cio` pone il problema della analisi causale anche delle disfunzioni. Se analizziamo, da questo punto di vista, l'esempio della macchina politica citato dal Merton, risultera`, chiaramente che le conseguenze disfunzionali (sviluppo della corruzione, incremento degli squilibri tra gruppi, ecc.) non sono legate tanto alla struttura che adempie la funzione, e cioe`, alla macchina politica, quanto alle stesse due ultime funzioni citate, di aiuto per incrementare gli introiti dei gruppi di affari e del "racket". Cio` conferma che, per eliminare le disfunzioni, vanno annullate anche le funzioni citate, e che una semplice sostituzione con una struttura alternativa non porterebbe a nulla. Con questo ci sembra aver dimostrato: 1) l'indispensabilita` dell'introduzione dell'analisi causale in quella funzionale, e la necessaria complementarieta` di questi metodi di analisi, 2) che, attraverso questo approccio plurimo (causale, funzionale, strutturale) si incrementano le capacita` operative del metodo, percheÅL si precisano i casi in cui le disfunzioni sono legate alle funzioni, e percio` richiedono una eliminazione di quest'ultime per evitare le prime, e quelli invece dove tali conseguenze disfunzionali sono legate invece alla struttura o all'elemento che assolvono tali determinate funzioni, ed in tal caso la ricerca di una alternativa funzionale e` una soluzione valida. Si da` con questo una prima indicazione scientifica che permette di distinguere tra queste due possibili soluzioni. 6.1. Un bilancio netto. A questo punto dovremmo essere in grado di concludere cercando di vedere se hanno ragione i detrattori o i sostenitori dell’ analisi funzionale. Tra i detrattori c'e` sicuramente M. Grawitz. Questa studiosa francese scrive, in un suo testo monumentale sulla metodologia delle scienze sociali (1981), dopo aver citato Durkheim e Bastide che parlano di conoscenza di cause: "ritorniamo, sempre alla necessita` di una ricerca di causalita`, ancor piu` indispensabile dal momento che la spiegazione funzionale, utilizzabile quando si analizzano fatti socia1i, e una societa` in equilibrio, non lo e` piu` nel caso di discontinuita` e di rotture, nelle quali invece la causalita` puo` ancora operare. Sembrerehbe - scrive la Grawitz - che l'utilizzazione di questo metodo venga non tanto dalle sue capacita` di spiegazione, quanto dalle difficolta` di cogliere una causalita` sociologica. La funzione si sostituisce alla causa efficiente e l' introvabile causa sociale e` talvolta rimpiazzata da una causalita` di tipo psicologico e funzionale, con riferimento ai bisogni sentiti dagli individui" (op.cit, p.444). Tra i sostenitori possiamo invece annoverare Runciman, il quale scrive, parlando della spiegazione funzionale: "questa specie di spiegazione e` notoriamente difficile a provare conclusivamente, ma non c'e` nulla in questa che possa essere in contrasto con la metodologia della spiegazione scientifica, in generale" (1988, p.208).. Ed ancora "non c'e` nulla, nelle spiegazioni teleologiche in sociologia, sia di tipo intenzionale che funzionale, che impedisca che sia inserita nel normale ed uguale schema di ipotesi, modelli, teorie e presupposti. Se la loro fondazione differisce da quella piu` diretta che conosciamo storicamente, non e` a causa della difficolta` di individuare le funzioni ma a causa della tentazione di cercarle a posteriori (ex post facto) e non attraverso la conferma di una ipotesi preferita, contro quelle messe avanti dai teorici delle scuole rivali" (p.212). Come possiamo vedere .da queste due ultime citazioni le opinioni sono per lo meno discordi, tanto da far dubitare che si parli di due argomenti diversi. La mia ipotesi e` che nella realta`, alla base del dibattito, ci siano proprio due tematiche diverse. Da una parte il funzionalismo visto come filosofia del mondo, che vede la societa` come un tutto integrato, armonico, privo di conflitti, che molti, come la Grawitz, rifiutano, per privilegiare. altre visioni del mondo in cui il conflitto, e la dialettica, abbiano uno spazio centrale, o almeno piu` rilevante. E dall'altra parte invece l'analisi funzionale vista solamente come un metodo di studio, come emerge chiaramente dalla citazione di Runciman, metodo che ha i suoi limiti, ma anche i suoi pregi. D'altra parte abbiamo gia` visto come la cosiddetta sociologia qualitativa preferisce, e sceglie, un rapporto con le ipotesi di tipo induttivo, e non deduttivo, e che privilegia quella strategia che abbiamo definito la "teoria emergente", e come fa notare Runciman questo, anche se insolito, e` perfettamente legittimo in campo scientifico metodologico. Quindi l'analisi funzionale farebbe parte, come e` in realta`, dei metodi qualitativi, e si inserirebbe nei suoi canoni metodologici, privilegiando, nella prima fase, la parte descrittiva, di analisi del fenomeno, senza una precisa griglia di ipotesi e di teorie. Queste emergerebbero solo in una fase successiva, quando la fase descrittiva e` compiuta si sono individuate alcune regolarita` degli andamenti, e si cerca di passare dalla descrizione alla spiegazione. Vorrei, a questo punto, affrontare due altre critiche, di cui abbiamo fatto cenno, nel corso di questo capitolo, e cioe` quella di tautologia e teleologia. Cominciamo da quella di tautologia. Turner descrive cosi` questo problema "quando sopravvive un sistema sociale? Quando sono assicurati. certi requisiti di sopravvivenza. Come si puo` sapere se certi requisiti di sopravvivenza sono assicurati.? Quando un sistema sociale sopravvive" (Turner, 1986, p.50). La riflessione tautologica e` quella incentrata su processi di circolarita` causale. Nel caso del funzionalismo quello che la puo` implementare sono i due concetti di equilibrio e di requisiti o di bisogni. E' molto facile, dice Turner, partire dall'assunto implicito "che una struttura permanente, come la macchina politica, soddisfi un bisogno - ad esempio l'integrazione di certi gruppi etnici nella citta`. - e che la causa della struttura.e` il bisogno che essa soddisfa; appunto il bisogno degli immigrati di aiuto. Per questa ragione Turner ritiene che probabilmente le assunzioni di equilibrio, o di omeostasi, come pure le concezioni di requisiti o di bisogni funzionali, dal momento che non possono essere definite con esattezza, e basate sulla circolarita` causale, dovrebbero essere abbandonate. L'unica selezione che Turner riconosce e` come guide sensibilizzanti per processi sociali importanti (Turner, 1982; p.l09). . La seconda critica, di teologismo, o meglio di teleologia illegittimata, e` collegata a questa prima. La teologia e` una spiegazione di un fenomeno sulla base dei fini cui esso tende. Secondo Turner sia nel funzionalismo di Durkheim che in quello di molti altri funzionalisti si incorre in questo difetto, e cioe` nel teologismo illegittimato. Anche se Durkheim nel suo studio sulla divisione del lavoro cerca di tenere distinte le cause (l'incremento della popolazione e la densita` morale) e la funzione (l'integrazione della societa`), spesso le sue dichiarazioni causali si mescolano con quelle funzionali. Le argomentazioni di Durkheim sono infatti di questo tipo: la densita` della popolazione incrementa la densita` morale (i livelli di contatto e di interaziorie); la densita` morale sviluppa la competizione, che minaccia l'ordine sociale; a sua volta, la competizione sulle risorse porta ad una specializzazione dei compiti; e la specializzazione fa pressioni per una reciproca interdipendenza ed ad un incremento della volonta` di accettare la moralita` di reciproche obbligazioni. Questa transizione ad un nuovo ordine sociale non e` fatta coscientemente, o "da una saggezza inconscia"; comunque la divisione del lavoro e` necessaria per restaurare l'ordine che "una sfrenata competizione" potrebbe distruggere. Da qui puo` sorgere l'impressione - che appunto per Turner e` una tautologia illegittimata - che la minaccia o il bisogno di ordine sociale sia la causa della divisione del lavoro, ma anche Merton, pur cercando di liberarsi da questo difetto, tende a mescolare cause e funzioni ed a ricaderci. Egli infatti indica che l'emergere e la persistenza della macchina politica avviene in risposta a dei bisogni, senza documentare con molta precisione le catene causali attraverso le quali i bisogni causano l'emergere e la persistenza di un evento (Turner, 1986, p.l00). Ma cosa resta dell'analisi funzionale dopo tutte queste critiche? Saremmo tentati di dire nulla, se l'esempio di alcune ricerche non avessero comunque mostrato la potenzialita` di un approccio del genere, in particolare attraverso la scoperta delle funzioni latenti. Quello su cui si accentra la critica maggiore; e che andrebbe percio` o abbandonato del tutto, o moltissimo ridimensionato, e` il riferimento all'equilibrio del sistema nella sua interezza, ed il considerare le funzioni in rapporto ad esso. E' questo lo strascico biologistico del funzionalismo che e` l'aspetto piu` negativo del metodo. Ma negli esempi portati abbiamo visto che l'analisi funzionale puo` essere portata avanti anche senza riferimento ad esso. La mia opinione e` quella che, liberata da questo assunto, l'analisi funzionale ha tutto da guadagnare. Una seconda indicazione metodologica mi sembra emergere- con chiarezza da quanto detto finora, e cioe` che l'analisi funzionale deve essere integrata - ma distinta - con l'analisi causale, con quella strutturale, e come vedremo nel capitolo successivo, anche con quella processuale. Quando queste metodologie si confondono e non riescono ad essere autonome l'una con l'altra, esse invece che di aiuto, rischiano di essere un impedimento alla comprensione della realta` che ci circonda. Abbiamo gia` accennato alle affinita` tra analisi funzionale e analisi processuale, e` probabilmente importante lavorare piu` a fondo sui collegamenti tra questi due tipi di analisi. Nell'ultimo capitolo vedremo che esistono almeno tre tipi principali di processi, quelli di. riproduzione, quelli di cumulazione e quelli di trasformazione. Puo` essere interessante vedere come le funzioni contribuiscono a dar vita a uno o piu` di questi processi, e se esiste, e quale, un rapporto tra le funzioni ed i processi sociali. E se, lavorando sulle funzioni, e sulle alternative funzionali, e` possibile passare da uno di questi processi ad un'altro, utilizzando percio` l'analisi funzionale ai fini del cambiamento, e non della conservazione come e` stata sempre accusata di fare. .' Il concetto piu` criticato e piu` in dubbio e` quello di funzioni per la sopravvivenza (il funzionalismo di sopravvivenza di Lessner), anche percheÅL l'immagine che da` e` quello di uno stretto collegamento con processi omeostatici e di equilibrio che tendono a mantenere immobile una societa` ed il sistema. Nella realta` i sistemi aperti, come sono quelli viventi, di cui avremo occasione di parlare in seguito, dato che l'ambiente in cui essi vivono e` sempre in mutamento, devono anche mutare, altrimenti sono soggetti a processi di disintegrazione che possono portarli a perire. Quindi i semplici processi omeostatici non sono sufficienti a garantire la sopravvivenza del sistema, ma anzi possono essere proprio loro a causare la sua disintegrazione, e possono essere invece necessari mutamenti di struttura. Per questo anche se ci si pone il problema della sopravvivenza, e` necessario mettere piu` a fuoco il collegamento tra le funzioni e quelli che abbiamo chiamato i processi. di trasformazione e di rinnovamento. . Ed infine la proposta di Tullio Altan, di riscoprire il rapporto tra bisogni individuali e collettivi (e non, o almeno non solo, quelli del sistema) gia` individuato da Malinowski, e di dar vita ad un funzionalismo critico sembra interessante e da approfondire. Ma non la faro` qui, dato che richiederebbe una trattazione a parte. Qui esporro` solo alcuni dubbi. Non c'e` il rischio, attraverso questa procedura, di far rientrare dalla finestra quei bisogni omeostatici e di riequilibrio che abbiamo gettato via dalla porta, almeno come elementi di sopravvivenza del sistema? e se il rischio e` evitabile, come farlo? e come procedere in questo lavoro di analisi del rapporto tra bisogni e funzioni? Sono tutti problemi che lasciamo aperti. Vorrei solo concludere che l'analisi funzionale, come metodo e non come visione del mondo, secondo me e` un metodo importante ed interessante, come spero che anche i tre esempi di applicazione abbiano dimostrato, e che va ulteriormente elaborato e messo a fuoco, e non rigettato acriticamente o per lo meno superficialmente. Alcune idee su cui lavorare per questo mi sembra averle accennate. Mi auguro che anche altri si sentano stimolati da questo lavoro di approfondimento ulteriore in modo da uscire fuori dall' era del funzionalismo conservatore, che non mi pare affatto superata dalla grande popolarita` che riscuote nel nostro paese una proposta come quella di Luhman che non abbiamo volutamente analizzato proprio per i suoi legami piu` alla visione del mondo, o filosofia della societa`, che alla metodologia dell'analisi funzionale. |
Capitolo 4 L'ANALISI DEI PROCESSI SOCIALI 1. Premessa Nei capitoli precedenti abbiamo avuto occasione di parlare varie volte dei processi sociali e della loro importanza nella ricerca sociale. Due elementi sembrano mettere i processi al centro dell'analisi sociologica: A) La sempre maggiore coscienza dei processi di causalita` circolare in cui effetti e cause sono reciprocamente collegati in modo tale che non si possa piu` dire quale dei due e` la causa e l'altro l'effetto, ma solo che sono reciprocamente interdipendenti (p. 135 e segg.). B) L'importanza e la diffusione dei fenomeni, studiati nello sviluppo del tempo (diacronicamente), a bassa costanza, a bassa regolarita`, a bassa monotonicita`, ed a bassa invarianza che fanno sostenere a Galtung che le relazioni causali sono solo casi speciali dei processi e che "questo ultimo diventa il concetto piu` generale, e molto piu` utile, da utilizzare nelle scienze sociali" (p. 139). D'altra parte e` bene ricordare che Ernst Mach (1838-1916), il fondatore del circolo di Vienna, che tanta influenza ha avuto sulla epistemologia contemporanea, ha sottolineato l'opportunita` di eliminare, dal campo della scienza, il concetto di causalita` e di relazione causale sostituendo invece con quello di "legge descrittiva" che tenderebbe a rilevare la costanza e l'uniformita` dei fenomeni mediante descrizioni sintetiche. Secondo questa proposta, come abbiamo gia` notato (p.138), la conoscenza scientifica diventerebbe una formulazione soggettiva di sequenze uniformi (appunto le leggi descrittive) che esigono una continua verifica da parte dell'esperienza. Essa si puo` ritrovare in molte proposte metodologiche della cosiddetta sociologia qualitativa, in particolare nelle costruzioni di modelli, o idealtipi, di Weber e nella diffusione, soprattutto in certi attuali sviluppi della ricerca sociologica, del metodo "configurazionale", e cioe` dell'analisi non basata sulla sommatoria di singoli tratti o variabili (come abbiamo visto si costruisce di solito un indice), ma su una visione complessiva, totale, del fenomeno allo studio, nel suo aspetto, appunto di tipo "configurazionale", e cioe` cogliendolo nei suoi aspetti generali e complessivi, cercando di arrivare ad una "comprensione" del modello dell'unita`, e cioe` ad una visione di insieme delle relazioni esistenti tra le parti che lo costituiscono. Ma l'importanza dei processi sociali, anche se sicuramente e` un tratto importante di caratterizzazione di molte delle scuole sociologiche contemporanee (in particolare la fenomenologia, l'interazionismo simbolico, la scuola dello scambio, la sociologia sistemica, ecc.) e` profondamente radicata anche nel pensiero di molti classici. Oltre che in Weber, di cui abbiamo accennato, una sottolineatura dell'importanza dei processi si ha nella dialettica, che pone al centro della sua analisi il rapporto tra tesi-antitesi-sintesi, e che sottolinea l'importanza di categorie come quelle della totalita`, dell'azione reciproca, dello sviluppo, e vede la storia come un processo dialettico in cui nuove strutture scaturiscono dalle condizioni immanenti causali di quelle precedenti, e nella sociologia cosiddetta "formale" di G. Simmel. Al centro della sua sociologia sono le forme di associazione degli esseri umani ed i processi per mezzo dei quali i membri di un gruppo influenzano le azioni degli altri membri, e ne sono, a loro volta, influenzati. Egli, infatti, parte dall'assunto che le passioni, i bisogni e le inclinazioni umane si possono tradurre in forme costanti di relazioni reciproche, identificabili e descrivibili in modo tassonomico, ed aggregabili secondo un processo che combina forme fondamentali (semplici) in altre piu` complesse. Anche George Herbert Mead, ispiratore dell'interazionismo simbolico, ha dato a questo aspetto una importanza particolare. Secondo questo studioso nord-americano la mente e l'io non sono individuali ne` sostanziali, ma emergono dal processo con cui gli organismi viventi stabiliscono rapporti reciproci e comunicano reciprocamente. Per Mead l'esistenza personale e` una continua dialettica tra il "me", espressione del controllo sociale, e l'"io"; risposta spontanea e selettiva del soggetto: inscindibile dal concetto sociale, essa la modifica attivamente. Per Mead l'individuo e la societa` non sono due entita` separate, ma una entita` che si mostra in due modi (la personalita` individuale e la struttura sociale). " PoicheÅL una persona puo` anticipare (cioe` "vedere" realmente) le reazioni di un altro alle proprie azioni - scrivono Schwartz e Jacobs parlando di Mead (1987, p.55) - prima che queste reazioni avvengano, egli puo` modificare conseguentemente il proprio modo di agire. In questo senso, l'agire sociale prende in considerazione le altre persone incorporando una veduta immaginaria dei loro interessi e delle loro reazioni nel progetto originario di tali azioni". E continuano, commentando l'impostazione di questo autore: "cio` rende l'agire sociale qualcosa di non meccanico e creativo, e fa anche si` che le strutture sociali siano il risultato di gruppi di "se` interagenti" che correggono reciprocamente la loro condotta, tenendo conto gli uni degli altri, e alla luce di cio` che essi conoscono di se` e degli altri. Da cio` consegue che la struttura sociale ed il se` si definiscono constantemente a vicenda " (ibid.). Sulla scia di Simmel e poi di G. H. Mead tutta la "scuola di Chicago", che annovera tra i suoi componenti, oltre il Mead, lo Small, il Park, e Burgess, ha sviluppato quello che Buckley (1976, p. 24 e segg.) definisce "il modello di processo". Esso "vede la societa` come un'interazione complessa, sfaccettata, fluida, di associazioni e dissociazioni, di diverso grado ed entita`. La "struttura" e` una costruzione astratta, non e` qualcosa di distinto dal processo di interazione in atto, ma si puo` dire piuttosto che e` una sua rappresentazione temporanea e di comodo, in un determinato momento. Queste considerazioni conducono alla scoperta fondamentale - scrive Buckley - che i sistemi socio-culturali fondamentalmente elaborano e cambiano la struttura....in adattamento a condizioni interne o esterne. Il processo, quindi, pone l'accento sulle azioni ed interazioni delle componenti di un sistema in azione, siccheÅL per vari gradi la struttura si forma, persiste, si dissolve, o muta " (p.25). E Small, all'inizio di questo secolo, aveva sostenuto: "il filo conduttore del progresso metodologico in sociologia e` segnato dal graduale spostamento dell'attenzione dalla rappresentazione analogica delle strutture sociali, all'analisi reale dei processi sociali" (cit. in Buckley, p.26). E Park, ponendo al centro della sua sociologia la comunicazione, ha introdotto la nozione di processo analizzando sia le forme di interazione, sia i fondamenti dell'ecologia sociale. Per cui tutte le strutture rappresentavano i risultati provvisori di processi di aggiustamento, adattamento e conflitto interpersonale. Come scrive un'altro sociologo nord-americano, nella concezione di Park "il mondo della vita e` pieno di conflitti e degli accomodamenti conseguenti e di equilibri provvisori" (ibid. p.27). Ma questa citazione ci richiama il modello di equilibrio instabile di cui ho parlato nel cap. VI su "I modelli nella ricerca sociale", che e` molto simile, se non identico, al modello di processo, o di "sistema adattivo complesso", di cui parla Buckley nel suo libro citato (p. 51 e segg.), e ci permette di comprendere come un modello del genere, assunto come elemento centrale del mio discorso metodologico, tenda a dare ai "processi sociali" una centralita` che altri modelli non danno. Ma altri sviluppi delle scienze contemporanee, non interni alla sociologia, ma che hanno molto influenzato le sue piu` recenti riflessioni, hanno tutti teso ad accentuare l'attenzione ai processi sociali. In particolare la cibernetica, la teoria delle "decisioni", quella dell'"informazione", ed infine quella dei "giochi", che vengono tutte a far parte di quella che e` stata chiamata la "teoria generale dei sistemi". Quest'ultima e` un tentativo di superare i limiti dell'analisi scientifica classica che si limitava allo studio delle reazioni tra cause ed effetti tra variabili diverse, e di fornire uno schema generale astratto di riferimento per l'unificazione delle varie scienze (R. Gubert, p.1926). Il suo fondatore L. von Bertalanffy, biologo, nel libro dove espone le sue idee su tale teoria (1971) dedica un capitolo a "Il concetto di sistema nelle scienze dell'uomo". In esso egli da` molto spazio all'immagine di uomo nel pensiero contemporaneo cui mi sembra opportuno far un cenno, sia pur rapido. Secondo questo studioso nell'ambito delle teorie comportamentiste ed anche della psicanalisi, la personalita` umana e` stata considerata come un prodotto casuale della natura e dell'educazione, "come il risultato di una mistura di geni e di una accidentale sequenza di eventi dalla prima infanzia sino alla maturita`" (p.287). L'immagine dell'uomo che questi approcci privilegiano, e`, secondo V. B., il modello-robot, sia che si sottolinei il condizionamento classico per mezzo della ripetizione della sequenza degli stimoli condizionanti e non condizionanti, sia che si sottolinei l'esperienza della prima infanzia e l'importanza dell'apprendimento di tecniche connesse alle funzioni corporali. Queste impostazioni sono, per questo autore, carenti, percheÅL sottolineano eccessivamente il condizionamento da parte dell'ambiente esterno, e puntano al mantenimento dell'equilibrio e della stabilita` dell'uomo, “mentre trascurano del tutto le parti del comportamento che sono espressione di attivita` spontanee, come il gioco, il comportamento creativo, e tutte le forme di creativita`”. "Da un punto di vista biologico, - scrive V. Bertalanffy - la vita non e` il mantenimento o il ristabilimento dell'equilibrio, ma consiste, in ultima analisi, nel mantenimento di squilibri, come....rivela la dottrina dell'organismo come sistema aperto. Il raggiungimento dell'equilibrio significa la morte e il conseguente decadimento. Da un punto di vista psicologico, il comportamento non tende soltanto ad alleviare gli stati di tensione, ma anche a costruirne; in mancanza di questo, il paziente e` una salma mentale in via di decadenza, nello stesso identico modo in cui un organismo vivente diventa un corpo in decadimento quando vengono bloccate le tensioni e le forze che lo preservano dagli equilibri" (p.292). Ma questo, secondo V.B., porta necessariamente ad una rivalutazione dello stress, considerato di solito negativamente, che va visto invece anche come stimolo a creare forme vitali a piu` alto livello, e porta a mettere al centro una immagine di uomo completamente diverso. "L'uomo - scrive V.B. - non e` un ricevitore passivo di stimoli provenienti da un mondo esterno, ma, in un senso molto concreto, e` egli stesso a creare il proprio universo " (p.296). Secondo V.B. questo nuovo approccio ha, al suo centro, il concetto di sistema visto sia come relazioni tra le parti che lo compongono, sia come specificita` del contesto in cui un fatto o un fenomeno si situano. Esso inoltre, studiando sia la conservazione che la variazione, sia il mantenimento del sistema, che il conflitto al suo interno, mette al centro della sua analisi quello che V.B. chiama il "processo storico", non visto pero` come qualcosa di completamente accidentale, ma come qualcosa che segue regolarita` o leggi che possono essere descritte, spiegate ed analizzate... e che possono portare anche ad una previsione di quanto avverra` nel futuro, senza pero` negare l'incertezza legata alla liberta` dell'uomo ed alla sua creativita`. Vengono percio` riconfermati, dal V.B., due aspetti cui avevamo dedicato gia` alcuni cenni nei capitoli precedenti, e cioe`: A) l'importanza di non cadere in una visione, che e` stata definita "sociologistica", dell'uomo come semplice pedina, determinata dal suo ambiente, che ci ha portato a sostenere la necessita` di quell'approccio che e` stato definito dell'individualismo metodologico, che lasci spazio ed analizzi quelli che possono essere definiti i fattori personali del comportamento sociale; B) l'importanza pero` anche di studiare quelli che abbiamo definito i fattori strutturali, che condizionano il comportamento umano, senza pero` avere una visione reificata delle strutture stesse, come del tutto esterne all'uomo, ma vedendole come risultato dell'interazione umana. Da questo punto di vista sembrano importanti non solo i fattori personali e quelli strutturali di cui abbiamo gia` parlato, ma anche quelli che possono essere definiti situazionali (L'Abate, 1990, pp.141-149), e che sono al centro dell'analisi dei processi, e cioe` quei fattori che non hanno carattere stabile e definito ma che sono legati invece al comportamento stesso di uno dei partner di un processo interattivo, e cioe`, in termine della teoria dei giochi, la mossa che uno dei due puo` fare, e la reazione dell'altro alla mia mossa. Il che comporta il mettere al centro dell'analisi non tanto una azione singola, quanto la sequenza di azioni e reazioni di due partner in un conflitto o in un processo di interazione. Al centro della mia attenzione non saranno percio` gli atti o i fatti stessi, ma i processi di sequenza di fatti o atti tra di loro. D'altra parte l'elemento che caratterizzano i sistemi rispetto alle strutture sono proprio i processi. Questa e` l'opinione di vari studiosi che si richiamano a tale approccio. Fischer, ad esempio, nello studiare il conflitto come processo attraverso un approccio sistemico, fa notare il salto epistemologico che l'uso di un tale approccio richiede. Invece di cercare la spiegazione dei fatti attraverso la ricerca delle cause che li hanno originati, e cioe`, ad esempio, nella natura dei rapporti tra le persone e le societa` cui esse appartengono, e nella caratteristica dei loro ambienti sociali e fisici; invece cioe` di domandarci "che cosa causa il conflitto e la violenza?" ci si deve domandare "come si verificano il conflitto e la violenza" (in Scherer, Abeles, Fischer, 1981, p. 265). Se vogliamo infatti capire la digestione nel corpo umano, non ci poniamo il problema delle sue cause, percheÅL sappiamo di riferirci ad un processo, a qualcosa che accade sistematicamente nella stessa struttura (in questo caso lo stomaco), a qualcosa che e` preceduto da una sequenza di altri eventi. Sappiamo infatti che la digestione e` solo una fase - indispensabile per il funzionamento dell'intero organismo - di un'intera sequenza di processi che sono in atto nel nostro corpo. Per la sua comprensione percio` ha molto piu` senso chiedersi "come avviene la digestione? ", piuttosto che " cosa la causa ?". Ma come la digestione anche molti fenomeni sociali risultano piu` comprensibili come processi regolari all'interno di una struttura complessa, e non tanto ricercandone la causa o le cause. Il fare una campagna elettorale, il votare od il legiferare, ad esempio, sono dei processi interni ad un sistema politico. Ed anche il conflitto puo` essere visto come un processo interno di sistemi sociali, con una sua regolarita` e con una sua organizzazione, e con una sua storia naturale che e` importante analizzare e confrontare, per comprendere la dinamica. Il processo, in complesso, per Fischer, e` un modello di eventi e gli eventi non sono casuali, ma si ripetono e si susseguono in una sequenza regolare (Ibid. p. 267). Questo significa che dal punto di vista metodologico io dovro` ricostruire quella che e` stata definita la "storia naturale di un evento", e cioe` le varie fasi in cui questo si e` sviluppato in certi casi, e vedere, comparativamente, se questa storia tende a ripetersi anche in situazioni diverse, oppure no. L'analisi dei processi tende appunto a mettere l'accento su quelle sequenze che sono comuni a piu` situazioni. Ma vedremo meglio in seguito, anche grazie ad alcuni casi, come questo puo` essere fatto. Anche Cancrini sottolinea il salto epistemologico che si deve fare quando si vuole studiare il disadattamento scolastico infantile non attraverso le sue cause (ad esempio centrando l'attenzione sul bambino, come disadattato, o sulla scuola, come disadattante) ma come un processo dinamico in corso, il che richiede l'inclusione di ambedue le realta` su citate (bambino e scuola) all'interno di un unico atto di osservazione. Ponendo al centro della sua metodologia quella che e` stata definita la "teoria dell'informazione o della comunicazione" - che abbiamo visto essere una delle componenti della TGS (teoria generale dei sistemi) - scrive Cancrini "la categoria utilizzata dallo studioso della comunicazione e` del tutto diversa: rinunciando all'analisi causale del comportamento, egli rivolge la sua attenzione al contesto comunicativo che lo comprende e alle regole che definiscono il funzionamento di quest'ultimo. Egli si interessa cosi`, piu` che alla verita` o falsita` di alcune proposizioni elementari sulla genesi del comportamento, alle relazioni che legano fra loro i singoli comportamenti (assunti come dato ultimo), non al percheÅL delle cose dunque ma al come" (1974, pp.16-17). 2. Teorie e concetti di base per l'analisi dei processi sociali. Cercando di sottolineare la centralita` dello studio dei processi sociali, e la rottura epistemologica che questo richiede, abbiamo parlato con molta superficialita` di teoria generale dei sistemi (TGS) o di analisi dei sistemi, e dell'esistenza di teorie specifiche, che molti considerano vere e proprie discipline, che in questa prima vengono a rifluire, e che sono la cibernetica, la teoria dell'informazione, la teoria dei giochi e la teoria delle decisioni. Cercheremo, in questo paragrafo, di vedere piu` a fondo l'apporto di queste varie branche della scienza allo studio dei processi sociali. Non pretendiamo pero` di esaurire l'analisi di queste scuole, per cui rimandiamo alla lettura dei testi citati, ma solo di dare alcune indicazioni ulteriori e piu` approfondite su come esse possono aiutare a mettere maggiormente a fuoco la metodologia dell'analisi dei processi sociali, che e` quella che ci interessa in questo capitolo. Nel 1942 in un convegno a New York sull'inibizione cerebrale studiosi di varie discipline, tra cui il matematico N. Wiener, scoprirono nel problema della regolazione un campo di comune interesse che trovera` la sua esplicitazione nel 1949 in un libro di tale autore intitolato appunto "Cibernetica". Nella concezione di Wiener e dei suoi collaboratori la cibernetica e` intesa come la scienza che si interessa allo studio dei messaggi informativi, ma in particolare quelli di comando: i messaggi cioe` che tendono a modificare il comportamento del ricevente. Nella cibernetica l'informazione e` trattata come una quantita` statistica: un segnale e` considerato essere una scelta particolare da un insieme statistico di possibili segnali (si veda la teoria dell'informazione). Nella cibernetica hanno notevole rilevanza le proprieta` formali, che non fanno riferimento al contenuto della relazione ed al genere delle entita` tra le quali essa sussiste. Essa, attraverso la focalizzazione della dialettica tra "materia-energia" e tra "azione-comunicazione", si configura quale modello di regolazione di un sistema per mantenere, raggiungere o modificare un certo stato, sia esso interno o esterno, attraverso il controllo degli input e degli output, sia energetici che informativi. Di solito, per quanto riguarda la regolazione di un sistema, ci si riferisce ai feedbacks negativi, che sono volti al ripristino della situazione prima dell'avvenuto turbamento. Ma sono molto importanti anche i fenomeni di feedback positivo che conducono invece ad un'amplificazione degli effetti e delle dimensioni della deviazione del sistema dallo stato iniziale (Civelli, p.353). Avremo occasione, in seguito, di analizzare il rapporto tra questi diversi fenomeni, ed i vari processi che da questi scaturiscono e che possono essere ritrovati in campo sociale (Boudon,1980). 1) Teoria dell'informazione Molte delle intuizioni della cibernetica hanno trovato uno sviluppo ed un'ampliamento nella teoria dell'informazione. Questa pone al suo centro: 1.1) una fonte di informazione che produce l'informazione grezza, o "messaggio", che desidera trasmettere, 1.2) un trasmettitore che trasforma, o codifica, questa informazione in modo da poter essere trasmessa con il canale a disposizione. Questo messaggio, nella sua forma trasformata, e` chiamato il "segnale", 1.3) il canale sul quale l'informazione codificata o segnale e` trasmesso al punto ricevente. Durante la trasmissione il segnale puo` essere cambiato o distorto. Questi effetti distorcenti sono, di solito, chiamati il rumore, e, nel disegno qui accluso, sono indicati schematicamente come la "fonte del rumore”, 1.4) il ricevente, che decodifica o traduce il segnale ricevuto di nuovo nel messaggio originale, od almeno in una approssimazione di questo, 1.5) la destinazione, e cioe` colui a cui si vuole trasmettere l'informazione. Graficamente questo si puo` rappresentare cosi`: I matematici tendono a considerare l'informazione come una quantita` fisica, come la massa e l'energia, ed hanno sviluppato metodi di calcolo che hanno come base il singolo bit. Questa e` la scelta piu` semplice tra due possibilita` uguali, e cioe` a probabilita` 1/2 (ad esempio quando si getta in aria una moneta per fare testa o croce). L'ammontare di informazione prodotta da una simile scelta e` appunto chiamata "binary digit", o piu` semplicemente un "bit". Attraverso una serie diversa di scelte binarie, si puo` calcolare matematicamente la quantita` di informazione necessaria ad una presa di decisione, e questo permette di costruire una scala, con da un lato il valore zero, quando uno di due eventi e` sicuro che avvenga (ha cioe` una probabilita` 1) e tutte le altre e` sicuro non avverranno (hanno cioe` una probabilita` 0), e, dall'altro lato, la massima informazione necessaria (Log n) - quando invece tutti gli eventi sono ugualmente probabili (la probabilita` e` 1/N) - a causa della grande incertezza dell'evento. Ma gli studiosi di scienze umane hanno invece sviluppato altri aspetti piu` socialmente rilevanti, considerando non tanto la quantita` di informazione trasmessa quanto la sua qualita`, e la comunicazione vista come un processo, come un atto sociale e reciproco di partecipazione, mediato dall'uso di simboli che assumono un particolare significato nei rapporti tra individui e gruppi diversi, oltre agli elementi gia` indicati, e cioe` i messaggi, il segnale, il canale, il rumore, la codifica e la decodifica dei messaggi e i due piu` comunicanti, o trasmettitori e ricevitori dei messaggi. Altri elementi importanti per la comprensione del processo, sono: 1) il contesto della comunicazione. Ogni comunicazione avviene sempre in un contesto ed assume "significato" in rapporto a tale contesto. E' esperienza comune che frasi, constatazioni e comportamenti assumono significato in rapporto alla situazione in cui vengono osservati. Il contesto puo` avere varie dimensioni: A) fisico. L'ambiente entro il quale la comunicazione avviene. Esso ha sempre un'influenza sulla comunicazione, puo` infatti stimolarla, ma anche ostacolarla; B) psicologico. Anche questo e` estremamente importante nell'aiutare il processo di trasmissione e di ricezione dei messaggi. Esso consiste nella cordialita`, o mancanza di essa, nella serieta` o nell'umorismo, nella formalita` o l'informalita` ecc.; C) temporale. Questo include sia il tempo quotidiano, che il tempo storico in cui ha luogo l'atto comunicativo. Anche qui e` esperienza comune che molti messaggi non vengono ricevuti percheÅL trasmessi in un momento (sia del giorno che del processo storico) non idoneo; D) sociale. Il contesto sociale include le relazioni di status tra i partecipanti, i ruoli che essi giocano, i costumi culturali e le norme vigenti nella societa` in cui gli individui comunicano. Ma queste quattro dimensioni non sono autonome l'una dall'altra, ma si influenzano reciprocamente (Monti, p. 448). 2) Feed-back (retroazione o retrocomunicazione) Abbiamo gia` visto come questo concetto sia centrale anche nella cibernetica, come pure nella teoria della comunicazione. In quest'ultima e` di solito la risposta di chi riceve il messaggio verso colui che l'invia, e che permette alla trasmissione di un messaggio di diventare dialogo (o scontro, nel caso di risposta del tutto negativa), e di dar vita cosi` alla comunicazione come un vero e proprio processo. L'esistenza e l'importanza di questo processo fa parlare alcuni studiosi di circolazione dell'informazione e cioe` di rapporto biunivoco tra un fattore A ed uno B (Cancrini, pp.22-23). Ma quando comunichiamo, o scriviamo, un messaggio, possiamo noi stessi avere un feed-back, ascoltandoci o rileggendo quello che abbiamo scritto, sui nostri stessi messaggi (Monti, p. 448) oppure cercando di metterci noi stessi nei panni dell'altro (Mead). 3) Comunicazione digitale e analogica. I sistemi digitali si occupano di elementi discreti. Essi lavorano sul principio del tutto o niente (es. la luce e` accesa o e` spenta). I sistemi analogici si occupano invece di elementi continui, essi lavorano sul principio del piu` o meno (es. il regolo calcolatore). La comunicazione umana fa uso sia di sistemi digitali che di sistemi analogici. La comunicazione verbale, costituita da parole e frasi, e` digitale (le parole e le frasi sono entita` discrete). La comunicazione non verbale, al contrario, e` in gran parte analogica (il sorriso, ad esempio, puo` essere piu` o meno aperto) (Monti, cit. p. 450). Watzlawick, Beavin, Jackson, ritengono il sistema digitale piu` adatto a comunicare i contenuti di un messaggio, e quello analogico, al contrario, i messaggi di relazioni. In ogni comunicazione umana passa infatti una informazione non solo di contenuto, ma anche di relazione. Il messaggio di relazione e` un modo di comunicare che offre all'altro una definizione della relazione tra i due comunicanti, e, di conseguenza, di seÅL stessi. In questo senso informazioni uguali possono corrispondere, in situazioni diverse, a messaggi di relazione completamente diversi. Ad esempio far notare l'ora ha valore completamente opposto quando viene fatto da una persona per giustificare di non trattenersi con noi, oppure percheÅL ci vede stanchi e ci vuole aiutare a farci riposare (Cancrini, p. 29). 4) Conferma, disconferma, negazione Di fronte ad un messaggio di relazione, che si puo` tradurre nella formula "ecco come io mi vedo in relazione a te in questa situazione", possono esserci diversi modelli di risposta che realizzano la percezione del messaggio di relazione ricevuto: a) il ricevente prende in considerazione il modo in cui l'altro si pone di fronte a lui, e prende posizione a riguardo, questa presa di posizione puo` essere sia positiva, e si ha percio` il fenomeno di conferma. L'importanza di questa per la formazione del bambino e` sottolineata di Cancrini sulla base delle teorie di Sullivan. "La personalita` del bambino si forma attraverso la "stima riflessa", e cioe` la stima che proviene dagli adulti piu` significativi per lui " (Cancrini, p.31). La conferma corrisponde alla "validazione consensuale" che Sullivan ritiene abbia un ruolo centrale nella logica dello sviluppo normale del bambino. Il ricevente puo` invece prendere posizione negando la validita` del messaggio di relazione ricevuto. Anche se penosa la negazione puo` essere considerata una necessita` assoluta per lo sviluppo e la stabilita` della personalita` di un individuo. Il ricevente puo` invece ignorare del tutto il messaggio di relazione dell'altro. Si ha in questo caso il fenomeno della disconferma che non riguarda la verita` o la falsita` dell'autodefinizione, ma e` un modo per negare l'esistenza stessa dell'altro. In altri termini non dice "tu sbagli" (negazione), ma "tu non esisti". Manca di fronte a questo tipo di risposta ogni possibilita` di discussione o di verifica. Nello sviluppo della personalita` del bambino la disconferma si puo` tradurre in una totale carenza di aiuto, da parte dei genitori, del suo tentativo di "delinearsi come se`". Secondo Cancrini quando uno specialista etichetta un bambino con una diagnosi psichiatrica tradizionale egli apre la strada ad una disconferma dei rapporti comunicativi di quello stesso bambino, invalidandone del tutto la competenza e la sua possibilita` di essere un allievo. La disconferma sistematica lascia alle vittime solo due strade: la rottura della relazione o il comportamento sintomatico che peggiora progressivamente. Dalla letteratura sull'argomento Cancrini formula l'ipotesi che l'esposizione di un bambino ad una situazione di disconferma sistematica del proprio se` ha, o puo` avere, un'importanza decisiva nello sviluppo di gravi disturbi mentali (Cancrini, p.32-33). Altri elementi del bagaglio metodologico per l'analisi dei processi sociali vengono invece dalla teoria dei giochi, e dalla TGS, o teoria generale dei sistemi (detta anche sistemica). La teoria dei giochi e` nata come branca della matematica per analizzare vari problemi del conflitto, estraendo caratteristiche strategiche comuni per studiarli in modelli teorici - chiamati "giochi" percheÅL modellati sulla base di giochi reali come il bridge, gli scacchi ed il poker. La nascita di questa disciplina e` fatta di solito risalire ad un lavoro di J. Neumann e di D. Morgenstein sui giochi ed il comportamento economico competitivo. A parte la distinzione tra tipi diversi di giochi, in particolare i cosiddetti solitari, quelli a due, o a piu` persone, gli elementi principali che emergono dalla teoria, per una analisi dei processi sembrano essere: 5) Il processo di definizione delle regole L'interazione tra due o piu` individui, o parti diverse di un rapporto, puo` essere considerata come un processo governato da regole. Le regole che definiscono il funzionamento di una relazione sono il risultato di un processo che ha luogo nel tempo, spesso all'inizio le regole sono plastiche e dotate di un potenziale di sviluppo notevole, ma con il tempo vanno incontro ad un irrigidimento, e si fanno difficilmente modificabili sia dall'interno che dall'esterno. L'individuazione delle regole, non solo quelle esplicite, facili da scoprire, ma quelle nascoste e non esplicitate (il corrispondente, nel campo delle regole, delle funzioni latenti di Merton) e` uno degli elementi fondamentali dell'analisi dei processi. Le azioni, i discorsi, gli interventi sono infatti interpretabili come "segni per un nesso" intellegibile solo ad un osservatore in grado di studiare il corso totale delle relazioni in cui un individuo e` immerso. Secondo Cancrini,Watzlawick, Beavin, Jackson, dicono che osservando un gioco di scacchi senza poter chiedere spiegazioni, l'osservatore riesce a comprendere le regole, ma non il comportamento dei giocatori. "Non il percheÅL delle mosse o di una singola mossa dunque, ma il come le mosse dei due giocatori si articolano l'una con l'altra nel rispetto di regole che definiscono il gioco" ( Cancrini, p.31). 6) Le “manovre” Un' altro concetto, derivato dalla teoria dei giochi, utile per l'analisi dei processi sociali, e` quello di "manovre". Si definisce manovra ogni agire comunicativo che mette in discussione, o tenta di farlo, le regole di una relazione gia` stabilita. Gli psichiatri di approccio relazionale, come Cancrini, tendono a considerare molti dei sintomi di disadattamento, o di psichiatria funzionale, come delle "manovre" (Cancrini, ibid. p.38). 7) Giochi “a somma zero” o a “somma variabile” Un ulteriore concetto, utile particolarmente nel campo di studio della risoluzione dei conflitti, e` quello di giochi a somma zero o a somma variabile. I primi sono quelli in cui o si vince o si perde percheÅL la posta in gioco e` fissa e non puo` modificarsi. I secondi invece sono quelli in cui l'interazione stessa porta all'emergere ed alla creazione di poste nuove che possono permettere di vincere e, tutti e due (Patfoort, 1988, 1992, 2006). La presenza di questo secondo tipo di gioco rende possibile soluzioni dei conflitti diverse dall'annientamento dell'avversario, ed hanno aperto il campo ad un nuovo promettente settore di studio delle scienze sociali, quello appunto della risoluzione dei conflitti. 8) La strategia Un ulteriore concetto, derivato da questa teoria e` quello di strategia. L'obiettivo primario dello studio di un gioco nella sua forma estensiva e` l'analisi della struttura di possibilita` definita dalle regole e la sua influenza sulla successiva definizione delle strategie. Questa teoria "proponendo attori "razionali" (che...tendono a massimizzare la propria utilita`), e con una conoscenza del gioco in forma estesa - assegna alle considerazioni strategiche un ruolo esclusivo della scelta della decisione da prendere (Agodi, 1984, p.31). Tutti i libri sulla teoria dei giochi dedicano molto spazio all'analisi empirica di due sistemi d'interazione, utili in particolare all'analisi dell'agire politico ed alla derivazione di alcune strategie, e cioe`: il dilemma del prigioniero, e la struttura del pollo. Il primo tende a mostrare come, in mancanza di un rapporto stretto di fiducia tra due persone, il giocatore e` "costretto" a scegliere una strategia aggressiva, "e` utile scegliere la strategia dell'aggressivita` - scrive Boudon parlando appunto del dilemma del prigioniero - quando si ha ragione di temere che l'altro sia aggressivo. L'aggressivita` puo` cosi` assumere non solo valore offesa :conviene essere aggressivi quando anche l'altro e` aggressivo" (Boudon, cit. p. 44, vedi anche Rusconi, 1984,1988). Nella seconda invece, la cosiddetta "struttura del pollo" ogni giocatore preferisce essere aggredito piuttosto che subire gli effetti catastrofici risultanti da una reciproca aggressione. In questa seconda struttura, scrive sempre Boudon “ognuno riterra` accattivante la strategia dell'aggressivita` solo se ha buoni motivi per credere che l'altro non la scegliera`. L'aggressivita` non e` piu` la strategia dominante, essa e` preferibile alla collaborazione solo se l'altro e` disposto alla collaborazione “(ibid. p.46). 9) Interazione come sistema Ma altri elementi metodologici vengono dalla TGS in particolare la concezione dell'interazione come sistema, e cioe` come un insieme che ha leggi proprie (una "organizzazione") e le cui caratteristiche costitutive non sono spiegabili a partire dalle caratteristiche delle parti isolate. Per descriverle compiutamente sara` necessario dunque occuparsi delle loro parti (i partner della relazione), dei loro attributi (i loro comportamenti comunicativi), delle relazioni che esistono fra i membri (i segni che definiscono il tipo di rapporto che essi hanno stabilito tra di loro) (Von Bertalanffy, p.95 e segg.) In complesso, percio`, un sistema e` una struttura di elementi collegati da vari processi. In un paragrafo successivo analizzeremo i vari tipi di processo, avremo occasione di vedere meglio i rapporti tra diversi sistemi e diversi processi. In questo ci limiteremo ad indicare un ultimo elemento metodologico indispensabile per l'analisi dei processi, e cioe` la distinzione seguente. 10) Sistemi chiusi e sistemi aperti Si definisce chiuso un sistema schermato in modo tale da non permettere l'emissione o l'immissione di energia (sotto forma di informazioni, calore, sostanze fisiche, ecc.) dell'ambiente. Al contrario un sistema e` aperto quando scambia materiali, energie ed informazioni con il suo ambiente. Come sottolineano Watzlawick, Beavin e Jackson questa distinzione e` cruciale per le scienze umane, dato che i sistemi viventi hanno rapporti decisivi con l'ambiente, e sono percio` aperti. La distinzione infatti tra sistemi chiusi e aperti "ha liberato le scienze che si occupano dei fenomeni della vita dalle catene di un modello teorico basato sostanzialmente sulla fisica e la chimica classiche: un modello di sistemi esclusivamente chiusi" (Watzlawick, p.116). Le principali proprieta` dei sistemi aperti sono cosi` indicate da Cancrini: 10.1 totalita`. L'insieme delle parti costituisce qualcosa di piu`, o di qualitativamente diverso, dalla somma delle medesime. Percio` ogni tentativo di studiare isolatamente le parti (attraverso procedure analitiche) non permette di ottenere dati utili alla conoscenza del sistema considerato con un tutto; 10.2 retroazione (feedback) positiva e negativa che abbiamo gia` visto; 10.3 equifinalita`. Si ha quando lo stesso stato finale puo` essere raggiunto da diverse condizioni iniziali ed in modi diversi. I sistemi aperti tendono a mantenere le condizioni di equilibrio, "metabolizzando" le influenze ambientali e "traducendo" le informazioni provenienti dall'esterno in movimenti significativi dei membri del sistema. Ma vediamo ora alcune ricerche che hanno preso come punto di riferimento metodologico le teorie ed i concetti su citati. 3. Esempi di ricerche centrate sull'analisi dei processi 3.1. La "devianza" e i "disturbi psichici" come etichettamento. E' questa una interpretazione molto interessante delle devianze e dei disturbi psichici che gli stessi psichiatri prendono in attenta considerazione, sia, pur, spesso criticandola o facendo vedere i limiti (Yadlensky). L'interpretazione si e` sviluppata come tentativo di rispondere ai limiti di teorie piu` tradizionali della devianza che mettono l'accento o su fattori personali, o su quelli strutturali. Queste altre interpretazioni tendono a non considerare le azioni degli altri significativi che di fatto influenzano la risposta e quindi lo stesso adattamento dell'attore (Cesareo). Inoltre non prendono in considerazione lo sviluppo del fenomeno nel tempo ed il suo processo di costruzione. Per superare questi limiti e` indispensabile tener contemporaneamente conto dei condizionamenti strutturali e delle dinamiche processuali che spingono l'individuo a diventare deviante (Cesareo). Gli aspetti da tener presenti in questa diversa prospettiva, che vede la devianza non tanto come un fenomeno oggettivo ma "soggettivamente definito", sono: 1) La rete delle relazioni con gli altri che assumono un'importanza decisiva nel determinare il destino del deviante; 2) Gli elementi motivazionali nel loro complesso e non sempre congruenti con i comportamenti manifesti; 3) La sequenza degli adattamenti operati dall'individuo che agevolano o ostacolano la configurazione di una vera e propria "carriera" del deviante. In questo approccio, basato sulla teoria interazionista, la devianza, e la "malattia mentale", non sono definite come condotta contraria alle norme, ma come condotta che gli altri percepiscono come contrari alle norme. E questo sottolinea l'importanza dei processi di reazione societaria. In una moderna societa` complessa, scrive Cesareo: "la differenziazione, socialmente significativa, dei devianti dai non devianti, e` sempre piu` contingente alle circostanze della situazione, della collocazione, della biografia sociale e personale, e delle agenzie di controllo burocraticamente organizzate" (ibid, p.144). In questa interpretazione la devianza viene a coincidere con il processo attraverso il quale i membri di un qualsiasi gruppo giudicano determinati comportamenti come devianti, classificano le persone che assumono questi comportamenti nei diversi generi e gradi di devianza, e le trattano secondo modalita` differenziali e discriminatorie. Al centro e` il rapporto bidirezionale tra ego e l'alter, la relazione ad un fatto considerato deviante e` di solito diversa a seconda di chi commette il fatto (es: immigrati, bambini di classi basse, ecc.). La reazione e` particolarmente pesante verso coloro che trasgrediscono la norma coscientemente perchè tale azione "costituisce di fatto una minaccia alla struttura sociale dominante, della quale le norme rappresentano una espressione simbolica " ( ibid.). Becker classifica cosi` i vari tipi di comportamento in rapporto ai vari modi di percezione da parte degli altri. Solo nella 2 e nella 4 c'e` concordanza tra percezione e comportamento. In questo approccio vengono chiamate in causa varie determinanti per spiegare la deviazione e la reazione. Le principali variabili indipendenti sembrano essere: 1) la posizione occupata dal deviante nel sistema di stratificazione; 2) il successo o il fallimento del singolo o del gruppo deviante; 3) l'imposizione di determinate sanzioni formali nei confronti del deviante. Ma oltre a queste variabili "oggettive", l'approccio sottolinea anche l'importanza delle motivazioni proprie di chi e` considerato deviante, trascurate invece da Merton, nella sua interpretazione strutturale della devianza. I fattori che influiscono sul C (- +) sono: 1) l'interiorizzazione delle norme 2) l'eventualita` di perdere l'approvazione o la stima da parte degli altri membri del gruppo 3) il sistema delle sanzioni formali 4) la mancanza di opportunita`. Tutto questo contribuisce a costruire quella che e` stata definita la "carriera" del deviante. Nell'impostazione tradizionale si cerca il "peso" di ciascuna delle variabili indipendenti quali, ad esempio, la classe sociale, il sesso, la situazione familiare, il contesto ambientale, e si trascura invece di individuare la successione con cui essi operano (che e` stata definita la "storia naturale di un evento"). L'approccio interazionista sottolinea invece la necessita` di un modello interpretativo sequenziale. L'attenzione slitta dall'individuo e le sue azioni alla dinamica implicata nel definire socialmente certe attivita` particolari, o certe persone, come devianti. Viene messo sotto fuoco il processo di sviluppo della devianza, processo che risulta avere vari stadi: di "iniziazione", di "accettazione", di "impegno" e di "imprigionamento in un ruolo deviante", a causa dell'azione degli altri. L'analisi del processo e` centrata sulla reazione degli altri (i definitori) verso individui o atti che questi altri che valutano percepiscono negativamente. L'attenzione si sposta dalle azioni dei singoli ai modi nei quali i processi istituzionalizzati di controllo sociale e le definizioni sociali definiscono chi o cosa e` deviante. La vecchia concezione sociale che vedeva il controllo sociale come risposta alla devianza e` cosi` completamente rovesciata. "Sono arrivato a credere - scrivera` Lemert, uno dei sostenitori di questo approccio - che l'idea opposta (e cioe` che sia il controllo sociale a portare alla devianza) tiene ugualmente e che essa sia una premessa potenzialmente molto piu` ricca per lo studio della devianza nella societa` moderna”. Con questa visione sequenziale gli studiosi individuano due tipi di devianza, quella cosiddetta primaria, che nasce accidentalmente sulla base di fattori vari (Scheff chiamera` questo tipo di devianza "infrazione residuale delle regole"); e la devianza secondaria, e cioe` il comportamento di una persona quando essa comincia a "utilizzare il proprio comportamento deviante, o un ruolo basato su questo, come mezzo di difesa, di attacco, o di aggiustamento di problemi aperti o coperti creati dalla reazione della societa` al proprio comportamento" (1967, p.75). Secondo i teorici dell'etichettamento e` la risposta societaria (eterodefinizione) che e` uno dei fattori principali per il passaggio dalla devianza primaria alla secondaria che tende poi ad essere autodefinita. Lo schema accluso, dello Scheff, definisce chiaramente il processo di stabilizzazione della devianza. Il diagramma da` una immagine della complessa natura sistemica del processo. Esso include alcune reazioni che tendono ad amplificare la deviazione, ed a dar vita ad un processo a spirale che tende ad aumentare ed a stabilizzare il fenomeno della devianza. Secondo Cesareo in complesso la carriera del deviante sembra avere alcuni presupposti: A) ripetivita` dell'atto deviante (profilo quantitativo), B) l'assunzione della devianza come elemento caratterizzante la propria personalita` (profilo soggettivo), C) il riconoscimento da parte di alcuni, o di tutti gli "altri significativi", di un preciso comportamento deviante (profilo oggettivo), D) il maggiore o minore sostegno da parte dei gruppi di appartenenza o di riferimento. Che le tesi della scuola dell'etichettamento abbiano molti elementi di fondatezza e` confermato da un celebre esperimento fatto all'interno di certe scuole. Un gruppo di psicologi, visitando alcune classi di ragazzi, ha definito, estraendoli del tutto casualmente, un certo numero di loro come "aventi problemi psicologici e bisognosi di cure". Dopo un certo periodo di tempo una visita di controllo ha potuto constatare che molti di coloro che erano stati definiti a caso come aventi problemi psicologici li avevano effettivamente sviluppati. Il che mostra come la definizione da parte di persone ricoperte da un ruolo professionalmente rilevante puo` provocare il fenomeno che esse sarebbero tenuta ad eliminare, o almeno alleviare o assolvere. 3.2. Il disadattamento scolastico (Cancrini). Come abbiamo gia` visto l'interpretazione di questo fenomeno sulla base della teoria generale dei sistemi porta Cancrini alla rinuncia del tentativo di spiegare il comportamento dell'individuo sulla base di un'analisi delle forze che lo determina dall'interno o dall'esterno, e a spostare il fuoco dell'interesse dall'individuo ai sistemi relazionali di cui egli fa parte. Questo significa analizzare i processi di comunicazione tra insegnanti ed allievi all'interno della classe e vedere come questi variano, ad esempio, con le differenze di linguaggio (sia a causa del dialetto del bambino, sia di una diversa classe sociale di appartenenza tra lui e il maestro). Le limitazioni dei canali, ed altri problemi comunicativi, possono influire sulla comunicazione, e metterla in crisi. Lo schema seguente illustra chiaramente il rapporto tra il processo di comunicazione e le sue possibili crisi. SCHEMA 1. Il cammino dell’informazione: luoghi, tempi e difficolta` possibili Per una analisi piu` approfondita conviene leggere la ricerca in questione estremamente ricca ed istruttiva. Dall'analisi del processo di comunicazione e le sue possibili crisi Cancrini individua cinque tempi del processo di definizione del disadattamento come malattia che portera`, con molta probabilita`, in futuro, il bambino oggetto di tale definizione, ad essere un "futuro paziente psichiatrico". 1) Il tempo del disagio Il blocco del flusso delle informazioni, dovuto ad una pluralita` di ragioni che si possono vedere nello schema 1, viene vissuto con ansia piu` o meno forte sia dal bambino che dal maestro. 1) Il tempo degli appelli. L'insegnante puo` tentare di sbloccare la situazione alzando la voce, offrendo premi o erogando sanzioni. Il bambino puo` ribellarsi, piangere, rifiutare la scuola, o tentare di ingraziarsi l'insegnante. Talvolta gli appelli funzionano, e permettono di ristabilire la comunicazione (o stabilmente, o , almeno, per un certo periodo). Altre volte non funzionano affatto, aumentano il disagio o accelerano l'evoluzione dell'intero processo. Molte volte, ad esempio, dedicare molto tempo ad un bambino difficile privilegiandolo per le sue difficolta` puo` diventare un rinforzo del comportamento disturbato (una specie di circolo vizioso). In modo analogo sgridare un bambino di fronte ai compagni puo` diventare un rinforzo per il suo comportamento aggressivo e spavaldo. 3) Il tempo delle spiegazioni arbitrarie. Questo si mette in moto quando gli appelli non hanno funzionato. Il maestro e` considerato "cattivo", "incompetente" o "molto nervoso". Il bambino "cattivo", "non del tutto normale". ecc. sono queste delle possibili spiegazioni arbitrarie per un sistema interpersonale che cerca dentro gli individui le cause del suo cattivo comportamento. In genere questo tempo e` di breve durata. In questo periodo potrebbe essere di aiuto l'intervento di specialisti che, pero`, di solito, sono chiamati poco dopo, quando si e` cioe` gia` arrivati a sgridare chi puo` essere considerato malato. 4) Il tempo della designazione di ruolo. Uno dei membri del sistema viene formalmente definito come "diverso"; egli e` il responsabile di cio` che sta accadendo. Nei suoi confronti e` necessario procedere con l'adozione di misure pedagogiche e assistenziali "differenziate" (la ricerca di Cancrini e` stata fatta prima dell'eliminazione delle "classi differenziali"). PoicheÅL la designazione di ruolo avviene secondo la regola del potere il "malato" e` di solito (tranne casi di figli di genitori potenti che possono riuscire a rovesciare il processo di designazione) il bambino. La designazione di quel comportamento come tipico di quella persona aiuta a porre fuori del gruppo le ragioni vere di un comportamento incomprensibile che ci riguarda solo come vittime. 5) Il tempo dell'intervento dello specialista. Sulla base della diffusa concezione che il bambino e` difficile "percheÅL" bisognoso di cure particolari", questo tempo si configura come quello dell'intervento di uno specialista. Secondo Cancrini lo specialista che si limita a fornire la diagnosi richiesta si e` ben guadagnata la giornata. A) facendo cosi` egli infatti risolve la tensione del gruppo; B) ha stabilizzato il comportamento degli altri membri del sistema fornendo una valida garanzia per la loro tendenza alla identificazione proiettiva; c) ha dato un contributo non irrilevante alla creazione di una malattia che i suoi colleghi, un giorno, saranno chiamati a curare. Concludendo Cancrini sostiene che, sulla base di questo approccio, la malattia e` la risultante di una serie di processi legati ad una distorsione progressiva dei rapporti tra l'individuo ed il gruppo. Definendola "malattia" essa aumenta la distorsione e contribuisce all'edificazione di se` stessa. Come auspicabile uscita dal circolo vizioso della malattia, e di conferma dell'interpretazione ipotetica da lui delineata, Cancrini parla di "speranza terapeutica collegata a questo tipo di riflessioni...il sistema interpersonale puo` elaborare infatti il cambiamento indotto da un terapeuta capace. L'unica possibilita` di verificare la validita` dell'ipotesi, d'altra parte, sta proprio qui, in un brusco cambiamento dei responsabili di un certo sistema " (p. 274). 3.3. Teoria dei giochi e strategia politica nella Grecia dei colonnelli (K. Finilis). K. Finilis e` un matematico greco, che al momento della pubblicazione del libro (1968) era in carcere, condannato all'ergastolo dai colonnelli, a causa della sua opposizione al regime. Il libro si divide in tre parti, nella prima Finilis fa una esposizione, semplice e chiara, della teoria dei giochi strategici, nella seconda studia i rapporti tra la teoria e l'arte della decisione politica. La terza parte e` dedicata ad applicazioni a situazioni politiche concrete. Tra queste ultime, che includono il problema della guerra e della pace a livello internazionale, oppure la via pacifica e non pacifica al socialismo, ed altre, sembra interessante analizzare il paragrafo che riguarda la guerra civile in Grecia (1946-1949). E' molto probabile, anche se l'Autore non lo dice chiaramente, che sia stata questa la causa della condanna di Finilis. Durante l'occupazione nazista era sorto in Grecia un vasto movimento di liberazione nazionale (Fronte di Liberazione Nazionale EAM). Il movimento pur diretto dal partito comunista, comprendeva numerosi elementi democratici di varie tendenze. Circa il 70% della popolazione sosteneva l'EAM, ma per ottenere la massima collaborazione di forze non comuniste il fronte stipulo` un accordo con il governo greco dapprima col trattato del Libano, poi con quello di Gazerta - in cui accetto` condizioni lesive per l'indipendenza del popolo greco (ad esempio tutte le forze della resistenza venivano poste sotto il comando di un generale inglese). Nel 1944 il comando delle forze armate britanniche e la destra greca chiedono il disarmo dell'organizzazione militare della resistenza (ELAS), senza pero` garantire la costituzione di un esercito o di una polizia nazionale, non legata alla destra. Il fronte non accetto` e, senza alcuna preparazione, ed in ritardo rispetto ai tempi, passo` alla resistenza armata. Ma fu sconfitto e nel 1945 stipulo` il trattato di Varzika che prevedeva il disarmo delle forze dell'ELAS, una limitata amnistia che rendeva possibili forme varie di persecuzione di quanti avevano partecipato alla resistenza armata, ed il diritto all'AEM ed al partito comunista di svolgere liberamente l'attivita` politica. All'inizio del 1946, in mancanza totale di un clima aperto e democratico, (organizzazioni terroristiche di destra violarono l'accordo di Varzika ed impedirono alle forze di sinistra di operare in liberta`, e molti dei dirigenti furono costretti alla macchia), si arrivo` alle elezioni. Secondo Finilis, malgrado una crisi legata alla perdita della precedente resistenza e, malgrado il terrorismo ed i brogli elettorali, le forze di sinistra avevano potenzialmente circa il 30% dei suffragi elettorali, contro circa il 40% della destra, il 18% del centro destra, ed il 12% del centro. Secondo questo studioso le possibili scelte della sinistra, per creare un regime democratico indipendente dall'imperialismo straniero, erano: A1 Insurrezione armata prima delle elezioni. A2 Astensione dalle elezioni e insurrezione armata in un momento successivo, al fine di sfruttare le condizioni esistenti per ottenere una migliore preparazione. A3 Partecipazione alle elezioni e insurrezione armata in un momento successivo. A4 Partecipazione alle elezioni. Tentativi diretti ad ottenere il diritto di svolgere liberamente l'attivita` politica; conquista della fiducia della maggioranza della popolazione con mezzi democratici e pacifici. Preparazione politica e tecnica a un' eventuale guerra civile provocata dalle forze di destra. Le strategie a disposizione delle forze reazionarie erano invece: B1 Instaurazione di una dittatura reazionaria prima delle elezioni. B2 Instaurazione di una dittatura reazionaria quando il regime esistente appare minacciato dalla lotta per l'indipendenza, la democrazia ed il socialismo. B3 Accettazione del regime parlamentare; ricorso alla violenza soltanto nel caso di attivita` illegali da parte della sinistra. Il calcolo matematico delle possibili strategie dell'uno e dell'altro, e dei risultati ottenibili sulla base delle diverse strategie su delineate, permette a Finilis di vedere come la strategia ottimale per la sinistra, che avrebbe sicuramente portata questa a risultati positivi era la A4. In questo caso sarebbe infatti stato possibile ed efficace anche per prevenire la totale instaurazione di uno stato fascista. Le forze reazionarie e fasciste si sarebbero trovate di fronte al dilemma: accettare il regime democratico, o invece ricorrere alla guerra civile. Invece il partito comunista ha scelto la soluzione A2, e non si e` presentato alle elezioni. E questo, secondo Finilis, ha permesso alla destra di affrettare la trasformazione fascista dello stato ed a facilitare il ritorno della monarchia in Grecia. Come si vede percio` l'analisi permette a Finilis di studiare alcune possibili azioni ed altrettante possibili reazioni, e di vedere quali di queste corrispondono maggiormente al raggiungimento di certi obiettivi prefissati e, permette, insieme agli altri esempi da lui analizzati, ma qui non riportati, di vedere se le mosse fatte in una realta` storica possedevano i requisiti richiesti per rispondere a tutti gli elementi presenti nella globalita` della situazione, e potevano percio` essere considerate come mosse effettivamente strategiche. Ma percheÅL questo sia vero i vari piani di azione devono essere elaborati individuando ed analizzando i fattori principali che caratterizzano la posizione concreta dei pezzi della scacchiera. E la realta` non e` vista come qualcosa di prefissato, dei molti racconti storici che presentano i fatti come se non ci fossero alternative, e che, con il senno di poi, dicono e spiegano percheÅL non sarebbe potuto andare altrimenti, ma fa vedere invece l'importanza, per spiegare gli esiti avuti, delle mosse strategiche, fatte o non fatte, e le alternative possibili ma non utilizzate. In questo riappare l'analisi della storia come un processo aperto, e non come un destino. Ma con questo non vorrei fare l'esaltazione della teoria dei giochi nel campo degli studi sociologici. Abbiamo gia` visto che essa presuppone: 1) una completa razionalita` degli attori; 2) una complessa informazione sulle possibili scelte, e sulle conseguenze di queste ultime, cose ambedue piuttosto difficili a realizzare nella realta`. I dubbi percio`, ad esempio, di Giddens, che vede scarse virtu` in questi giochi percheÅL non capaci di cogliere gli elementi stabili dall'agire sociale quotidiano, sono del tutto legittimi. Per Giddens infatti "la dure`e dell'azione umana presuppone intenzionalita`, ma in gran parte essa opera a livello della "coscienza pratica" che non e` oggetto di processi deliberati della decisione: e` piuttosto un orientamento di routine delle basi di condotta " (in Rusconi, 1984, p. 217). Ma non si puo` non essere d'accordo con quanto scrive Rusconi "I meriti della tecnica dei giochi...vanno ricercati...nella capacita` di fissare in modo chiaro rapporti strategici, che riproducono di volta in volta complesse situazioni di interazione, continuamente mutanti anche per l'alto numero di varianti" (Ibid, p. 222). 4. I vari tipi di processi. Ma visto che l'analisi dei processi sociali tende ad individuare i processi presenti nella societa` ed il loro rapporto con i vari sistemi sociali, quali i principali processi emersi finora dalla ricerca sociologica? Boudon ne individua tre tipi diversi: 1) i processi riproduttivi, 2) i processi cumulativi, 3) i processi di trasformazione. Un esempio permette a questo Autore di caratterizzare meglio i tre tipi di processi. Egli cerca di descrivere un processo visto in un preciso periodo temporale e spaziale e cioe` l'incremento del razzismo tra gli operai americani negli anni che seguirono la prima guerra mondiale. La logica del processo e` la seguente: i negri spinti dalle difficolta` economica ed altri fattori salgono verso il nord in cerca di lavoro. Ma i sindacati bianchi li rifiutano percheÅL sono convinti che i negri siano sindacalmente indisciplinati, a causa della difficolta` a trovare lavoro in un mercato controllato dai sindacati. I negri sono costretti a dipendere dai padroni che cercano, grazie a loro, di provocare il fallimento degli scioperi. Naturalmente i pregiudizi dei bianchi sulla pretesa mancanza di lealta` sindacale dei negri viene confermata e rafforzata dal loro comportamento, e tende percio` ad aumentare. Per descrivere formalmente questo processo Boudon individua tre entita` fondamentali: il sistema d'interdipendenza (o d'interazione), il suo ambiente, i suoi esiti. Il sistema d'interdipendenza, che e` l'elemento principale del processo, e` costituito da tre grandi categorie di agenti: gli operai negri, gli operai bianchi sindacalizzati, i padroni. Questi agenti sono caratterizzati da variabili individuali (ad esempio i negri sono mediamente meno istruiti e meno qualificati), e da variabili relazionali (ad esempio: i bianchi hanno dei pregiudizi nei confronti dei negri). L'altro elemento e` invece l'insieme di variabili che possono essere considerate l'ambiente. Questo include delle variabili istituzionali (es: controllo sindacale dell'occupazione, la legislazione relativa al diritto di sciopero, ecc.), delle variabili economiche (es: i problemi del mercato del lavoro negli anni del dopoguerra), e delle variabili storiche (l'opposizione di due comunita` etniche). Il terzo elemento sono quelli che si possono chiamare i prodotti o esiti o output del sistema d'interazione. Nell'esempio qui in analisi uno degli esiti sara` il numero di negri che non riesce a trovare lavoro, un'altro la percentuale di negri che vanno a lavorare per i padroni che cercano cosi` di far fallire gli scioperi. Gli esiti possono essere avvenimenti, o distribuzioni di avvenimento (es. gli individui che fanno parte dell'una o dell'altra categoria), ma possono anche essere correlazioni tra avvenimenti diversi. Graficamente il caso in analisi puo` essere rappresentato cosi`: Le frecce del diagramma rappresentano delle relazioni di causalita` che uniscono tra loro i vari insiemi di elementi. Ad esempio certi dati relativi all'ambiente (es: storia dei rapporti tra comunita` etniche diverse) incidono sugli elementi del sistema di interdipendenza (o d'interazione) (cioe` l'esistenza di due attori distinti: operai bianchi e neri). E cosi` pure gli elementi del sistema d'interdipendenza esercitano un'influenza di tipo causale sugli esiti. I rapporti di questo tipo si trovano in tutti i tipi di processi. Le frecce invece che vanno dagli output al sistema d'interazione (o dagli output all'ambiente) rappresentano il feedback, di cui abbiamo gia` parlato, o effetti retroattivi. Queste si trovano in certi tipi di processi e non in altri. Nel caso specifico qui illustrato la freccia che dall'output va verso il sistema tende a mostrare il fatto che il comportamento antisindacale degli operai negri, costretti ad accettare l'offerta dei padroni per far fallire gli scioperi, convince anche operai bianchi che si erano opposti al "razzismo" dei leaders sindacali, che essi hanno ragione. Il pregiudizio viene percio` rafforzato. Se pero` qualcuno riesce a convincere i parlamentari della necessita` di approvare una legge contro la discriminazione etnica si avrebbe la freccia che mette in relazione diretta l'output con l'ambiente. Infine, lo sviluppo del processo puo` portare ad un tale stato di tensione tra le due comunita`, che e` possibile che i padroni non si sentano piu` di far lavorare i neri. Questi ultimi potrebbero percio` essere indotti a passare da una strategia individualista ad una strategia collettiva di azione sull'ambiente. Ci troveremo percio` di fronte ad una relazione di causalita` diretta tra l'interazione e l'ambiente (la freccia in alto a destra). L'esistenza o la non esistenza di relazioni di causalita` retroattive e` cio` che, secondo Boudon, permette di distinguere tra tipi diversi di processo. I processi ripetitivi, o riproduttivi o bloccati, sono quelli privi di qualsiasi fenomeno di retroazione. I processi cumulativi sono invece quelli che hanno meccanismi retroattivi che vanno solamente dagli output al sistema di interdipendenza (senza alcuna modifica dell'ambiente, ne` diretta ne` indiretta). I processi di trasformazione sono infine quelli che comportano effetti retroattivi diretti, indiretti, o, diretti ed indiretti nello stesso tempo, sull'ambiente stesso. Graficamente Boudon illustra cosi` questi tre tipi di processo: Nel corso del tempo i tre tipi di processo si possono combinare tra loro. Nell'esempio riportato prima, sia pur con una sfasatura dei reciproci tempi, sono presenti sia i processi cumulativi sia quelli di trasformazione. Ma si possono avere anche processi di trasformazione che diventano, in una fase successiva, cumulativi, o anche riproduttivi. Ma vediamo meglio, sempre con l'aiuto di Boudon, in maggior dettaglio, questi tre tipi di processi. 4.1. I processi riproduttivi. L'esempio e` preso da una ricerca nel Bangladesh occidentale. Nel 1970 in questa lo sfruttamento delle terre era basato su rapporti di mezzadria. Il proprietario affittava la sua terra per un ciclo completo di produzione mediante un contratto che conteneva le modalita` di ripartizione del raccolto tra i due contraenti. In genere, con differenze da villaggio a villaggio, al mezzadro che forniva solo il lavoro veniva assegnato il 40% del raccolto. I mezzadri (chiamati kishany) erano quasi sempre indebitati. Una porzione notevole del raccolto veniva dedicata subito al rimborso dei debiti. Dallo studio risulta che pur ricevendo il 40% del raccolto, dopo aver rimborsato la quota al capitale prestatogli e gli interessi, restava loro solo, in media, il 16% del prodotto, e questo non bastava per sopravvivere per tutta la durata del ciclo. Percio` egli era costretto a chiedere un prestito, di solito, al proprietario del suo terreno, ad interessi molto elevati. Il kishan lavora la terra di un proprietario con cui e` indebitato, e che percio` non puo` lasciare senza aver prima restituito tutti i debiti. E' percio` in una condizione molto simile a quella della schiavitu`. Questa dipendenza e` rafforzata dal fatto che il kishan non puo` ricorrere alla banca per un prestito. Gli mancano infatti i requisiti richiesti da queste per tale concessione. Inoltre egli e` vittima delle fluttuazioni del prezzo del riso. Egli rende il prestito tramite il suo prodotto al momento del raccolto, in cui il prezzo e` piu` basso, quando e` invece costretto a ricorrere al prestito per sfamarsi, il prezzo e` molto piu` elevato. Nel contratto c'e` infatti una clausola secondo la quale il raccolto viene valutato al prezzo di mercato, ma la situazione impedisce al kishan anche di uscire dal sistema a causa dei debiti contratti con il padrone. Ci troviamo percio` di fronte a processi riproduttivi, bloccati. Tutti i tentativi di convincere i proprietari ad investire per migliorare l'agricoltura sono di solito vani. I proprietari terrieri preferiscono destinare una parte cospicua delle loro risorse allo sfoggio di ricchezza, piuttosto che usarle per modernizzare la loro attrezzatura. D'altronde il calcolo matematico fa vedere che, in tale situazione, se i proprietari investissero, questo porterebbe, a breve raggio, ad un miglioramento sia loro che dei kishan, ma, a lungo andare, i miglioramenti andrebbero a vantaggio solo dei mezzadri. Questi infatti si vedrebbero aumentare le entrate, e limiterebbero la dipendenza finanziaria dai proprietari. Percio` il processo e` bloccato e puo` essere rotto solo da interventi esterni dell'ambiente (ad esempio, da una nuova legge per i contratti di mezzadria). 4.2. I processi cumulativi. Il caso prima citato, dell'incremento del pregiudizio bianco nei confronti dei negri, almeno nelle fasi iniziali del processo, e` un esempio tipico di processi cumulativi. Myrdal, ad esempio, studiando appunto quel problema, ha parlato di "circolo vizioso", e di "causalita` circolare", la tendenza cioe` all'incremento progressivo del pregiudizio. Un secondo esempio di processo cumulativo e` ripreso da Boudon dalla teoria di Marshall sulla cittadinanza. Marshall sostiene infatti che l'acquisizione di nuovi diritti tende a seguire un ordine, che si puo` definire a "stadi". Dalla storia delle societa` occidentali si puo` notare come le rivendicazioni riguardanti l'uguaglianza sono state applicate prima nel campo giuridico, poi in quello politico, ed, infine, in quello sociale ed economico. Ma i vari campi di applicazione si implicano l'un l'altro nel senso che ogni tipo di uguaglianza e` condizione necessaria, e non sufficiente, del successivo. E' quindi naturale che le rivendicazioni siano state applicate successivamente ai vari campi. Le rivendicazioni politiche, una volta accolte e soddisfatte, hanno fornito ai cittadini delle risorse che gli hanno permesso loro di portare avanti le richieste in campo sociale e cosi` via. Questo tipo di processo cumulativo fa vedere come il soddisfacimento di una categoria di rivendicazioni puo` causare un aumento, piuttosto che una diminuzione, della conflittualita` sociale. Un particolare tipo di processi cumulativi sono i processi oscillatori, con riaggiustamenti del sistema a carattere alterno. Secondo Boudon questo tipo di processi si verificano spesso quando le decisioni degli agenti sociali si prendono in condizioni di incertezza. In tal caso gli agenti tendono a proiettare nel futuro le informazioni che sono valide solo nel presente, creando percio` l'effetto che e` stato definito di profezia auto-distruttrice. La convinzione degli agenti che il presente possa riprodursi nel futuro, ha come conseguenza di rendere il futuro diverso dal presente. Se il fenomeno si ripete l'andamento risultante e` di tipo oscillatorio. Uno degli esempi di questo tipo di processo e` quello della richiesta di insegnanti (o di altri tipi di professione). Se ci si trova in una grossa richiesta a causa della insufficienza di organici questo portera` molti studenti ad intraprendere questa professione. Ma di solito avviene che gli studenti che fanno questa scelta sono molti di piu` dei posti vacanti negli organici. Cosi` ad un certo punto ci sara` una eccedenza di offerte rispetto alle richieste, e molta disoccupazione. E questo dissuadera` i nuovi studenti dall'orientarsi verso quella professione. Gli effetti della dissuasione, per ragioni simmetriche a quelle che hanno fatto protrarre tale scelta oltre il necessario, durera` troppo a lungo fino, ad un certo punto, provocare una nuova inversione di tendenza. 4.3. I processi di trasformazione. Un primo esempio di tale processo l'abbiamo gia` visto nel caso del razzismo operaio americano, nella fase successiva, quando qualcuno (per Boudon un sociologo) convince i politici della necessita` di promulgare una legge (causalita` tra gli output e l'ambiente), oppure quando gli operai neri passano dalla strategia individuale ad una collettiva (causalita` tra sistema d'interazione e ambiente). In ambedue i casi le frecce portano ad agire sull'ambiente per modificarlo. Boudon chiama questo intervento "appello" all'ambiente. In realta` le due componenti hanno diversita` che andrebbero approfondite. Nel primo caso (freccia di sinistra) e` un vero e proprio appello in quanto l'intervento maggiore viene proprio dall'ambiente, mentre dall'output viene solo una richiesta di intervento. Nel secondo caso invece (il passaggio da parte degli operai neri da una strategia individualista ad una correttiva) ci`o` eÅL un intervento molto piu` attivo a livello del sistema d'interazione che, per prima cosa tende a modificare il sistema d'interazione stesso, poi si fa anche (e non solo) richiesta di un intervento esterno da parte dell'ambiente. Un'altra categoria importante ai processi di trasformazione e` quella in cui il sistema d'interazione danneggia l'ambiente provocando cosi` l'intervento degli agenti che ne fanno parte. Boudon chiama questa seconda categoria di processo di trasformazione "aggressione" nei confronti dell'ambiente. Tra gli esempi Boudon cita il blocco degli affitti in Francia prima della seconda guerra mondiale, che ha provocato la degradazione degli alloggi esistenti. I proprietari non trovavano infatti interesse ad effettuare la manutenzione degli immobili. Un altro effetto e` stato quello della paralisi della costruzione di nuovi alloggi, l'autorita` pubblica e` stata quindi costretta ad elaborare una nuova politica degli alloggi. L'esempio citato mostra il carattere particolare dato da Boudon al concetto di "aggressione". Essa intende qualsiasi cosa, spesso anche non cosciente, che possa recare danno all'ambiente stesso. In questo rientrano molti di quei processi, anche non voluti, che egli ha studiato piu` a fondo altrove, e che ha definito "effetti perversi dell'azione umana". Per Boudon in complesso l'inizio di un processo di trasformazione e` segnato da uno di questi due meccanismi: appello dell'ambiente o aggressione nei suoi confronti. Ma egli ritiene indispensabile distinguere anche tra appelli e aggressioni che si concludono rispettivamente con un cambiamento di norme o di valori. Quando una fabbrica isolata inquina l'atmosfera circostante - dice Boudon - (cap. 1) l'aggressione tendera` a provocare l'intervento delle autorita` amministrative che modificheranno le norme di funzionamento dell'officina. Ma quando a danneggiare l'ambiente sono molte fabbriche e l'eliminazione dei danni e` costosa, emergera` un "dibattito sociale" od una "crisi di valori" in cui industrializzazione, crescita, produttivita` verranno opposte al rispetto della natura, al controllo dello sviluppo, alla qualita` della vita. Nel primo caso la soluzione puo` essere trovata a livello normativo, nel secondo invece il tipo di aggressione raggiunge il livello piu` profondo di valori e la risoluzione va trovata a quel livello, ma e` possibile immaginare anche appelli che agiscono anche essi a questi due livelli. Boudon sviluppera` in seguito i problemi e le teorie del mutamento sociale (1985). In questo lavoro egli sottolinea comunque la pluralita` dei processi che possono portare al cambiamento distinguendo tra cambiamenti che avvengono dall'interno del sistema di interazione (endogeni), come gli esempi analizzati fin qui, e cambiamenti avvenuti nell'ambiente (esogeni). La teoria sulla divisione sociale del lavoro di Durkheim rientra nella seconda: l'aumento della densita` sociale della societa` provoca una serie di cambiamenti cumulativi che si connettono l'uno con l'altro e modificano profondamente il volto della societa` stessa. Ma Boudon mostra come spesso la distinzione tra endogeni ed esogeni e` molto labile e come ci sia un continuo interscambio tra queste due categorie, e come il cambiamento sociale possa servire da molte fonti sia da conflitti tra gruppi sociali, sia da innovazioni tecnologiche, sia da cambiamenti di valori, od anche della struttura della personalita`. 4.4. I processi di strutturazione e di destrutturazione. Abbiamo gia` detto come vari sociologi, piuttosto che parlare della struttura sociale come di qualcosa di fisso, immodificabile, preferiscono parlare dei processi di strutturazione e di destrutturazione (Gurvitch). E gli Autori di cui abbiamo parlato all'inizio di questo capitolo e che si rifanno al "modello di processo" vedono anche loro come centrale il processo di costruzione o decostruzione della struttura, piuttosto che considerarla come qualcosa di stabile. Sono questi processi una categoria molto importante di quelli che Boudon ha chiamato come processi di trasformazione e conviene percio` darvi un certo spazio. Due studiosi Hall e Fagen hanno cercato di approfondire i processi che portano a mutamenti della stessa struttura del sistema. Essi distinguono, in particolare: A) processi di segregazione progressiva. In questi il sistema perde entitivita`, ed il suo centro si sposta dalla totalita` alla sommativita` (gli elementi discreti aumentano di peso). Cio` puo` accadere sia in processi di decadimento del sistema stesso, sia in processi di crescita del sistema, quando questa si traduce in un suo aumento di differenziazione interna, e nell'aumento delle interdipendenze dei subsistemi. B) processi di sistematizzazione progressiva. Avviene il processo opposto, il sistema acquista entitivita`, il centro si sposta dalla sommativita` alla totalita` (gli elementi discreti perdono di peso). Cio` puo` accadere sia per il rafforzamento di relazioni preesistenti tra le diverse parti che lo compongono, sia per lo sviluppo di relazioni tra parti prima non collegate, sia per aggiunta di nuove parti o di nuovi tipi di relazioni al sistema, sia infine per una combinazione dei casi precedenti (in Gubert, p.1934). Un altro Autore che ha lavorato in questo campo e` W. Buckley. Il processo di mutamento strutturale e` definito da W. Buckley "morfogenesi". Secondo questo studioso esso ci puo` permettere di comprendere la dinamica comune di molte trasformazioni sociali avvenute, o in atto (ad esempio il modo in cui le moderne istituzioni occidentali si sono sviluppate attraverso la crisi dell'ancien regime, o l'istituzionalizzazione dei rapporti tra capitale e lavoro). Il modello di Buckley assume un sistema di componenti interagenti con una fonte di tensione interna, impegnato in un continuo scambio con un ambiente in variazione, all'interno ed all'esterno. Quest'ultimo tende a diventare selettivamente tracciato in una qualche mappa nella sua struttura. Il modello include percio` una fonte di varieta` da cui attingere, un numero di meccanismi selettivi che vagliano e provano questa varieta` ambientale rispetto ad alcuni criteri di vitalita`, e processi che tendono a vincolare e perpetuare la varieta` selezionata per un certo periodo di tempo. Percio` la struttura di un sistema e` vista in un insieme di azioni alternative, o tendenze ad agire in modi determinati, associate alle componenti, e di vincoli che specificano o limitano queste azioni alternative. La genesi dell'organizzazione e` percio` la generazione di questi insiemi di alternative e dei vincoli che le definiscono. In un sistema aperto - sostiene Buckley - il "funzionamento normale" delle sue istituzioni genera costantemente un input di varieta` e tensioni contribuendo a un processo continuo di "elaborazione della struttura" e riorganizzazione (Buckley, cit. pp. 131-133). Questo processo di morfogenesi, che ha alla sua base i meccanismi di retroazione (o feedback) positivi, caratteristici dei processi che si autoalimentano (a pag.205 li abbiamo visti come processi di amplificazione che Boudon definisce cumulativi), e` contrapposto da Buckley a quello di "morfostasi" che tende a mantenere il sistema - grazie al feedback negativo - in una data forma, organizzazione o stato, tramite un complesso di scambi con l'ambiente (e` il processo omeostatico che tende a ristabilire l'equilibrio del sistema - a pag. 205 l'abbiamo visto come processo di controllo). Mi sembra importante, in questo paragrafo sui processi di strutturazione, far un sia pur rapido cenno alla teoria della strutturazione di Giddens che ritengo essere uno dei tentativi piu` riusciti di mettere a fuoco i processi che danno vita ad una struttura sociale. E', secondo me, un buon esempio, di come, partendo dall'analisi dei processi, si puo` arrivare a mettere insieme quelli che abbiamo definito i fattori personali (ad esempio l'ansieta` o i motivi inconsci), con quelli strutturali (potere, sanzioni, ecc.), con altri che abbiamo definito "situazionali" (i processi interattivi). Egli parte da una critica di varie teorie, ma in particolare di quelle strutturaliste percheÅL in esse non si riconosce che la struttura e` attivamente riprodotta, o alterata, dagli agenti in interazione, e tendono invece a vedere la struttura come una forza esterna, ex cathedra, costrittiva che trasforma gli esseri umani in robots o sempliciotti eterogestiti. Egli vede invece la struttura come qualcosa che ha effetti sia costrittivi che abilitanti, che e` implicata, e riprodotta, dalla routine giornaliera delle persone che interagiscono. La struttura sociale e` attivamente prodotta, riprodotta e trasformata dalle capacita` degli agenti. L'analisi strutturale e` cosi` ricollegata all'andamento del processo di interazione, ma in contrasto con le teorie interazioniste, che tendono a dimenticare la "struttura" - negando a questa un carattere sostanziale - od a vederla solo come qualcosa di dato, una "cornice", all'interno della quale si sviluppa il processo interpersonale, Giddens da` molta importanza al modo in cui l'interazione diventa "sedimentata profondamente nel tempo e nello spazio". Ma in contrasto con molte teorie funzionaliste - come abbiamo gia` visto - le istituzioni non costituiscono una "costrizione esterna" ma un processo di riproduzione da parte di attori in situazioni di compresenza (Turner, p.460-475). Ma vediamo meglio con l'aiuto di Turner, e di uno schema da lui elaborato (ibid.) gli elementi principali della teoria di Giddens. Per Giddens la struttura puo` essere concettualizzata come le "regole" e le "risorse" che gli attori usano in "contesti interattivi" che si estendono attraverso lo "spazio" e lungo il "tempo" o usando in questo modo le regole e le risorse gli attori sostengono e riproducono le strutture nello spazio e nel tempo. Ma per Giddens gli attori possono trasformare le regole in nuove combinazioni quando si confrontano e trattano l'uno con l'altro nelle situazioni contestuali particolari della loro interazione. Il potere invece non e` una risorsa, come sostiene la maggior parte della teoria sociale. E' al contrario la mobilizzazione di altre risorse cio` che da` all'attore il potere di realizzare i propri obiettivi. Percio` il potere fa parte integrante della stessa esistenza della struttura, poicheÅL, quando gli attori interagiscono, essi usano le risorse, ed usandole, mobilitano il potere per modellare le azioni degli altri. Egli considera le regole e le risorse come "trasformazionali" e "mediative", ritiene cioe` che possano essere trasformate in molti modelli e profili. Le risorse possono essere mobilizzate in vari modi per portare avanti iniziative e raggiungere gli scopi attraverso l'esercizio di varie forme e livelli di potere, e le regole possono dar vita a molte diverse combinazioni di metodologie e di formule per guidare le persone su come comunicare, interagire e adattarsi l'uno all'altro. Le regole si trasformano in due tipi di base di processi mediativi: (1) normativi, ovvero la creazione di diritti e doveri in un certo contesto; (2) interpretativi, ovvero la generazione di schemi o di insiemi di conoscenze date per acquisite in un contesto. Ma Giddens sottolinea come le regole e le risorse nel mondo reale empirico siano interrelate ed esistono simultaneamente; e cosi` pure l'uso del potere, delle sanzioni, e dei mezzi di comunicazione sono interconnessi, come le regole e le risorse. Nei sistemi sociali, in cui le persone sono copresenti ed interagiscono, il potere e` utilizzato per assicurare un insieme particolare di diritti e di doveri, come pure come un sistema di comunicazione; ed al contrario, il potere puo` essere esercitato solo attraverso la comunicazione e le sanzioni. In complesso percio` Giddens vede la struttura sociale come qualcosa utilizzata dagli attori e non come una realta` esterna che spinge e muove intorno gli attori. Percio` le regole e le risorse, che costituiscono la base della struttura sociale, possono essere trasformate mentre gli attori le utilizzano in ambienti concreti. La struttura sociale e` percio` trasformabile e flessibile, e` "parte" degli attori in situazioni concrete, ed e` usata da loro per creare modelli di relazioni sociali attraverso lo spazio e lungo il tempo. La strutturazione e` un processo duale nel quale le regole e le risorse sono usate per organizzare l'interazione nel tempo e nello spazio ma, nello stesso tempo, grazie a questo uso, riproducono o trasformano queste regole e risorse (Turner, pp. 461-464). Ma questa impostazione costringe Giddens a riconcettualizzare l'istituzione. Egli vede vari tipi di istituzioni. Le prime tra queste sono gli ordini simbolici, o modi del discorso, e i modelli di comunicazione che sono prodotti e riprodotti soprattutto (l'ordine non e` esclusivo ma prioritario) dall'uso delle regole interpretative (di significato). Le seconde, le istituzioni politiche, che sono prodotte e riprodotte, soprattutto dall'uso di risorse autoritative (dominio). Le terze le istituzioni economiche, che sono prodotte e riprodotte soprattutto dall'uso di risorse allocutive (dominio). Le quarte le istituzioni giuridiche che sono prodotte e riprodotte dall'uso delle regole normative (legittimazione) (Turner, p.465). Ma un altro aspetto importante e` quello che puo` essere definita la dinamica dell'agente, e` cioe` come si passa dai motivi inconsci dell'agire ai modelli istituzionalizzati. Giddens vede un passaggio continuo, una specie di crescita, che fa si che l'agente umano si faccia attivo e trasformi l'istituzione. Secondo Giddens il primo gradino, di questa ipotetica strada, sono i motivi inconsci che sostengono la sicurezza ontologica e cioe` l'acquisire fiducia dal rapporto con gli altri e ridurre l'ansieta`, questi attraverso altre pressioni inconsce, una interpretazione attraverso la coscienza pratica, ed una razionalizzazione attraverso la coscienza discorsiva, fa pervenire l'agente umano al monitoraggio riflessivo delle proprie azioni. Da queste ultime, attraverso l'interazione con altri in contesti specifici (i sistemi sociali), si giunge ai modelli istituzionalizzati nei due contesti considerati rilevanti da Giddens, e cioe` quelli regionalizzati, e cioe` collocati nello spazio, e quelli routinizzati, e cioe` il passaggio dall'interazione episodica, transitoria, a quella piu` fissa, stabile. E' impossibile qui far comprendere tutta la ricchezza della proposta di Giddens, vorrei solo concludere cercando, sempre con l'aiuto di Turner, di vedere come nella teoria della strutturazione Giddens cerchi di unire elementi che provengono da scuole molto diverse, che finora sono state isolate l'una dall'altra. Cosi` dalla teoria psicanalitica egli prende l'importanza dei motivi inconsci ed il bisogno della sicurezza ontologica, dalla fenomenologia e l'etnometodologia egli prende la distinzione tra coscienza pratica e coscienza discorsiva. Dall'interazionismo, soprattutto dalla drammaturgia, egli prende l'importanza dei sistemi sociali di interazione e i concetti di contesto regionalizzati e routinizzati. Dalla teoria funzionale egli prende il concetto di proprieta` strutturali delle istituzioni e di insiemi strutturali. Infine dallo strutturalismo prende il concetto di struttura, di principi strutturali, e la centralita`, in questo, delle regole e delle risorse. Che sia riuscito o meno nel suo desiderio piuttosto ambizioso, non e` il compito di questo lavoro che voleva solo mostrare come, attraverso l'analisi dei processi, si possa passare da un concetto che e` sempre stato visto come sinonimo di stabilita`, di fissita`, di permanenza, come appunto la "struttura sociale", ad un concetto flessibile e dinamico, continuamente in moto di costruzione e di decostruzione, e come, nella centralita` di questo processo abbia importanza quella stessa impostazione di "individualismo metodologico" cui Giddens si richiama ripetutamente ed al quale porta un contributo non indifferente (Giddens 1979, pp.94-95, 1984, pp. 207-221 e 224-226). Vorrei chiudere qui questo paragrafo cosciente di non aver per niente esaurito il tema dei diversi tipi di processi. Ma l'obiettivo non era questo. L'analisi di tutti i processi sociali, anche come semplice tipologia, richiederebbe un libro a se stante. Non per niente abbastanza recentemente, e` stato pubblicato un manuale di sociologia che rivede tutti i contenuti di questa disciplina sulla base di questo concetto (Shibustani, 1986). Ma il compito che mi proponevo era molto piu` limitato. Dare solo un'idea di possibili processi per far comprendere meglio, cosa che cerchero` di fare nell'ultimo paragrafo, cosa puo` significare, dal punto di vista metodologico, mettere al centro dell'attenzione del ricercatore i processi sociali e non, le cause, o personali o strutturali, dei fenomeni, ne` le loro funzioni. 5. Alcune indicazioni metodologiche. Che indicazioni metodologiche emergono da quanto abbiamo detto finora sull'analisi dei processi sociali? La prima considerazione mi sembra quella che, malgrado in alcune parti di essa, come il processo decisionale, od il calcolo delle quantita` di informazione, siano applicabili strumenti matematici spesso molto sofisticati, il metodo in se` e` eminentemente qualitativo. Infatti esso e` focalizzato sull'individuazione dell'andamento di un certo fenomeno, per vedere se il suo svolgimento si sviluppa secondo certe regolarita`, ed eventualmente scoprire le regole sottostanti alle regolarita` stesse. E' tipico di questo metodo, infatti, individuare varie fasi di un processo. Un esempio di questo sono le cinque fasi che Cancrini individua nel rapporto insegnante-alunno disadattato, oppure il passaggio dalla devianza primaria a quella secondaria dei teorici dell'etichettamento. Gli strumenti principali di questa metodologia sembra essere, o la ricostruzione di storie di vita delle persone allo studio, o la ricostruzione di quella che e` stata definita la storia naturale di un evento, e cioe` le fasi successive in cui si sviluppa, oppure la ricostruzione storica dettagliata (con molta attenzione alle date di un avvenimento per vedere cosa viene prima e cosa dopo) di un fenomeno storico di cui si vuole ricostruire appunto quello che e` stato definito un "processo storico". In quest'ultimo caso il lavoro del sociologo non e` molto differente da quello di uno storico, e anche lo studioso del processo ha un approccio eminentemente ideografico descrittivo, ed utilizza quella che abbiamo definito una "teorizzazione classificatoria" piuttosto di quella causale o assiomatica. E' certo comunque che il lavoro non si esaurisce nell'analisi dettagliata dell'andamento di un fenomeno (ad esempio il rapporto tra governo e studenti manifestanti negli avvenimenti che hanno portato ai tragici fatti di Tien An Men in Cina). Ma lo studioso dei processi sociali cerca anche di vedere se l'andamento ha simiglianze con altri piu` o meno simili (ed in questo confronto possono essere di aiuto anche strumenti matematici), e se si puo` individuare delle regole con cui questo si sviluppa. Solo in seguito - ed anche qui si differenzia dall'approccio quantitativo classico che di solito inizia con ipotesi precise su un certo problema e cerca, attraverso la ricerca, di verificarle o falsificarle - cerca di costruire delle ipotesi sulle regolarita` osservate e di sviluppare idee sui meccanismi che possono generare tali regolarita`, e percio` alla fine, cerca di spiegarci il fenomeno in questione. In questo il suo metodo e` simile a quello che e` stato definito "etogenesi" (Harre`, Secord, 1978) che cerca di far emergere anche da eventi apparentemente disordinati (come, ad esempio, il rumore dei ragazzi nelle scuole, o la violenza negli stadi) dei sistemi di ruoli o di significati condivisi, ed usa un approccio eminentemente induttivo, dai fatti à alle regolarita` à alla interpretazione, piuttosto che quello deduttivo, tanto sottolineato come l'unico metodo scientifico valido. Ma non vorrei dare l'idea, che ho rifiutato nel capitolo su qualita` e quantita`, dell'esistenza di quelle che talvolta sono state definite due metodologie: quantitativa e qualitativa. In realta` anche nell'analisi dei processi si possono utilizzare metodi quantitativi, come avremo occasione di vedere ora analizzando una proposta metodologica. 5.1. Lo studio sequenziale dei rapporti interattivi. I processi interattivi sono diventati oggetto di molte ricerche e riflessioni metodologiche (tra queste Lamb, Suomi, Stephenson, 1979; Cairns, 1979). Tra le tante analizzate mi sembra importante dar conto di una riflessione metodologica che ci puo` aiutare a superare il distacco tra metodi quantitativi e qualitativi, e che si pone l'obiettivo di studiare fenomeni come i processi che hanno un aspetto sequenziale. Il libro cui faccio riferimento si intitola appunto "Observing interaction: an introduction to sequential analysis" di R. Bakeman e J. Gottman (1986). Gli Autori partono dalla constatazione che spesso, in passato, i ricercatori interessati agli aspetti dinamici del comportamento interattivo - alla sequenza percio` del comportamento - hanno utilizzato delle misure di interazione essenzialmente statiche. Essi si pongono l'obiettivo, percio`, di mostrare i dati dell'osservazione in modo da preservare l'informazione sequenziale, ma anche di analizzare i dati in un modo che valorizzi ed illumini, la sua natura sequenziale. Essi infatti ritengono che una visione sequenziale offra le migliori possibilita` per far comprendere i processi dinamici d'interazione sociale. Se ci poniamo infatti il problema di capire cosa puo` succedere in un rapporto di coppia, se uno dei due partner non e` d'accordo, o si lamenta, e se questi comportamenti sono diversi tra marito e moglie, o tra coppie problematiche o meno, si ha la necessita` di investigare i processi sociali attraverso l'analisi sequenziale. Per gli Autori "sequenziale" significa un approccio che esamini come il comportamento che si sviluppa nel tempo, come una sequenza di eventi relativamente discreti, di solito sulla base del susseguirsi di un momento o di un evento all'altro. Ma questo richiede di osservare accuratamente non solo la sequenza di stati, ma anche l'informazione sul bilancio del tempo, di ognuno di questi stati. Secondo gli Autori il processo di osservazione sistematica deve iniziare ponendosi il semplice scopo della descrizione. Solo man mano che si acquista familiarita` ed esperienza con i fenomeni analizzati, si puo` incominciare a capire quali variabili potrebbero essere piu` importanti, e quali meno, e si puo` cominciare a mettere un po` d'ordine alla ricerca, anche sulla base di alcune ipotesi di quello che ci si puo` aspettare di trovare. "La cosa meravigliosa a proposito della ricerca osservazionale - scrivono gli Autori - e` quella che massimizza la possibilita` di essere sorpresi" (p.17). Secondo i due studiosi pero`, il pericolo di un approccio che fa sorgere le ipotesi a posteriore dell'analisi stessa (hypothesisgenerating approach) e` quello di osservare tutto, e di essere sopraffatti ed annegati dai troppi dati raccolti. Tra questi due atteggiamenti percio`, quello di partire con ipotesi precostituite, che possono essere un impedimento ad una valida osservazione, e quello invece di far sorgere le ipotesi attraverso la stessa osservazione, gli Autori suggeriscono un "equilibrio consistente con lo stile stesso del ricercatore" (ibid.). Un valido schema di codifica delle osservazioni e` secondo B. e G., l'elemento piu` importante per il successo di uno studio osservazionale. Ma non e` semplice, necessita molte ore di osservazione informale (o diretta o con videotapes, e di discussioni tra i ricercatori) e varie versioni, successivamente raffinate, dello schema di codifica. In questo schema devono essere incluse le distinzioni principali, le categorie, le tassonomie che riteniamo importanti per l'analisi. Gli Autori considerano lo schema di codifica come una ipotesi informale da verificare attraverso la ricerca. Loschema seguente sintetizza i quattro possibili schemi di codifica, con i loro vantaggi o svantaggi. (Ibid. p.68) Gli Autori ritengono che lo schema di codifica debba essere prescelto sulla base delle domande che si pone la ricerca, ma ritengono che la codifica degli eventi (con o senza l'osservazione degli inizi e della fine, o con il prendere nota del tempo dei cambiamenti di andamento), e la codifica degli eventi intersecanti, puo` essere piu` utile per l'analisi sequenziale degli altri due. Per quanto riguarda la rappresentazione dei dati osservati essi propongono quattro metodi: 1) La semplice presentazione della sequenza degli eventi ordinati sulla base dell'ordine in cui sono avvenuti, 2) la sequenza del tempo: ogni evento e` ordinato in una sequenza di eventi, con un numero che indica il tempo che e` durato, 3) i dati con una "cornice" del tempo: ogni cornice rappresenta un intervallo nel tempo ed indica le codifiche effettuate al suo interno. Questo permette agli eventi di essere contemporanei, e lascia piu` aperte le conclusioni, 217 4) vengono indicati solo gli eventi intersecanti, e cioe` il passaggio da una fase, o da un andamento, ad un altro. Ma anche questi non sono piu` o meno validi in assoluto, ma vanno scelti sulla base dei bisogni di una analisi particolare. Ma anche l'elaborazione dei dati, se si vuole mantenere il carattere sequenziale, richiede particolare accorgimenti. Le statistiche piu` utili sono per gli Autori: 1) le frequenze; 2) la probabilita` semplice (o percentuali); 3) la durata media degli eventi; 4) la probabilita` transizionale. I primi tre sono piuttosto tradizionali. Le frequenze ci dicono quanto spesso un particolare evento e` successo, essi possono essere utili per il calcolo di eventi momentanei e relativamente infrequenti (es: atti aggressivi, o l'espressione aperta di affettivita`, ecc.). La probabilita` semplice (o percentuale) ci dice quale proporzione di tutti gli eventi sono stati di un certo tipo (se basate sugli eventi), o che proporzione di tempo e` stata dedicata ad un particolare tipo di evento (se basate sul tempo). La durata media degli eventi permette di sapere con esattezza quanto sono durati gli episodi di un evento. Ma la piu` originale, e` la quarta, la "probabilita` transizionale". Questa e` basata sul calcolo di quante volte ad un determinato atto, ad esempio, si ha una reazione di un certo tipo, o di un altro, oppure se e` piu` frequente il passaggio da A e B o da A e C ecc. Questo permette di cogliere, in modo semplice e preciso, gli aspetti sequenziali dei dati osservazionali, che possono anche essere rappresentati graficamente in "diagrammi di transizione di stato". Come si vede percio` l'invenzione di nuovi calcoli, o indici, puo` essere, secondo gli autori un metodo importante per portare avanti l'analisi sequenziale. |
Capitolo 5 IL PROBLEMA DELLA GUERRA E DELLA VIOLENZA ANALIZZATO ATTRAVERSO I VARI METODI DI ANALISI 1) L’analisi causale Come abbiamo gia` visto questo metodo di analisi presuppone l’individuazione dei fattori che incidono sul fenomeno allo studio, in questo caso la guerra, e che rispondono percio` alla domanda “percheÅL?”. Ma come abbiamo gia` detto anche l’analisi strutturale risponde a questa stessa domanda., la differenza che terremo presente per distinguere questi due tipi di analisi sara` mettere nell’analisi causale i fattori a carattere personale, in onore all’individualismo metodologico da me prescelto, e quelli a carattere collettivo, ma a carattere episodico, che avvengono qualche volta, ma non sono legati a dei veri e propri fattori strutturali che li rendono non transitori e persistenti. I) Le cause personali Una delle cause personali piu` importanti per comprendere il diffuso ricorso alla guerra per diverse ragioni e` sicuramente la diffusa credenza che l’uomo sia per natura aggressivo, e che ci sia la tendenza alla sopravvivenza del piu` forte, e che, quindi, solo le persone, e le nazioni, aggressive possano persistere nel tempo. Queste credenze richiamano la teoria hobbesiana dell’ ”homo homini lupus”, e l’interpretazione corrente della teoria darwiniana della “sopravvivenza del piu` forte”. Per fare i conti con questa cultura e` necessario analizzare la concezione dell’essere umano, sia quella diffusa da queste antiche teorie, sia quelle emergenti dalle ricerche scientifiche piu` attuali. Secondo Hobbes (1976) la natura umana e` fondamentalmente egoistica, determinata solo dall'istinto di sopravvivenza e di sopraffazione. Se gli uomini si legano in amicizie o societa`, regolando i loro rapporti con le leggi, cio` e` dovuto soltanto al timore reciproco. Nello stato di natura, uno stato cioe` in cui non esista alcuna legge, ciascun individuo, mosso dal suo piu` intimo istinto, cerca di danneggiare gli altri e di eliminare chiunque sia di ostacolo al soddisfacimento dei propri desideri. Ognuno vede nel prossimo un nemico. Da cio` deriva che un tale stato si trovi in una perenne conflittualita` interna, in un continuo bellum omnium contra omnes (letteralmente "guerra di tutti contro tutti"), nel quale non esiste torto o ragione (che solo la legge puo` distinguere), ma solo il diritto di ciascuno su ogni cosa (anche sulla vita altrui). La seconda importante base di questa concezione corrente, e` l’interpretazione comune delle teorie darwiniane come quelle che portano alla “sopravvivenza del piu` forte” che sono state molto influenzate dalla corrente definita del “darwinismo sociale” introdotta in sociologia da H. Spencer (1961). Com’e` noto Darwin afferma che in un mondo di popolazioni stabili, dove ogni individuo deve lottare per sopravvivere, quelli con le "migliori" caratteristiche avranno maggiori possibilita` di sopravvivenza, e di trasmettere quei tratti favorevoli ai loro discendenti. Col trascorrere delle generazioni, le caratteristiche vantaggiose diverranno dominanti nella popolazione. Questa e`, percio`, la selezione naturale. Spencer riprende questa teoria e la trasporta nella societa` stessa, dando percio` vita al quello che e` stato definito il “darwinismo sociale”. Ma secondo uno studioso italiano che ha approfondito questo tema, le idee di questi due studiosi sono state interpretate in modo scorretto. A. La Vergata, (2005) scrive infatti che il problema che si cela dietro i vari richiami al darwinismo sociale e` la guerra, con l’ uso ideologico del pensiero di Darwin ai fini di aiutare a comprendere meglio, ed anche a giustificare, questo fenomeno. Questo uso ha portato - sostiene La Vergata - a vedere la guerra come strumento per eliminare la sovrappopolazione e, soprattutto, i cattivi soggetti (i poveri soprattutto), o come mezzo per l’ educazione dei popoli, oppure, a livello religioso, come strumento per punire i cattivi, od a livello psicanalitico come parte della natura umana, infine a quello storico-mondiale, come motore del progresso umano. “ Così - scrive La Vergata - tra chi si rassegna e tra chi invece si rallegra, la guerra appare una condizione inevitabile se non addirittura desiderabile” (ibid., p. 14). In realta`, secondo questo studioso, mentre gli ideologi della guerra elaboravano le loro giustificazioni, basandosi su una interpretazione non corretta di queste teorie, i maggiori studiosi dell’800, compresi Darwin e Spencer (tra quelli la cui opera sarebbe, secondo la vulgata, alla base del darwinismo sociale) concordavano, sia pure con diverso accento, sul fatto che lo sviluppo delle facolta` intellettive, connesso o meno con la selezione, rendeva inutile il valore selettivo della guerra. “Al contrario scrive La Vergata -- questi studiosi presero a sottolineare i possibili effetti contro-selettivi della guerra. L’opinione sostenuta era, cioè, che la guerra fosse diventata un anacronismo destinato a scomparire in un futuro più o meno lontano. La guerra, convenivano tutti, aveva avuto un ruolo positivo in passato ma questo ruolo ora non esisteva più”. Secondo questo ricercatore, infatti, tra questi studiosi era diventato luogo comune: “L’idea che la guerra fosse stata necessaria nelle prime fasi dell’evoluzione sociale, quando solo il linguaggio della forza poteva essere capito da uomini rozzi e selvaggi, ma che, esaurito il suo compito, fosse destinata a scomparire in virtù dell’evoluzione spontanea delle cose” ( ibidem. p. 104). Da queste, e da altre ricerche, emerge che l’essere umano ha un “istinto di sopravvivenza” (Patfoort, 1988, 1992, 2006; Lecocq J. F.,1980, p.57), ma che questo istinto non necessariamente prende il carattere di aggressivita`, come spesso si ritiene. Se si va, infatti, a vedere gli animali che sono sopravvissuti questi non sono stati i piu` forti, come i mammut o i dinosauri, ormai ricordo di un lontano passato, ma piuttosto quelli che avevano una maggiore capacita` di convivere e di collegarsi con i loro simili (Kropotkin, 1982). Ma anche altri studiosi: psicologi, antropologi, sociologi, etologi hanno dimostrato che alla base del fenomeno guerra, di solito collegato all’aggressivita` cosiddetta naturale dell’uomo, c’e` piuttosto un atteggiamento completamente diverso, e cioe` la “passivita`” dell’essere umano nei riguardi di coloro che detengono il potere e che usano la guerra ed i conflitti armati per accrescere il proprio potere economico e politico. Uno degli studi piu` noti, in questo campo, e` quello di uno psicologo nord-americano, Milgram (1975). Non staro` qui a riferire alla lettera questo notissimo esperimento, di cui ho gia` parlato lungamente in un mio precedente lavoro (L’Abate, 1990, pp. 125-130), ma solo a vederne i risultati che concordano in pieno con la tesi della passivita` dell’essere umano. Egli, con una ricerca sperimentale, ha studiato il comportamento di soggetti a cui un'autorita` (nel caso specifico uno scienziato) ordina di eseguire delle azioni che confliggono con i loro valori etici e morali. Il risultato e` stato quello di una obbedienza molto elevata (oltre il 60%), anche quando le persone del campione sapevano che la loro azione poteva compromettere la salute della persona oggetto di questa sperimentazione. Da questa esperienza Milgram ne ha tratto la convinzione che l’obbedienza ad una autorita` considerata legittima, induce la persona ad uno stato eteronomico, caratterizzato dal fatto che il soggetto non si considera piu` libero di intraprendere condotte autonome, ma come strumento per eseguire ordini. Questo esperimento e` stato ripetuto varie volte, anche in Italia ed in Germania, con risultati non molto dissimili, ma anzi addirittura peggiorativi mostrando, in questi due paesi, una tendenza all’obbedienza acritica ancora piu` elevata che negli USA. In una variante dell’esperimento, quando il livello della sanzione comminata all’allievo che sbagliava la risposta veniva lasciata alla stessa persona che deve eseguirla, i livelli di obbedienza si abbassavano notevolmente. Questo porta Milgram a sostenere come le ragioni di quel comportamento che puo` portare danno all’altro non vanno ricercate nella sua tendenza all’aggressivita` ma piuttosto nel meccanismo di ubbidienza agli ordini. Un’altra variante richiede al soggetto del campione di assolvere solo ad azioni secondarie che, anche se indispensabili, gli evitano di essere lui stesso a comminare la sanzione. In questo caso il livello di obbedienza sale addirittura oltre il 90%. Scrive la studiosa che riporta questi dati (Lecocq M., 1976): “Da qui si puo` comprendere tutto il pericolo di sistemi burocratici e gerarchici nei quali gli individui, coperti dall’autorita`, si sentano sganciati da ogni responsabilita`”. Un secondo esperimento, di uno psicologo statunitense di origine italiana, Philip Zimbardo (2008) porta a conclusioni simili. In questo esperimento si simulava la vita all'interno di una prigione (a Stanford), con partecipanti assegnati casualmente al ruolo di prigionieri o carcerieri. L'esperimento, che doveva durare 2 settimane, e` stato sospeso dopo sei giorni, percheÅL era diventato una 'spirale senza controllo'. Gli allievi che, per caso, venivano scelti per assumere il ruolo dei carcerieri si immedesimavano talmente in questo ruolo da creare negli altri grossi problemi di stress e di “burn out”. Zimbardo si chiede come faccia una persona buona, "normale", a diventare improvvisamente "cattiva". Quali dinamiche spingono a questo cambiamento? La risposta e` chiara: il potere. Gli esseri umani sono fatalmente attratti dal potere di controllare gli altri e questo accade in particolare quando il sistema lo permette. Secondo Zimbardo, percio`, non bisognerebbe guardare tanto alle predisposizioni individuali, ma ai contesti psicologici e sociali che creano, mantengono o modificano i comportamenti degli individui. Secondo le sue conclusioni la cultura psicologica e sociologica ha commesso l’errore di sovrastimare le influenze delle singole predisposizioni sottovalutando gli stimoli provenienti dall'ambiente. Ma altre conferme da parte di altri psicologi sociali dell’importanza della passivita` nei riguardi del potere nel diffondersi di azioni aggressive ed anche criminali si hanno anche dagli studi sul comportamento prosociale (Mussen, Eisemberg- Berg, 1985) oppure quelli sul comportamento dello spettatore inerte, che pur non svolgendo lui stesso i crimini, li osserva senza reagire (Zamperini, 2001). Questa scoperta degli psicologi dell’importanza del condizionamento dell’ambiente esterno sul comportamento piu` o meno aggressivo dell’essere umano, viene confermata dagli antropologi culturali che hanno studiato, e confrontato tra di loro, popolazioni cosiddette primitive nelle quali prevalgano comportamenti di questi diversi tipi, e le radici culturali di tale preminenza. Tra queste le piu` note sono le ricerche di R.Benedict (1970), della M. Mead (1937), e di A. Montagu (1968, 1978, quest’ultimo tradotto in italiano, 1987). I sociologi danno talmente scontata l’importanza del condizionamento esterno sul comportamento dell’essere umano da portare alcuni di loro a criticare quello che hanno definito “la concezione ultrasocializzata dell’uomo” (Wrong, 1961), oppure a denunciare il “sociologismo” (Boudon, 1980), mettendo percio` in discussione la tendenza di molti dei loro colleghi a non tener conto della responsabilita` individuale dell’agire, e di dare tutte le colpe di quanto avviene di brutto al mondo (criminalita`, violenza gratuita, guerre, ecc.ecc.) alla societa` esterna, rischiando percio` di trasformare l’essere umano in una marionetta agita dall’alto. Queste scoperte dell’erroneita` della concezione che alla base della guerra ci sia l’aggressivita`, cosiddetta naturale, dell’essere umano, sono state confermate da un gruppo di scienziati di molti paesi del mondo, provenienti dalle discipline piu` importanti, che riuniti a Siviglia, hanno formulano, per l’UNESCO, una fondamentale dichiarazione su questo tema. In questa sostengono, tra l’altro, che” è scientificamente scorretto sostenere che nel corso dell'evoluzione umana c'è stata una selezione del comportamento aggressivo più che di altri tipi di comportamento…La violenza non è parte della nostra eredità evolutiva né risiede nei nostri geni… Il modo in cui agiamo dipende dal modo in cui siamo stati condizionati e socializzati…La guerra moderna implica un uso istituzionale di caratteristiche personali come l'obbedienza…così come "le guerre cominciano nella mente degli esseri umani", anche la pace comincia nella nostra mente. La stessa specie che ha inventato la guerra può inventare la pace” (Adams, 1991). Quanto detto mi sembra sufficiente a confutare la tesi dell’aggressivita` umana come causa delle guerre e sostenere invece quella opposta della sua passivita` nei riguardi del potere. A conclusione di questo vorrei solo citare un antropologo culturale,di formazione medica, che ha studiato a fondo questo problema, Montagu “La maggior parte della gente nelle societa` ‘civili’ viene coinvolta nelle guerre non perche` si senta aggressiva nei confronti di quello che viene socialmente definito come il ‘nemico’, ma percheÅL i suoi leader che a loro volta raramente sono motivati da sentimenti aggressivi ritengono necessario fare la guerra. Ed una tale convinzione non ha assolutamente nulla a che vedere consentimenti universali o con istinti, ma per lo piu` con necessita` politiche” (Montagu, 1987, p. 8). Nel mio testo su citato (1990) tra le cause personali della guerra mettevo anche l’educazione. Infatti questa tende usualmente a premiare il comportamento di ubbidienza alle autorita`, chiunque esse siano, ed a punire invece la disobbedienza (Fromm, 1982). E questo tende a rinforzare il problema prima citato della passivita` nei riguardi del potere. Un altro fattore personale da me citato era la paura delle sanzioni che vengono comminate contro chiunque non obbedisca alle regole del gioco, o agli ordini dei superiori. Nel caso di guerra la sanzione verso chi si oppone ad ubbidire, e ad uccidere dei suoi simili, e` stata, per molto tempo, fino al recente riconoscimento del diritto all’obiezione di coscienza (presente pero` non in tutti i paesi), addirittura la morte per fucilazione. Si pensi, ad esempio a JaÅNgerstaÅNtter, il contadino austriaco condannato a morte percheÅL, come cristiano, non voleva uccidere suoi simili. Ma poche persone sono disposte a subire delle pene, spesso anche molto severe, rifiutando di obbedire ad ordini, anche se questi sono, da loro, considerati ingiusti. E questo a sua volta tende ulteriormente a rinforzare il problema prima analizzato della passivita` verso il potere. L’ultima causa personale da me presa in analisi, sempre nel libro citato, era la “deumanizzazione dell’avversario”. Il nemico non viene considerato un essere umano, ma un essere di razza diversa. Eibl-Eibesfeld (1999), un etologo, allievo di Lorenz, che ha studiato a fondo il problema della guerra, per spiegare percheÅL, mentre tutti gli animali sono aggressivi e fanno la guerra ad appartenenti di altre specie, l’uomo e` l’unico “animale” che fa la guerra ed uccide persone della stessa specie, ha coniato il termine di “pseudo-speciazione”. Scrive Eibl Eibesfeld : “Nel corso del processo di pseudo-speciazione culturale i gruppi umani si sono separati gli uni dagli altri, come se appartenessero a specie diverse. Quindi i controlli innati dell’aggressivita`, i quali, come nel caso degli animali, disinnescano l’aggressivita` intraspecifica, nel caso dell’uomo funzionano soltanto nei conflitti interni ai gruppi”. All’interno del proprio gruppo stanno i veri ‘uomini’, mentre gli estranei sono considerati ‘nonumani’. “E’ sulla base di un indottrinamento di questo tipo scrive questo studioso - che si sviluppano codici culturali che legittimano l’uccisione dei membri di un gruppo diverso dal proprio” (ibid., p.173). Ma come si vede anche questa causa rimanda a quanto detto prima della passivita` della persona nei riguardi delle autorita` e dei codici culturali da queste trasmessi ai propri sudditi. Per questo l’educazione ‘critica’, come sostiene Fromm, non e` molto ben vista dalle autorita` di tutti i paesi. II) Cause sociali economiche e politiche, ma episodiche, della guerra Abbiamo gia` accentato alla distinzione tra cause episodiche e strutturali. Queste ultime le vedremo nel prossimo paragrafo. Qui analizzeremo le cause che, pur avendo a che fare con le entita` collettive come gli stati, o raggruppamenti di questi, non hanno un carattere permanente. Tra questi ci possono essere cause sociali e politiche, ad esempio uno stato in crisi con una forte disoccupazione interna che minaccia la sua stabilita` puo` vedere una guerra esterna come uno strumento per spostare l’attenzione della sua popolazione dai problemi interni a quelli esterni, e nello stesso tempo dare occupazione ad un numero notevole di persone impegnate per condurre la guerra. Gli esempi di questo sono tanto elevati da essere entrati persino all’interno della letteratura. Shakespeare, ad esempio, sottolinea questo aspetto attraverso la storia dei re plantageneti in Inghilterra: Enrico III, guerra civile; Edoardo I, guerra esterna; Edoardo II, guerra civile; Edoardo III, guerra esterna; Riccardo II ed Enrico IV, guerra civile; Enrico V, guerra esterna; Enrico VI, guerra civile. Questa alternanza era cosi` netta, e lo scopo della guerra esterna come strumento di superamento dei problemi interni cosi` chiaro, che Shakespeare fa dire, in una sua tragedia, ad Enrico IV morente che parla al suo principe erede Enrico V: ”sia il tuo destino quello di tenere occupate le menti scervellate con litigi internazionali” (in L’Abate, 1990, p. 151). Lo stesso si puo` dire per le cause economiche. La guerra esterna puo` essere vista da certi stati come uno strumento per la conquista di nuovi mercati e per dar forza alla propria industria (non secondariamente anche delle proprie industrie costruttrici di armi), o per conquistare o controllare zone con una forte presenza di risorse energetiche (petrolio, gas, ecc.) che sono indispensabili al mantenimento del proprio stile di vita, e del proprio modello di sviluppo. E’ interessante vedere nelle carte geografiche con la dislocazione di queste fonti energetiche come le maggiori risorse siano proprio nelle aree del nostro globo in cui sono in atto guerre, o si minaccia di farne altre (Iraq, Afganistan, Iran). D’altra parte gia` Eisenhower, che di guerra se ne intendeva essendo stato il comandante delle forze alleate in Europa durante la seconda guerra mondiale, nel suo discorso di commiatoalla na zione dopo essere stato eletto Presidente degli Stati Uniti per due volte,il17 Gennaio 1961, aveva ammonito la popolazione del suo paese a stare attenta al complesso militareindustriale che non era affatto interessato alla pace ma che avrebbe tentato, per mantenersi in vita e potenziarsi, di portare il paese verso sempre piu` guerre. E se si pensa che nel 2005, secondo i dati di uno dei piu` importanti centri di ricerca mondiali su questi problemi, il SIPRI (2007) gli USA erano i massimi venditori di armi del mondo (il 62,9 % di tutte le vendite di armi del mondo) la lezione del Presidente Eisenhower non sembra essere stata recepita dai suoi concittadini. Ma purtroppo gli USA non sono i soli paesi che puntano alla costruzione ed alla vendita di armi (in particolare verso i paesi emergenti, come la Cina e l’India che sono tra i piu` grandi acquirenti di armi del mondo) come strumento di sviluppo economico interno. Il secondo paese venditore, in quello stesso anno, e` infatti l’Inghilterra con l’11,8% delle armi vendute a livello mondiale, e la Francia al terzo posto (con il 6,9 %). L’Italia, che in anni precedenti era all’ottavo ed anche persino al tredicesimo posto tra i venditori, in quell’anno risulta essere la quarta (con il 3,8%). E questo fa emergere il fatto che il complesso militare-industriale (a cui, grazie a grossi finanziamenti in ricerca dei militari qualcuno aggiunge anche lo scientifico) non e` solo potente negli USA, ma ha un grosso peso anche in Europa che molti vedrebbero invece come un contrappeso pacifico al militarismo degli USA. D’altra parte, come ha scritto giustamente Bonhoeffer (1970), pastore evangelico tedesco morto nei campi di concentramento nazisti per la sua lotta contro i crimini di quel regime, le “armi uccidono anche se non vengono usate”. Infatti, secondo gli studiosi di questo settore, gli investimenti in armamenti portano un decimo di occupazione rispetto a quelli fatti in campo civile, ed i paesi che hanno avuto uno sviluppo maggiore dopo la seconda guerra mondiale sono stati proprio il Giappone e la Germania (in terza posizione l’Italia) che, a causa delle limitazioni giuridiche poste dagli accordi di pace, non potevano avere un esercito, e quindi hanno riversato i propri finanziamenti al settore civile. Che anche la religione possa essere un fattore non trascurabile che porta alla guerra e` un dato presente in molta della letteratura specializzata. Non per nulla ogni tanto riemergono le crociate e le guerre sante, anche se questa volta non sono piu` quelli che prima erano chiamati gli “infedeli” ad esserne oggetto, ma la direzione sembra rovesciata, e sono questi ultimi (in particolare Bin Laden con la sua organizzazione Al Qaeda) a predicare la guerra santa contro i popoli cristiani. Ma anche qui se si va a vedere le analisi scientifiche di questi problemi il fenomeno si fa piu` complesso. Richardson (1960), uno dei primi studiosi che ha analizzato a fondo i problemi della guerra e della pace, aveva trovato una associazione positiva tra lingua cinese, religione confuciana e la pace, e tra lingua spagnola, le religioni cristiane e mussulmane e la guerra. Mentre Galtung, secondo studi piu` recenti, sostiene che i popoli che fanno piu` guerre sono quelli che credono in un dio al di sopra degli uomini, vendicatore degli infedeli, e che tendono a dividere, in modo manicheo, i popoli tra buoni e cattivi, (quelle posizioni religiose che Galtung definisce come “dure” sia nel cristianesimo che nell’Islam, ed in altre religioni del mondo), mentre quelle che hanno posizioni “dolci”, e che vedono il dio non all’esterno degli esseri umani ma al loro interno (come il buddismo, o anche certe sette cristiane, come, ad esempio, i quaccheri) sono quelle piu` pacifiche (Galtung, 2000). Ma avendo studiato a fondo il ruolo della religione nel conflitto jugoslavo mi sono convinto che, almeno in quel caso, avevano ragione gli studiosi che ritenevano il fattore religioso non come quello principale ma come secondario, utilizzato da uno o l’altro dei governanti per un appoggio alle proprie posizioni politiche egemoniche (L’Abate, 1997). Ma nel mio libro del 1990, che aveva sviluppato a fondo queste tematiche, concludevo la trattazione di questo tema sulle cause della guerra con un invito ad un approccio multi-causale ,o meglio ad una causalita` complessa circolare. Williams, ad esempio, sosteneva: “Nessun conflitto rilevante ha mai avuto quella unica e semplice causa a cui spesso e` stato attribuito” (1973). E Levi scriveva: ”Qualsiasi teoria delle cause delle guerre in generale, o di qualche guerra in particolare, che non sia inerentemente eclettica e comprensiva, e cioe` che non tenga conto, per lo sviluppo di essa, della rilevanza di ogni sorte di fattori diversi, e` destinata, proprio per questa ragione, ad essere errata” (1972, p.11). Ma per analizzare il fenomeno guerra ho utilizzato, in altro mio lavoro (L’Abate, 2008, pp.19-27), il concetto di causalita` circolare, detto anche “principio di cumulazione”. Questo e` un tipo di causazione studiata da G. Myrdal, noto sociologo-economista svedese, che e` stato incaricato di dirigere una delle ricerche piu` importanti sul comportamento razzista verso le persone di colore negli USA. Ma dato che questa in realta` piu` che all’analisi causale vera e propria si avvicina e fa parte di quella processuale analizzeremo quell’approccio e quel tentativo nel paragrado dedicato a quel tipo di analisi. 2) L’analisi strutturale della guerra Come abbiamo accennato, in questo paragrafo tratteremo di quelle cause della guerra legate ad aspetti piu` stabili e continuativi delle strutture sociali e politiche, rispetto agli altri gia` visti che hanno un carattere piu` contingente, episodico, come lo abbiamo definito. Certo la religione, di cui abbiamo gia` parlato, non sembra essere qualche cosa di facilmente modificabile. Ma la sua interpretazione, ed i suoi precetti, possono essere modificati anche sensibilmente se alla guida di una o dell’altra di queste, viene chiamata una persona o un’altra. Ad esempio la Chiesa Cattolica di Papa Giovanni XXIII, almeno per una persona come me che non fa parte di quella religione, sembra molto diversa da quella dell’attuale papa: la prima improntata ad una grande apertura verso le altre posizioni sia politiche che religiose (Cavagna,1996), la seconda molto piu` chiusa e rigida, sia a livello politico che religioso. Infatti l’attuale papa, pure aprendosi al dialogo con le altre religioni, parte dalla convinzione che la sua sia quella vera. E questa e` una posizione molto diversa da quella propugnata da Gandhi nel suo dialogo tra le religioni (in cui ognuna di queste ha la sua parte di verita` che si puo` cogliere nella sua interezza solo accettandole tutte, e mettendosi insieme) ed a cui si rifa` anche Amartya Sen (2006). Questi infatti, per arrivare alla pace, vede l’importanza di un dialogo tra le religioni, ma alla pari, e non con una di queste su un piedistallo (o su un trono). Ma lo stesso si puo` dire per la cause sociali, politiche ed economiche, che abbiamo messe, anche queste, tra quelle episodiche, transitorie. Anche per queste infatti vale quanto detto per la religione. La politica portata avanti da G.Bush junior, la cui vittoria elettorale, oltre che ai noti brogli fatti dal fratello nello stato da lui guidato, e` stata in gran parte dovuta ai grossi finanziamenti per la sua prima elezione dati dai costruttori e venditori di armi del suo paese, e` stata sicuramente diversa, sotto molti aspetti, soprattutto rispetto al clima ed agli accordi di Kyoto, ma probabilmente anche per la seconda guerra in Iraq, da quella che avrebbe portato avanti il suo concorrente di allora Gore, da lui battuto per una manciata di voti. Ma quando questi diversi gruppi di potere si riuniscono tra di loro dando vita, appunto, a quel complesso militare-industriale di cui ha parlato, alla fine dei suoi due mandati presidenziali Eisenower (a cui, come gia` accennato, va aggiunto anche quello scientifico dati i grossi finanziamenti per ricerca destinati dai militari a questo settore, considerato da loro come di importanza strategica) non siamo piu` in una situazione transitoria, ma diventa una aspetto fondamentale della struttura sociale e politica, tanto da condizionarla fortemente. E questo non vale solo per gli USA, dove le raccomandazioni di Eisenhower sono state presto dimenticate dai suoi successori, ma anche per molti dei paesi d’ Europa, compreso il nostro, nei quali il peso di questo stesso complesso si fa sentire notevolmente, anche al di sopra dei partiti che in quel momento sono al potere. Ma questo ci richiama quanto detto nel capitolo sull’analisi strutturale, in particolare parlando del modello feudale di Galtung, che, secondo me, ci puo` aiutare a comprendere meglio il problema della guerra e dei rapporti internazionali vigenti. Infatti, data l’attuale situazione mondiale in cui il bilateralismo Est-Ovest ha lasciato spazio ad quello che potremmo definire un unilateralismo imperfetto, con gli USA come quasi unico potere mondiale, e dato il peso, in questo paese, di quel complesso militare-industriale-scientifico su citato, si puo` ragionevolmente utilizzare, come buona approssimazione alla realta` attuale, il modello feudale da lui individuato. Egli sottolinea una diversa capacita` connettiva a secondo del livello di potere e di centralita` acquisito da ciascuno dei partner di una partita, con quelli in cima (che lui definisce in modo molto colorato “cani di razza”) che ne hanno 4, quelli intermedi 2 , e quelli in fondo (i “bastardi”, ovvero le periferie del sistema) solo 1. Ma questo comporta, dal grafico successivo a pag.161 , che la distanza tra i primi, che rappresentano il centro del sistema feudale, e` minima (in quel grafico 1) mentre quella tra le periferie e` alla meglio 2, ma in molti casi anche 3 o 4. Quindi, come abbiamo gia` accennato illustrando questi grafici, i centri sono strettamente collegati tra di loro, mentre le periferie sono collegate tra di loro solo tramite i centri cui sono legate. Da qui Galtung fa derivare la struttura dei rapporti imperialistici (graf. 2 a pag. 161) che si basa sul fatto che: 1) mentre i centri hanno tra di loro una armonia di interessi, le periferie non ce l’hanno; 2) che anche all’interno del centro e della periferia c’e` a sua volta un centro interno ed una periferia interna, che sono diversi di grandezza a seconda siano nel centro o nella periferia, con il centro molto piu` grande nella prima che nella seconda; 3) il centro della nazione centrale ha una specie di avamposto, opportunamente scelto, nel centro della nazione periferica con il quale intrattiene rapporti stretti e privilegiati (armonici); 4) dato inoltre che la disarmonia tra centro e periferia interni ai due sistemi politici (paesi del centro e quelli della periferia) e` molto maggiore nei paesi periferici, anche la periferia della nazione centrale tende ad avvantaggiarsi dell’intero assetto e dei rapporti squilibrati tra nazione centrale e nazione periferica, e questo tende a porla in situazione disarmonica con la periferia della nazione periferica. Da qui, e dalla persistenza di questi rapporti, a seconda dei tipi di scambio privilegiati negli specifici rapporti, Galtung fa derivare i cinque tipi di imperialismo: economico, politico, militare, delle comunicazioni, culturale, individuando anche i reciproci contributi (del centro e della periferia) al mantenimento di questo rapporti (si veda il graf. 4 a pag. 162). Il modello successivo da me elaborato, e che ho definito di ispirazione gramsciana, riportato in quella stesso capitolo dell’analisi strutturale, e` basato sulla dicotomia dei rapporti di classe ed urbano rurali. Questo puo` servire a rinforzare, e forse anche ad integrare, quanto emerge dal modello di Galtung. Esso (riportato a pag. 163 di questo manuale), avendo quattro attori principali (classe dominante: urbana Au, e rurale Ar; e classe dominata: urbana Bu, e rurale Br), come gia` accennato in quel capitolo, permette di superare il limite dei rapporti bipolari in cui le interazioni sono, o conflittuali o cooperative, mostrando la possibilita` di coesistenza di rapporti sia conflittuali che cooperativi, e sottolineando l’importanza strategica di alleanze (ad esempio tra Bu e Br) che non rinforzino i rapporti di dominanza ma che anzi tendano a superarli. Da questo modello emerge anche la scarsa capacita` innovativa di azioni e di lotte di Bu che non tengano conto anche dei rapporti urbano-rurali, limitandosi ad una richiesta corporativa di maggiori salari e maggiori privilegi, che, se ottenuti, tendono a rendere Bu alleata di Au nel rinforzo dei rapporti di dominanza verso Br. E tende anche a sottolineare come la classe piu` oppressa dalla situazione attuale, e quindi la piu` interessata ad un cambiamento radicale del sistema politico attuale, non sia la Bu, per i privilegi gia` da questa ottenuti nei riguardi di Br, ma proprio quest’ultima, soprattutto quando si prende in considerazione non una singola nazione, ma il sistema “mondo”, e si vede Br incarnata nei paesi sottosviluppati che sono quelli che soffrono di piu` degli attuali rapporti imperialistici nei loro riguardi, e che percio`, secondo le tesi del marxismo terzo-mondista (Zitara, 1972) sono quelli che hanno mantenuto la loro capacita` rivoluzionaria. Ma torneremo su questo tema piu` tardi quando cercheremo di vedere cosa questi modelli ci possono insegnare per modificare la situazione attuale . Ma altre cause che possiamo definire strutturali della guerra, collegate anche queste, probabilmente, a quel complesso militare-industriale-scientifico gia` accennato, sono state trovate da molti altri ricercatori. Haas (1968), ad esempio trova che i popoli che investono molti soldi nei preparativi militari, e che utilizzano interventi militari e polizieschi per problemi politici interni dei loro paesi, sono anche quelli piu` inclini ad entrare in guerra; mentre i paesi che hanno una politica piu` integrativa nella quale queste due agenzie coercitive tendono ad essere relegate in piccole sfere di competenza, tendono invece ad restare fuori dai conflitti internazionali. “Giudicando dalla variabile ’spese militari’ scrive Haas la deterrenza da una posizione di forza risulta non funzionare” (ibid. p.89). Ma questa correlazione tra militarizzazione di un paese, con rispettivi alti livelli di spesa per strutture belliche, e la frequenza delle guerre, e` stata trovata anche da vari altri ricercatori (Midlarsky, Thomas, Wallace, Van der Dennen). Scrive, a questo proposito, quest’ultimo studioso: “Gli aumenti nei livelli di armi sembrano essere il fattore chiave nella trasformazione delle tensioni generate dalla struttura dei rapporti internazionali alla belligeranza aperta…Questo tende ad invalidare la teoria molto diffusa che gli armamenti non siano in se stessi causa della guerra, ma solo il riflesso delle tensioni generate da altri fattori che sarebbero le vere cause. Questo non risulta vero” (ibid, p.159). Un'altra causa profonda della guerra l’ha trovata Margaret Mead (1937, 2002) studiando, comparativamente, tredici diverse culture di popolazioni primitive. Essa ha trovato che le popolazioni primitive che danno molta importanza alla proprieta` privata per usi personali sono anche quelle piu` competitive ed aggressive. Ma non staro` qui a dilungarmi su altri aspetti strutturali di causalita` delle guerre. I lettori interessati potranno trovare un approfondimento di questo tema nel mio paragrafo ”Fattori sociali e strutturali” del mio libro del 1990 (pp.136-141). Qui vorrei solo, a conclusione di questo paragrafo, indicare alcune delle soluzioni che emergono da questa analisi delle cause strutturali della guerra, in particolare sulla base dei due modelli strutturali citati in precedenza (Galtung e L’Abate). Quali indicazioni ci danno per trovare alternative utili a superare lo stato attuale delle cose, ed andare verso una societa` piu` pacifica e meno squilibrata di quella presente?. Il modello di Galtung e` molto chiaro, ed e` riportato sul lato destro nel diagramma 3 a pag.162: e cioe` la triade defeudalizzata. Nel sistema feudale le uniche interazioni sono di tipo verticale, a senso unico dall’alto verso il basso. Come e` gia` accennato nel capitolo relativo, invece nel sistema defeudalizzato vengono aggiunti tre tipi di interazione:1) quella verticale dal basso verso l’alto che rende l’interazione reciproca bidirezionale; 2) l’interazione orizzontale tra le due periferie che tende a superare il distacco tra le periferie ed a dar vita ad un rapporto triangolare equilatero, diminuendo le distanze tra le periferie che prima erano al minimo di 2 e che diventano di 1, come quella verso l’alto; 3) viene creato un nuovo centro, legato alle due periferie, che si pone in alternativa al centro originario, dell’alto, superando percio` il monopolio dei rapporti interattivi di quest’ultimo, e mettendo anche in discussione le sue decisioni. Questo richiama la strategia di Lin Piao (ex collaboratore di Mao, ma da questo fatto fucilare per gelosie interne) della campagna che accerchia la citta`. In pratica unendo le periferie tra di loro, e mettendo insieme il loro reciproco potere, il potere originale del centro, di tipo imperialistico, viene messo in discussione, e parte la ricerca di un potere piu` condiviso che, se volessimo usare l’insegnamento di Capitini, potremmo chiamare “il potere di tutti” (1969,1999). Dal punto di vista di una strategia generale del movimento per la pace questo indica la necessita`, di fronte all’attuale processo di globalizzazione che va a vantaggio dei piu` forti (i cani di razza), ed aumenta la distanza tra questi ed i piu` deboli (i poveri bastardi), di cominciare a stringere i rapporti tra i movimenti per la pace e la nonviolenza di tutto il mondo, e renderli sempre piu` stretti. La strada e` stata gia` avviata dai Forum Mondiali e Regionali per una alternativa che hanno anche lanciato lo slogan “Mettere la guerra fuori dalla storia!”. Se questo processo va avanti in modo serio e costante, e riesce a mettere in moto un processo opposto di globalizzazione dal basso (Pianta, 2001) che porti questo movimento ad essere veramente “la seconda potenza mondiale”, come l’ha definito il New York Times, la speranza di un mondo piu` pacifico e piu` giusto diventa meno utopistica e piu` realista. Ma qualche insegnamento utile puo` venire anche dal mio modello che, secondo gli insegnamenti di Gramsci, presuppone, per dar vita ad un cambiamento reale dell’attuale sistema imperiale, una alleanza privilegiata tra le due classi dominate Bu e Br, contro quelle dominanti Au e Ar. Parlando a livello mondiale, una alleanza tra i popoli piu` emarginati del terzo mondo, che sono quelli che soffrono di piu` a causa dell’attuale modello di sviluppo dei paesi forti, e la parte piu` cosciente del mondo sviluppato, che va oltre la classe operaia, spesso attardata in vecchi e ristretti schemi di classe, e coinvolge i vari movimenti per la nonviolenza, la pace, la giustizia sociale, interna ai paesi e tra paesi diversi, la difesa dell’ambiente, per una maggiore equita` nei riguardi delle donne, tutti aspetti che sono legati all’attuale modello di sviluppo, ed alla necessita` dei paesi ricchi, per difendersi da possibili esplosioni e ribellioni di quelli poveri sempre piu` impoveriti, ad armarsi sempre di piu`, ed anche, se necessario per mantenere il proprio standard di vita, ad esportare la guerra in questi ultimi. Ma la distinzione di Ganduscio, un siciliano gramsciano (che ha collaborato per vari anni al lavoro di Danilo Dolci in questa regione ) tra rivolta e rivoluzione, e le ricerche sulle capacita` organizzative dei vari gruppi, e quanto detto prima sull’analisi funzionale della guerra e sulle sue alternative, ci impone di fare alcune precisazioni. Ganduscio, in un suo prezioso libretto (1970) che riunisce le lezioni sulla storia siciliana che lui faceva ai volontari del nord che venivano a lavorare con Danilo, distingue tra “rivolta” (o ribellione), in cui manca una scelta strategica chiara, e l’azione e` eminentemente irrazionale ed esplosiva, e “rivoluzione”, che ha invece un massimo livello di razionalita` ed una chiara scelta strategica alternativa. Molte delle cosiddette rivoluzioni della storia corrispondono piu` alla prima che alla seconda di queste definizioni. Le ricerche di Crozier e Friedberg (1978) aggiungono altri elementi di chiarificazione. Una loro ricerca comparata tra due riforme, una fatta attraverso una strategia che essi definiscono di “negoziazione”, che ha cercato di coinvolgere il massimo numero di cittadini, e l’altra attraverso una strategia definita di ”rottura”, che ha cercato soprattutto appoggi politici di vertice, mostra come la prima (assimilabile alla rivoluzione di Ganduscio per i suoi aspetti strategici) abbia avuto risultati piu` duraturi, mentre la seconda (piu` assimilabile alla rivolta) sia stata rapidamente rimangiata dalle forze contrarie ad essa (ibid., pp 304-312). Un’altra ricerca, riferita da questi stessi due autori, sulle capacita` trasformative e innovative da parte dei vari gruppi interni ad una fabbrica, distingue tra gruppi strategici, conservatori, apatici ed erratici. I primi (strategici) sono quelli che hanno ancora delle opportunita` da cogliere ed hanno anche le capacita` per farlo, disponendo di un buon sistema di comunicazione reciproco, e di azione coordinata e coerente; i secondi (conservatori) hanno le stesse caratteristiche ma, avendo gia` ottenuto il massimo possibile, cercano solo di difendere la propria posizione; i terzi (apatici) non hanno neÅL possibilita` neÅL capacita`, e sono e restano marginali; i quarti (erratici) hanno opportunita` ma non riescono a coglierle per le difficolta` ad unirsi in modo continuo ed organizzato. Da questo emerge come i gruppi piu` interessati e pronti al cambiamento (strategici) non siano quelli piu` marginali. Questo corrisponde alla tesi marxiana per la quale la classe rivoluzionaria avrebbe dovuto essere il proletariato (e non il sottoproletariato), se bene organizzato, per la sua centralita` nel processo produttivo e l’emarginazione invece in quello accumulativo e redistributivo. Ma altri marxisti piu` recenti (Sweezey, Marcuse, Illuminati, Basso) sottolineano invece l’emergenza di nuovi gruppi, piu` della classe operaia interessati ad un mutamento rivoluzionario, in particolare il cosiddetto “proletariato esterno” (le masse contadine del terzo mondo), gli intellettuali (compresi studenti e giovani in generale), il ceto medio in via di proletarizzazione, le donne. Il modello gramsciano da me ripreso sottolinea l’importanza di una alleanza tra il proletariato tradizionale, con le sue organizzazioni sindacali gia` consolidate (che possono avere valore strategico), e gli altri gruppi citati (con il proletariato esterno) che pur essendo molto interessati al cambiamento non sono ancora bene organizzati, e devono percio`, per contribuire seriamente a questa rivoluzione dell’attuale sistema e del suo modello di sviluppo, cercare di superare questa loro attuale disorganizzazione. Ma in onore a quanto diremo in seguito sull’alternativa funzionale alla guerra ed alla violenza, e sulla necessita` di trovare strumenti di “rivoluzione” che non incrementino la violenza e le distruzioni da questa portate nel mondo questa dovrebbe essere portata avanti attraverso quelle armi che sono state definite come nonviolente (Gramsci, Capitini, Dolci, vedi anche, L’Abate, 2008, pp. 217-260), che uniscano le lotte contro le ingiustizie del sistema attuale, ad un progetto costruttivo (strategico) di un mondo piu` valido (vedi Friedmann, 2004). 3) L’analisi funzionale della guerra Ho dedicato a questo tema tutto un capitolo del mio libro del 1990 (pp.95-122). Non staro` qui a presentare tutte le mie argomentazioni di allora, e mi limitero` solo a riprenderle nelle loro linee generali, aggiungendo solo alcune considerazioni riguardanti specificamente la ricerca per la pace. Lo schema interpretativo a cui mi riferivo nel testo di allora era la distinzione fatta da Merton tra funzioni manifeste, funzioni latenti, disfunzioni, ed alternative funzionali, di cui ho parlato nel capitolo sull’analisi funzionale. Sulla base di queste categorie emerge questo quadro della guerra. Quelle che vengono di solito richiamate come funzioni manifeste della guerra sono: 1) il controllo delle risorse indispensabili alla propria (come nazione, o come sistema politico) sopravvivenza, a cui dovremmo aggiungere, piu` recentemente, del proprio tenore di vita e del proprio sviluppo; 2) la trasformazione da sistemi sociali ingiusti in altri piu` validi; in questo caso invece di guerra si parla di rivoluzione, ma spesso anche questa e` stata portata avanti con strumenti militari; 3) la difesa di valori e di un sistema politico a cui si e` legati positivamente. Recentemente si e` anche parlato, per la guerra del Kossovo, di guerra umanitaria. Ma non e` difficile scoprire come questo sia solo un modo di trovare una giustificazione ad una guerra che si voleva fare per altre ragioni, soprattutto militari-strategiche (L’Abate,1997,1999). Infatti le espulsioni, da parte dell’ esercito e della polizia serbe, di circa 800.000 albanesi del Kossovo dalla regione in cui vivevano, che sono state utilizzate dalla comunita` internazionale per giustificare l’intervento militare considerandolo umanitario (espulsioni che la nostra televisione ha fatto vedere ad iosa, mentre non ha mai fatto vedere, se non dopo la fine della guerra, i circa 300.000 serbi espulsi in pochi giorni dai Croati dalla Krajna), sono avvenute dopo l’inizio dei bombardamenti della Nato e non prima. E sono state la ritorsione, dichiarata, da parte dei serbi contro questi bombardamenti. Non e` qui il caso di approfondire questo tema cui ho dedicato molto tempo e svariati libri (avendo passato in quella regione vari anni della mia vita come ”ambasciatore di pace”), volevo solo contestare una delle forme attuali di giustificazione delle guerre, che e` quella di inventare nomi belli ed altosonanti per portarle avanti in modo anche piu` crudele che in passato (guerra umanitaria, guerra al terrorismo, guerra per la liberta`, per la democrazia, ecc. ecc.). Infatti nelle guerre passate i morti erano, forse non in modo del tutto uguale ma sicuramente piu` equilibrato che attualmente, di tutte e due le parti in conflitto. Nelle guerre piu` recenti, fatte dall’alto con le bombe cosiddette intelligenti (che tanto intelligenti non sono dato che spesso sbagliano obbiettivi e colpiscono anche la popolazione civile), e molte volte anche con armi nuove da sperimentare (come quelle usate nella prima guerra del golfo che bruciavano letteralmente le persone lasciando intatte le apparecchiature), e tra queste anche le bombe ad uranio impoverito che oltre ai danni immediati lasciano nelle persone e nelle zone contro cui sono state usate danni irreparabili che restano per lungo tempo e portano spesso ad una morte certa ma in tempi successivi, gli squilibri tra le morti tra le due parti sono immensi (per la prima guerra del golfo 200 morti vari di loro per fuoco cosiddetto ‘amico’ - tra le truppe dei paesi che intervenuti contro l’Iraq, mentre dall’altra parte si sono avuti per lo meno 200.000 morti). Inoltre la popolazione civile e` quella che soffre e muore di piu`, circa il 90% dei morti delle cosiddette nuove guerre sono civili, senza pensare ai tantissimi morti (spesso anziani e bambini) dovuti anche alle sanzioni economiche per prodotti indispensabili alla sopravvivenza dei piu` deboli, che, secondo le leggi internazionali, sarebbero da escludere dalle sanzioni. Molte maggiori sono invece le funzioni latenti della guerra. Quelle che ho potuto trovare nella letteratura di scienze sociali che ha approfondito questo tema sono: 1) la guerra come controllo demografico, come strumento percio` per evitare quella che e` stata definita la “bomba demografica”, l’aumento vertiginoso della popolazione che rischia di far restare una buona parte del mondo senza risorse sufficienti per far sopravvivere la sua popolazione (Bouthoul, 1961,1962), 2) lo stimolo allo sviluppo tecnico-economico, infatti molte delle piu` importanti invenzioni che hanno contribuito notevolmente al progresso dell’umanita` sono nate per scopi bellici, anche grazie agli elevati finanziamenti dati alla ricerca militare vista come strategicamente importante (Sorokin,1928, Naville, 1963); 3) l’accellerazione alla mobilita` verticale specie per le persone e per i gruppi che rischierebbero di restare emarginati e non essere valorizzati (Sorokin, op.cit, pp. 347-349); 4) l’eliminazione della disoccupazione che puo`, se elevata, essere una minaccia alla stabilita` del sistema (Naville, op.cit., p. 463, Flugel, 1962, p. 373); 5) l’integrazione del gruppo in lotta. E’ noto infatti come l’esistenza di un nemico da cui difendersi, e come capro espiatorio dei problemi interni, e` un potente collante per mantenere compatto un gruppo, una classe sociale, una nazione (Flugel, 1962; Coser, 1972); 6) il superamento della noia della routine quotidiana (James, 1911, Flugel,op.cit.,pp. 368-369). E veniamo ora alla analisi delle disfunzioni. Per queste non c’e` bisogno di tanti studi, basta l’esperienza diretta di qualcuna delle guerre attuali o passate. Comunque anche queste disfunzioni sono sottolineate da qualcuno degli studiosi gia` citati, in particolare da Naville e da Sorokin. Anche queste, in modo molto schematico, possono essere: 1) la distruzione di tante risorse in vite e talenti umani; 2) la distruzione di risorse fisiche ed economiche (abitazioni, industrie, acquedotti, ecc, ecc.); 3) l’incremento delle malattie e di epidemie; 4) il disadattamento di tante persone e gruppi interi quando, finita la guerra, tornano alla vita civile; tra questi il grosso numero di persone che restano minorate fisicamente e psichicamente, con una grossa difficolta` a trovare il loro posto nella societa` civile; 5) la centralizzazione del potere (necessario in tempo di guerra) e l’incremento dell’autoritarismo del sistema (Spencer, 1961; Sorokin, op., cit., p 344). Prendendo in analisi invece le alternative funzionali (che permettano il raggiungimento delle funzioni sia manifeste che latenti senza per questo incorrere nelle disfunzioni analizzate) queste possono essere: 1) un valido controllo demografico che permetta di non avere figli indesiderati, senza, per questo, dover ricorrere a metodi autoritari la limitazione per legge del numero dei figli di ogni coppia - e non accettati moralmente dalle persone stesse; 2) la ricerca di forme di vita piu` sobrie e meno consumistiche che permettano di ridurre quella che e` stata definita “l’impronta ecologica”, e cioe` lo spazio di terreno coltivabile necessario alla sopravvivenza di una singola persona, e della popolazione mondiale nella sua interezza (viene calcolato che gia` attualmente, per mantenere lo stile di vita delle popolazioni sviluppate, e portare le altre ad un livello per lo meno di decente sopravvivenza, sarebbero necessari sei pianeti come il nostro) (Correggia, 2000 pp.31-35); 3) la riduzione delle spese militari e maggiori investimenti per il progresso civile. Un notissimo ingegnere nord-americano, inventore della cupola geodetica (di cui ci si sono due importanti sperimentazioni a Parigi ed a Montreal) ha fondato uno istituto apposito che da altre 30 anni fa ricerche in questo campo (si veda il sito del “War Game Institute”). Questo ha calcolato che con meno del 30 % della spesa annua mondiale per armamenti, si potrebbero risolvere, in circa trenta anni, tutti i grandi malanni del mondo attuale (morti per fame, analfabetismo, mancanza di democrazia, buco dell’ozono, desertificazione dei terreni, ecc,ecc.). Ma attualmente le spese militari invece di diminuirle vengono aumentate; 4) lo sviluppo di forme di lotta nonviolenta per il superamento delle dittature, di altri regimi autoritari, e delle principali ingiustizie che tormentano il mondo attuale (Ackerman, DuVall, 2000; Sharp, 2005) ; 5) lo sviluppo e l’incremento di forme di difesa non-armata e nonviolenta. (Drago, 2006). Queste ultime due forme di lotta possono servire anche a superare la noia della routine quotidiana, che abbiamo visto tra le funzioni latenti della guerra. Fino a qui l’analisi funzionale della guerra sulla base dell’approccio mertoniano. Ma cosa si puo` dire sulla base degli altri approcci analizzati che possa avere rilevanza sullo studio dei problemi della guerra? Abbiamo gia` visto, nel capitolo su questo tipo di analisi come una delle principali critiche all’impostazione di Merton, pur estremamente importante ed interessante, e` quella della sua accettazione delle funzioni per la sopravvivenza (Lessnoff, 1984). Questi tipi di funzione, infatti, rischiano di essere collegati direttamente ai processi omeostatici e di equilibrio che tendono a mantenere immobile una societa` ed un sistema, mentre i sistemi aperti, come quelli viventi - come abbiamo gia` detto in quel capitolo - dato che l’ambiente in cui vivono e` in continuo mutamento - devono anche loro cambiare, altrimenti sono soggetti a processi di disintegrazione che possono portarli a perire. Quindi sono necessari altri tipi di processo, quali quelli che abbiamo studiato nel capitolo sull’analisi processuale, come ad esempio quelli di trasformazione, per evitare che le funzioni per la sopravvivenza del sistema portino alla sua disintegrazione invece che ad un cambiamento, che puo` risultare necessario, della struttura stessa. In particolare questo puo` essere indispensabile in tutti quei casi, molti, in cui e` la struttura stessa della societa`, o parti fondamentali di questa come il complesso militare-industriale6, a portare alla necessita` di mantenere in vita il fenomeno guerra, come spesso accade e come abbiamo visto accadere. Un altro elemento che emerge dalle impostazioni critiche che abbiamo analizzato, in particolare quella di Boudon (1984) e di Tullio Altan (1970), ma anche da quella di Galtung (1977b), e` la necessita` di superare il rischio di mantenersi alle funzioni necessarie al sistema (secondo Boudon, al funzionalismo), senza dare uno spazio sufficiente a quelle necessarie alla azione ed alla sopravvivenza delle singole persone. Boudon infatti critica la riduzione dei sistemi di interdipendenza, all’interno dei quali c’e` una notevole autonomia del singolo attore, a sistemi di ruoli, che richiedono una organizzazione, anche se minima, all’interno della quale, pur essendoci anche in questa una certa autonomia degli attori, questa ultima e` sicuramente minore che nei primi. Questa riduzione porta, secondo Boudon, a passare dall’analisi funzionale al funzionalismo che sostiene una immagine ultrasocializzata dell’uomo (Wrong, 1961) che tende a vedere il soggetto sociale comportarsi in modo esageratamente conformista. Per questo Boudon, come abbiamo visto in un altro capitolo di questo libro, e` un fervido sostenitore dell’individualismo metodologico, e molto critico invece del sociologismo che deresponsabilizza il singolo attore trasformandolo quasi in una marionetta agita dall’alto. Se come abbiamo visto all’inizio di questo capitolo, uno dei problemi di fondo della guerra e` la passivita` dell’essere umano nei riguardi del potere, l’impostazione criticata da Boudon tende non solo a mantenere, ma addirittura a fare aumentare il rischio di questa passivita`, togliendo spazio all’azione dell’essere umano, singolo ed associato, nella lotta contro la guerra e la violenza armata. Ma anche la critica di Tullio Altan va nella stessa direzione criticando l’attenzione dei funzionalisti (da lui definiti organici) al funzionamento di una struttura mentre dimenticano del tutto la funzionalita` del sistema stesso. Prendendo in analisi la Gestapo ed al suo ruolo avuto all’interno del Terzo Reich questo organismo e` servito a rendere funzionante quest’ultimo anche nello sterminio degli ebrei nei campi di concentramento nazisti. La funzionalita`, invece, che Tullio Altan riprende dai primi antropologi culturali, ma trascurata dal Merton, riguarda “il polo di riferimento costituito dalla condizione umana e dai suoi necessari problemi di vita “ (Tullio Altan, 1970, p. 9). Per il funzionalismo critico, che questo autore sostiene, e che secondo lui e` molto piu` valido del primo per cogliere l’origine e la dinamica dei processi di trasformazione delle strutture, la funzione di una struttura, o di un insieme organizzato di strutture, si misura dalla loro capacita` ad aiutare gli uomini a risolvere i problemi tipici della situazione in cui vivono. Quindi, secondo Tullio Altan: “la misura della funzionalita` integrale si deve ricercare nel rapporto fra le concrete aspirazioni di un gruppo umano… e la capacita` delle strutture del sistema socioculturale in atto a soddisfarle. Questo rapporto prosegue Tullio Altan deve essere quindi colto in una prospettiva che abbracci sia le aspirazioni soggettive come pure le oggettive condizioni del loro possibile soddisfacimento, deve essere colto cioe` in un campo di forze nel quale le aspirazioni dei singoli conferiscono una valenza positiva o negativa alle strutture destinate a soddisfarle” (ibid. p,13). Come si vede, anche qui, secondo questo approccio, viene rivalutato il ruolo dell’essere umano, singolo o associato, per la costruzione di un mondo meno pieno di ingiustizie e di crimini (come quelli nazisti), e piu` rispondente alle aspirazione ed ai problemi di vita delle persone per le quali la guerra e la violenza armata, da tutte le parti queste provengano, non sono certo una risposta valida e produttiva. Ma anche Galtung critica le chiusure e le rigidita` del funzionalismo (che lui definisce conservatore) sostenendo invece un funzionalismo, che lui definisce radicale, che permetta cambiamenti del sistema anche al di fuori di un paradigma definito da un insieme di funzioni, mentre invece il suo approccio tratta le funzioni come modificabili, rigettabili e sostituibili. Secondo Galtung nel mondo attuale, interconnesso ed interdipendente: “non e` la sopravvivenza di una data societa` che ha significato, ma la sopravvivenza dell’intera razza umana; e la domanda base e` quella in quali condizioni il mondo, la societa` globale totale, e` autosufficiente. Per questa ragione l’analisi di base dovrebbe essere fatta a livello del mondo intero, visto come un sistema sociale e come l’abitato ecologico dell’umanita`” (Galtung, 1977b, p.158). E criticando anche lui la chiusura di sistemi troppo rigidi sostiene che piu` un sistema e` strettamente integrato piu` esso sara` vulnerabile, percheÅL le contraddizioni si trasmetteranno e si riverbereranno maggiormente al suo interno. Per questo ritiene che siano piu` validi sistemi meno interconnessi percheÅL questi hanno una piu` forte protezione contro il crollo totale, essendo piu` capaci di assorbimento. E concludendo sostiene. “Nella forza c’e` la debolezza e nella debolezza la forza” (ibid. p.259). Questa impostazione lascia un maggiore spazio, come anche i due casi prima citati, rispetto al funzionalismo mertoniano, all’azione del singolo e dei gruppi organizzati che si pongano come obbiettivo quello di lavorare per avere un “abitato ecologico dell’umanita`”, come lui definisce il mondo, valido per la sopravvivenza non di un solo popolo o di un unico sistema politico (sia quello capitalista che quello socialista, o altro) ma dell’umanita` intera, con un approccio che in altri suoi scritti chiamera` di “entropia”. Galtung vede l’entropia come parte importante di una strategia associativa per raggiungere la pace. Scrive Galtung a questo proposito: : “La pace totale nel nostro mondo caratterizzato da sempre più efficaci strumenti di comunicazione, popoli, beni, messaggi, ed armi, sembra piuttosto improbabile a meno che non vengano soddisfatte queste due condizioni: con politiche associative si mettano insieme nazioni, gruppi, e soprattutto la gente, in relazioni positive, e con un aumento dell’entropia del sistema vengano rimossi i confini, le frontiere, i fronti e ne emerga un sistema mondiale con rapporti positivi di interdipendenza, con un alto potenziale di assorbimento e risoluzione dei conflitti. Non è necessariamente il sistema più efficace per tutti gli scopi, ma sembrerebbe il migliore e forse la sola protezione contro una guerra totale. Allo stesso tempo è un sistema che lascia aperte innumerevoli possibilità per l’umanità” (Galtung,1975, p.74). 4) L’analisi processuale della guerra Nella ricerca gia` citata di G.Myrdal (1944) sulla situazione dei neri negli USA egli, nella conclusione, sostiene l'importanza di quello che lui definisce il "principio di cumulazione". Secondo questo principio la situazione negra era interpretabile sulla base di una pluralita` di fattori (pregiudizi dei bianchi, discriminazione, disoccupazione nera, bassi salari, cattivi alloggi, vitto inadeguato, vestire, salute, ed educazione sotto la norma, instabilita` dei rapporti familiari, maggiore diffusione, tra di loro, di comportamenti fuori della legge, bassa lealta` verso la societa` nel suo complesso, ecc.) legati tra di loro da una causalita` reciproca. Il pregiudizio bianco influivano su tutti gli altri fattori che, a loro volta, influivano sul primo portandolo a diventare sempre maggiore, dando percio` vita al noto fenomeno del "circolo vizioso". Ma secondo Myrdal il principio agisce nelle due direzioni, sia per accrescere il circolo vizioso, sia per alleggerirlo ed iniziare un processo inverso. Ma la sua tesi era quella che, per migliorare la situazione dei negri, non bisognava agire su un unico fattore, ma agire contemporaneamente e strategicamente su vari fattori del sistema, e per un certo periodo di tempo (ibid., pp. 1068-1069). Ma secondo quanto abbiamo detto nel capitolo sull’analisi processuale una possibilita`, anche se difficile, di uscire fuori dal circolo vizioso dando vita un processo trasformativo era quella che i neri, solitamente isolati l’uno con l’altro e con scarsa capacita` organizzativa, decidessero di organizzarsi e riuscissero a dar vita ad un loro sindacato che cercasse di far capire, sia al sindacato dei bianchi che a livello legislativo, la necessita` e forse anche i modi del possibile cambiamento. Nell’immagine del modello feudale di Galtung (che abbiamo visto nell’analisi strutturale) questo modello farebbe si che unendo tra loro le periferie (i neri nel sistema politico statunitense) queste riuscissero a dar vita ad un modello defeudalizzato (con una loro maggiore integrazione politica ed economica) . Due esempi serviranno meglio a capire come questo tipo di analisi puo` servire a comprendere meglio i problemi della guerra e dei conflitti armati. Il primo e` del noto studioso di problemi della pace J. Galtung, ed e` quello che lui definisce il triangolo del conflitto, ovvero il suo A,B,C. (2006, pp. 15-17). Queste tre lettere corrispondono, in lingua inglese, A ad "attitude" (atteggiamento), B a "behaviour" (comportamento), C "contraddiction" (contraddizione, o incompatibilita` dei reciproci fini). Anche questi fattori sono legati tra di loro da un rapporto di causalita` circolare che fa si`, ad esempio, che un atteggiamento pieno di pregiudizi verso un altro gruppo, se non viene modificato, tende a stimolare un atteggiamento simile nel secondo gruppo, e poi ad arrivare ad un comportamento del primo gruppo ostile nei riguardi del secondo, che tendera` a rispondere sullo stesso tono. Questi atteggiamenti e comportamenti ostili tenderanno ad accrescere ulteriormente le contraddizioni nei rapporti tra i due gruppi i quali cercheranno, percio`, di ostacolarsi a vicenda nel raggiungimento dei propri reciproci obiettivi (che sono spesso incompatibili l'uno con l'altro). E questo portera`, molto probabilmente, a sua volta, ad accrescere sia l'atteggiamento che il comportamento negativo reciproco. Anche in questo caso ci troviamo di fronte ad un circolo vizioso che, se non viene interrotto, rischia di portare a conflitti armati trai due gruppi, conflitti che non potranno che rendere i loro rapporti sempre piu` compromessi e problematici. Ma anche in questo caso, per agire in senso opposto e descalare il conflitto, e` importante lavorare a livello di tutti i fattori, sia riducendo i pregiudizi reciproci (la conoscenza diretta tra persone dei due gruppi, e la migliore comprensione delle reciproche culture, possono servire a questo scopo), sia riducendo il comportamento ostile (ad esempio apprendendo forme di comportamento e di soluzione nonviolenta dei conflitti), sia infine (il C non viene necessariamente dopo A e B, ma puo` essere invece il punto di partenza del processo di descalata) riducendo le contraddizioni (ad esempio cercando degli obiettivi sovraordinati, di interesse di tutti e due i gruppi contrapposti, obbiettivi che possano essere raggiunti solo attraverso la reciproca collaborazione). Il secondo esempio di causalita` circolare della guerra, l’ho sviluppato alcuni anni fa ed e` riportato in un mio libro recente (L’Abate, 2008, p.22 e seg.). Riprendero` qui solo gli elementi essenziali del discorso rimandando le persone interessate alla lettura del testo integrale. I fattori del “circolo vizioso della guerra” da me individuati sono: 1) Indebitamento dei paesi in “via di sviluppo” e crisi del debito; 2) Politiche di “adeguamento” richieste dal FMI, dalla Banca Mondiale, e dal capitale privato; 3) Privilegiamento, nei paesi in via di sviluppo (PVS), dei prodotti di esportazione; 4) Abbassamento dei prezzi delle materie prime e “scambio ineguale”; 5) Abbandono dell’agricoltura di sussistenza e crisi dell’artigianato locale; 6) Abbassamento delle spese sociali ed aggravarsi del problema della fame, della miseria, della mortalita` infantile; 7) Inurbamento, miseria urbana e fuga verso le zone piu` ricche; 8) Nei paesi sviluppati (PS), chiusura all’immigrazione e riemergere del razzismo; 9) “Strategia dell’impero” e protezione degli “interessi vitali” in tutte le zone del mondo; 10) Aumento delle spese militari; 11) Guerre, miseria, richieste sempre maggiori ai fondi internazionali; richieste che, a loro volta, riportano al primo tassello incrementando ulteriormente la crisi del debito. In questo circuito ho messo all'inizio l'indebitamento dei paesi in via di sviluppo e la crisi del debito, ricordando pero` che cio` non significa che sia questo, necessariamente, il punto di partenza, se si volesse dar vita ad un processo di descalata invece che di scalata. Questo puo` essere, invece, qualsiasi dei punti del circuito, o meglio, come ci insegna Myrdal, svariati di questi. Quello del debito e` un fenomeno piuttosto noto, almeno tra le persone che hanno cercato di studiare i danni dell'attuale sistema economico. I paesi del Sud, che fino a qualche anno fa ricevevano fondi, sotto forma di aiuti o di prestiti, dai paesi del Nord del mondo, aiuti che avrebbero dovuto servire ad avviarli allo sviluppo, nei fatti sono diventati, negli anni piu` recenti, i finanziatori dei paesi del Nord a causa dei meccanismi dell'aumento dei tassi di interesse e quelli dello scambio ineguale. I loro prodotti, in particolare le loro materie prime (tranne per il petrolio a causa della politica protezionistica dei paesi produttori OPEC- e del loro cartello) tendono a diminuire di prezzo a causa della loro reciproca concorrenza, mentre quelli prodotti dai paesi del Nord costano sempre piu`. Il secondo fattore individuato, e` quello delle politiche di adeguamento che il FMI (Fondo Monetario Internazionale) e la Banca Mondiale richiedono per la concessione dei loro prestiti. Queste politiche, nelle parole della S. George (1992a), significano ÅsGuadagnate di piu` e spendete di menoÅt. ÅsMa quando si dice "guadagnate di piu`" questo significa "esportate di piu`", percheÅL un paese del Terzo Mondo non puo` rimborsare il suo debito in moneta locale…. Spendere meno significa che il governo deve ridurre le spese pubbliche - scrive sempre Susan George - e i budget che taglia sono inevitabilmente quelli sociali, dai quali dipendono ancora una volta le popolazioni piu` povere, la gente comune e anche le classi medie” (ibid., pp. 26-.27). Ma questo stato di Åsviolenza strutturaleÅt e` per questa studiosa come uno stato di guerra: “…con il debito, in effetti, si possono raggiungere tutti gli obiettivi della guerra classica, tranne l'occupazione dei territori che oggi non interessa piu` ... li assoggettiamo a un tributo regolare e manteniamo sul luogo un governo che non ponga alcun problema ai conquistatori. E nel Nord si subiscono poco gli inconvenienti della guerra. Noi otteniamo le nostre materie prime a dei prezzi estremamente bassi, i piu` bassi dagli anni '30 ... lo stato, in un paese indebitato del Terzo Mondo, e` praticamente ridotto a un solo ruolo, quello di mantenere l'ordine, di assicurare la polizia, ed e` questa stessa polizia, non la nostra, a sparare sui cittadini quando scoppiano gli incidenti” (ibid., pp.29-31). Questo fattore porta inoltre all’abbandono dell'agricoltura di sussistenza per sviluppare coltivazioni che servano per l'esportazione: un esempio tipico di questo e` la trasformazione di tante aree estremamente produttive del Tamilandu (nel Sud dell'India), o di tanti altri paesi del cosiddetto terzo mondo, in bacini per l'allevamento dei gamberetti con danni fortissimi per il territorio e per la popolazione del luogo (Colucci, Camino, 2002; Coppo, 2002). Ma anche l'artigianato locale va in crisi a causa delle importazioni di prodotti industriali del Nord. Questa crisi dell'agricoltura e dell'artigianato locale, questo immiserimento delle classi piu` povere della campagna porta al miraggio della citta` In realta` la miseria rurale diventa miseria urbana; e per sfuggire anche a quest’ultima si cerca la fuga verso altri paesi del Sud, o anche nei paesi del Nord (fattori 5,6,7). Ma qual’e` la risposta dei paesi del Nord? E’ quella di difendersi da questa invasione pacifica e di incominciare a chiudere sempre piu` le proprie frontiere. Prima, dai paesi del Terzo Mondo, si chiamavano le donne di servizio percheÅL facevano comodo, e quasi nessuno, nei nostri paesi, voleva fare quel mestiere. Ora che le donne di servizio stanno richiamando i loro mariti, i loro figli, i loro genitori ecc., si cominciano a vedere sempre piu` i problemi legati all'immigrazione e ci si sta muovendo sempre piu` verso una politica di chiusura di frontiere (fattore n. 8). E questo e` legato anche al riemergere, nei paesi ricchi e sviluppati, del fenomeno della disoccupazione che e` anche legato al problema del debito. Susan George calcolava negli anni 90 a circa 2 milioni e mezzo le persone del Nord disoccupate a causa di quello che lei definiva il “boomerang del debito” (1992b): i disoccupati del Nord cominciano a vedere l'immigrazione dai paesi del Sud come una minaccia alle proprie condizioni di vita e alle proprie possibilita` di lavoro, e questo porta al sorgere di forme di razzismo, di fenomeni di rigetto, ed in conseguenza di questo all’incremento dei partiti di destra che si richiamano a questi valori. Il fattore successivo, il n. 9, e` quello che e` stato chiamato (Allegretti, Dinucci, Gallo, 1992) della Åsstrategia dell'imperoÅt. La situazione attuale in cui circa il 20% della popolazione mondiale dei paesi ricchi consuma circa l'80/85 % dei prodotti e del reddito mondiale non puo` che essere una situazione estremamente esplosiva. E per difendersi da una possibile esplosione dei ÅspoveriÅt il Nord sente il bisogno di molte armi, soprattutto tecnicamente avanzate. L'avanzamento tecnologico e` infatti un problema centrale del mantenimento, da parte dei paesi ricchi del Nord, del cosiddetto Åsordine mondialeÅt. Infatti e` grazie a questo che l'occidente mantiene la superiorita` militare anche vendendo le armi sorpassate, obsolete tecnologicamente, ai paesi del Terzo Mondo. E questo a sua volta porta i paesi del Sud a indebitarsi ulteriormente, per non sentirsi del tutto inferiori a quelli del Nord e per comprare anche loro le ultime novita` in fatto di armi, rimpinguando percio` di nuovo le casse dei costruttori di armi, quasi tutti del Nord. Dal libro di Allegretti e collaboratori risulta chiaramente percheÅL si sta passando dalla vecchia strategia militare di difesa del territorio a quella attuale in cui il territorio non esiste nemmeno. L'elemento fondamentale della strategia attuale dei paesi occidentali e` quello della difesa degli interessi vitali dei paesi ricchi in tutte le parti del mondo: in Medio Oriente, in Africa, in America Latina e in ogni altra parte del globo. Ci troviamo percio` di fronte a quello che e` stato definito il Åsnuovo modello di difesaÅt: gli eserciti diventano professionalmente ben pagati ma non sono piu` tanto numerosi come prima percheÅL quello che conta non e` tanto il numero, quanto il tipo di macchinario che utilizzano che deve essere per forza ultra moderno. Ma tutto questo fa si` che diventi desiderio prioritario dei paesi del Sud avere anche loro armi sofisticate e moderne. Percio` tendono ad aumentare le loro spese militari, il che va percio` ad aumentare il loro debito estero. Secondo i calcoli della George circa il 20% del debito del Sud e` legato al fatto che, dopo il Nord stesso, il Sud e` uno dei piu` grossi importatori di armi del mondo. Avviene, percio`, quel fenomeno che la Martirani chiama di esportazione della guerra nei paesi del sudÅt (1989). La guerra ormai si fa nel Sud e anche nell'Est. Cioe` si cerca di farla fare altrove percheÅL e` vero che e` noioso e brutto uccidere, pero` serve a vendere le armi ed a impinguare le nostre casse, percio` e` importante trovare quelle situazioni in cui si possa farla senza che questa colpisca direttamente noi stessi. Questo fenomeno, legato anche all’impoverimento progressivo dei paesi periferici, ed all’incremento del distacco tra quelli ricchi e quelli poveri (Friedmann, 2004), ed alla morte per fame e per denutrizione di milioni di persone, e` cio` che la George chiama, giustamente, “guerra strutturale”, nascosta e silenziosa, ma che e` presente giorno per giorno. Questo, va da seÅL, porta guerra, miseria ed a richieste sempre maggiori di prestiti al Fondo Monetario Internazionale (fattore n. 11). E questo contribuisce a rialzare ulteriormente il debito e a passare a un nuovo ciclo causale sempre in crescita, dalla cui morsa i paesi del Sud riescono difficilmente a uscire. Ci troviamo percio` di fronte a quel tipo di processo che e`, alla meglio, riproduttivo (senza la possibilita` di uscirne fuori), ed, alla peggio, cumulativo, percheÅL il debito tende ad aumentare, aggravando ulteriormente il problema. Ma a questo va aggiunto un altro fenomeno, che in quel mio tentativo non era stato preso in considerazione anche perche` non era ancora esploso nella sua massima virulenza (non era ancora avvenuto il crollo delle torri gemelle a causa degli aerei trasformati in bombe), e cioe` il processo di costruzione del terrorismo. Come analizzo a fondo nel mio nuovo libro, in cui approfondisco il tema del processo di costruzione della guerra qui trattato (L’Abate 2008, pp 53 e segg.) l’aumento degli squilibri tra i paesi che portano avanti il modello di sviluppo dei paesi occidentali, (imitato da Cina ed India) e gli altri, quelli piu` poveri, fa accrescere le differenze, anche al loro interno, tra le persone che guadagnano da questo sviluppo (una parte molto minoritaria della popolazione), e quelli invece che si stanno impoverendo sempre piu`. Questi squilibri crescenti, invece di aumentare la sicurezza ed il benessere della popolazione, malgrado l’incremento continuo degli armamenti dei paesi ricchi che cercano cosi` di difendersi dai possibili attacchi al loro benessere da parte di quelli piu` poveri, in realta` non fanno che aumentare l’insicurezza generale. Nel 2006 i paesi piu` industrializzati del mondo, facenti parte del G8, con la Cina e l ’India, i due paesi del cosiddetto terzo mondo che stanno portando avanti, con grande successo (dall’8 al 10 % di sviluppo annuo del PIL), il modello di sviluppo occidentale, insieme ad Israele e l’Arabia Saudita (tra i paesi piu` militarizzati del mondo), pur avendo una popolazione complessiva di circa il 50 % di quella mondiale, spendevano per le armi e per la guerra oltre l’86% delle spese totali mondiali. Tutti gli altri paesi del mondo, con circa l’altra meta` della popolazione mondiale, spendevano, per queste stesse voci, solo poco piu` del 13 % del totale (Sipri, 2007). Questo squilibrio di spese militari nei rapporti internazionali, soprattutto quando sono aperti conflitti annosi, come quello tra Israele e Palestina, se questi ultimi paesi non vogliono accettare il dominio del “nuovo impero” (Allegretti Dinucci, Gallo, 1992), e non hanno la capacita`, o non scoprono l’efficacia, di portare avanti una lotta di tipo nonviolento, fa si che essi si sentano costretti, o almeno stimolati, ad inventare nuove armi, efficaci ma poco costose, capaci di colpire al cuore l’avversario. E queste armi sono i cosiddetti kamikaze che, fanatizzati, si immolano uccidendo moltissime persone del campo avverso. Oppure il collocamento di bombe e strumenti mortali in treni, o in altri gangli vitali della societa` occidentale. E questo ha portato la vita del singolo cittadino in tutti i paesi del mondo ricco, che per difendersi hanno la maggior parte, e le piu` potenti armi del mondo, ad un livello di insicurezza mai raggiunto finora. Quindi l’aumento delle armi e delle spese militari non serve affatto nella lotta al terrorismo, anzi non fa altro che accrescerlo. Una interessante aggiunta a questo problema, ed al processo attuale di costruzione del terrorismo, ci viene anche da un saggio di Amarthya Sen, il premio Nobel per l’economia (2006). Egli, trattando del contributo di Gandhi al mondo attuale, parla del problema del terrorismo e di cosa, sia l’America che la Gran Bretagna, potrebbero imparare da Gandhi. Scrive Sen: “Uno dei grandi insegnamenti di Gandhi è quello che non si può sconfiggere la malvagità, inclusa quella violenta, a meno che non si sia eliminata quella propria… ogni atrocità commessa per cercare informazioni utili a sconfiggere il terrorismo, o nel centro di detenzione di Guantanamo, o nella prigione di Abu Ghraib in Iraq, aiuta a dare vita ad altro terrorismo… Gandhi ci ha anche detto che la perdita del proprio stato di moralità dà una forza tremenda ai propri oppositori violenti. Lo sconcerto, a livello mondiale, che queste sistematiche trasgressioni hanno provocato per le azioni anglo-americane, ed il modo in cui il cattivo comportamento di coloro che dichiarano di combattere per la “democrazia ed i diritti umani” è stato usato dai terroristi per arruolare altre persone, ed anche per avere una certa simpatia da parte del pubblico in generale, può aver sorpreso gli strateghi militari seduti a Washington o a Londra, ma sono completamente in linea con quanto il Mahatma Gandhi ha cercato di insegnare al mondo”. Anche in questo caso ci troviamo di fronte a quel tipo di processo che Boudon, nel capitolo sull’analisi processuale, ha definito come cumulativo. Altri esempi di processi riproduttivi o cumulativi, influenzati molto dai mezzi di comunicazione di massa controllati dai regimi, sono quelli di costruzione dell’immagine del nemico che viene dipinto, spesso ingigantendo fenomeni reali, e talvolta anche inventandoli, in modo cosi` orribile da costruire anche, ed incrementare nella popolazione, la paura dell’altro, del diverso, paura che e` spesso gia` presente ad un livello elevato. Se si pensa che le varie ricerche di opinione fatte sulla popolazione italiana danno delle percentuali elevate (dal 70 all’80 % a seconda dei momenti, o dei gruppi di eta` analizzati) di persone che sono convinte che “l’altro ti vuole fregare, e se non vuoi che questo avvenga devi fregarlo te per primo”, si puo` vedere come la cultura hobbesiana dell’homo homini lupus sia gia` estremamente diffusa tanto da essere una base facile per l’attecchimento di ulteriori pregiudizi. Finora abbiamo visto, infatti, come la guerra possa essere analizzata come processo riproduttivo o cumulativo. Resta ora da applicare a questo fenomeno il processo trasformativo. Come abbiamo accennato nel capitolo sull’analisi processuale questa metodologia tende a tradurre il processo in una serie di fasi intermedie (o stadi) all’interno delle quali si ha la possibilita`, o di portare avanti il processo di scalata del fenomeno, oppure a dar vita ad un processo opposto di descalata. Richardson (1960), di cui abbiamo gia` parlato, vede il processo di costruzione della guerra passare attraverso queste fasi: 1) precompetizione; 2) competizione; 3 conflitto; 4) crisi; 5) risoluzione-rivoluzione. Simile, ma non del tutto, e` la classificazione di Kriesberg (1973) . Egli vede il processo di sviluppo di un conflitto e della guerra passare attraverso cinque stadi: 1) nel primo esiste una base reale per il conflitto, ma questo non e` ancora esploso (questo stadio puo` essere assimilato alla precompetizione di Richardson); 2) il conflitto emerge quando gli avversari (due o piu`) definiscono i propri obbiettivi in contrasto reciproco (siamo alla vera e propria competizione); 3) in questa fase gli avversari cercano di raggiungere ciascuno il proprio obiettivo (conflitto aperto ?); 4) quando gli avversari si accorgono che la terza fase non serve a niente perche i loro rispettivi obbiettivi sono reciprocamente incompatibili (crisi?), il conflitto tende a crescere aumentando di intensita` ed allargandosi negli scopi, ma, secondo questo autore, in questa fase puo` avvenire anche un processo opposto di descalata del conflitto stesso; 5) l’ultima fase e` quella della conclusione, in cui il conflitto finisce ottenendo certi risultati (risoluzione), o meno (rivoluzione?). Ma Kriesberg individua anche quattro tipi di processi che possono spiegare il passaggio da una fase all’altra (Kriesberg, op.cit., p.19): i processi di presa di coscienza del conflitto che aiutano questo a passare dalla situazione in cui e` presente (oggettivo) ma non e` ancora esploso, alla esplosione vera e propria, per poi passare alla modalita` di svolgimento dello stesso con due diversi tipi di processi, quelli di scalata e quelli di descalata. Infine ci sono, a secondo delle modalita` prescelte, i processi di conclusione. Quello che sembra importante sottolineare, sia con Kriesberg che con Wehr (1981), che i risultati di questi processi saranno molto diversi a seconda delle modalita` di svolgimento della lotta stessa. Infatti per Kriesberg esiste, nella sociologia dei conflitti, il principio dell’ ”effetto reciproco sequenziale”. Questo principio implica la tendenza dell’avversario a rispondere sullo stesso tono del suo contendente. Se questo usa violenza questo principio portera` il suo avversario a rispondere con altra violenza, ma anche, nel caso di riduzione della violenza da parte di uno dei due contendenti, la tendenza a ridurla anche dall’altra parte. L’esempio piu` noto, sia della scalata che della descalata, da cui Kriesberg trae tale principio, e` quello della corsa agli armamenti tra USA e URSS nel periodo della guerra fredda tra Est ed Ovest, superata poi, sia da parte di Reagan che di Gorbaviov, con atti distensivi di ognuna delle due parti, che portera` all’accordo per la riduzione ed il controllo delle armi nucleari a lungo raggio7. Quindi per Kriesberg il passaggio, nella modalita` del conflitto, da una lotta armata ad una lotta non-armata o non-violenta puo` aiutare lo sviluppo di un processo di descalata del conflitto ed il raggiungimento di un accordo accettato da ambedue le parti. E Wehr, in un suo importante lavoro sulla regolazione del conflitto (1981), vede la lotta nonviolenta come una forma di autolimitazione della violenza (Etzioni, 1968, direbbe di “autoincapsulamento” del conflitto) che invece che far crescere il conflitto e portarlo all’esplosione, tende a dare inizio ad un processo discendente che porta verso una soluzione, prima che avvenga l’esplosione. Essa puo` quindi avere un carattere preventivo. Secondo ambedue questi studiosi la nonviolenza puo` essere percio` uno strumento importante di trasformazione di un conflitto da violento a nonviolento, o almeno nonarmato, e secondo una terminologia utilizzata da studiosi di questo argomento, come strumento di “mitigazione” del conflitto che puo` portare dopo, attraverso accordi bilaterali, anche alla sua risoluzione, o almeno alla sua trasformazione ad uno stadio meno distruttivo. Ma anche Amartya Sen, sempre nel saggio citato, da` delle interessanti indicazioni per trasformare, in modo gandhiano e nonviolento, la lotta al terrorismo. Quattro sono, secondo lui, le indicazioni principali per fare questo passaggio: 1) Una educazione che punti a coltivare la pace invece della discordia, non solo cercando di limitare le scuole che nutrono l’odio verso le altre comunita`, ma anche le strutture educative chiuse che promuovono, sulla base della religione, dell’etnia, della casta, e del credo, un forte senso di identita` che distanzia gli esseri umani tra di loro; 2) Il superamento dei sistemi politici nei quali il voto sia legato alle denominazioni religiose o etniche, con la partecipazione della popolazione rigidamente intermediato da portavoce delle rispettive denominazioni. Sen spiega come in un sistema di questo genere viene a mancare l’opportunita` per un dialogo aperto e partecipato, e viene lasciata poca opportunita` alla popolazione di elaborare e sviluppare il ruolo della cittadinanza in generale; 3) Il superamento del predominio maschile nella politica, lasciando alle donne lo spazio a loro dovuto. Questo e` reso ancora piu` importante, aggiungerei io, dal fatto che tutte le ricerche, svolte da noi e da altri studiosi, fanno emergere come le donne siano molto piu` interessate alla pace, ed anche alla nonviolenza, degli uomini; 4) Una concezione aperta della propria religione che le permetta di riconoscere e dialogare, ma alla pari, con tutte le altre [sottolineatura mia, con questa aggiunta: senza la presunzione che la propria sia l’unica che possiede la verita` assoluta]. Altri processi trasformativi per il passaggio dalla guerra alla pace li si puo` trovare negli insegnamenti di Pat Patfoort, che non illustrero` per non allungare troppo questo testo, rimandando il lettore interessato allo studio almeno di alcune delle sue opere (1992, 2006). Diro` solo che questa studiosa elabora una interessante teoria che collega la violenza della nostra societa` alla diffusione di una cultura legata alla concezione del Maggiore/minore (M/m), nella quale nessuno vuole essere nella posizione del minore, ma per uscirne, o cerca lui stesso di mettersi nella posizione di maggiore (M), dando cosi` vita ad una scalata del conflitto, o scarica il proprio senso di frustrazione su un terzo, dando cosi` vita alla ricerca del capro espiatorio, o infine, riversa la propria frustrazione su se stesso (o attraverso il suicidio o altre forme di aggressione a se stesso, al minimo considerandosi inutile ed acquisendo uno stato di passivita` alienazione- dal quale, forse, uscira`, ma anche dopo molto tempo, attraverso atti aggressivi). Ma la Patfoort dedica la maggior parte dei suoi lavori ad insegnare e spiegare come fare per uscire da questa cultura sia attraverso il modello dell’equivalenza, nel quale le diversita` sono accettate, messe sullo stesso piano e valorizzate, cercando di scoprirne i bisogni di base e le motivazioni profonde; sia infine con la ricerca di quelli che abbiamo chiamato gli obbiettivi sovraordinati, comuni alle due parti in lotta, che, nel linguaggio della teoria dei giochi, sono i giochi a somma variabile, quelli che portano le due parti a vincere insieme (win-win). Ma, sempre parlando dei processi trasformativi, vorrei concludere il capitolo ritornando a quanto detto all’inizio sulla passivita` nei riguardi del potere come una delle maggiori cause delle guerre, e di cosa fare, riprendendo il modello di Galtung sulla struttura ancora feudale del nostro sistema politico mondiale, per defeudalizzarlo. Una delle persone che hanno piu` contribuito ad approfondire il tema della passivita` dell’essere umano nei confronti della guerra e dei crimini dell’umanita`, ed a dare concrete indicazioni su come superarne gli effetti negativi, e` stato uno scrittore che, da giovane, era stato esso stesso membro attivo del Partito Comunista, Arthur Koestler, che aveva poi denunciato i limiti di una impostazione, come quella allora prevalente nell’URSS in cui ha vissuto per vari anni, basata sul fatto che “il fine giustifica i mezzi”, e che il “partito” deve essere messo al di sopra del bene e del male. Il suo romanzo piu` famoso e` “Buio a Mezzogiorno”(1940), il cui protagonista e` un uomo del Partito Bolscevico sovietico che cade vittima del sistema di persecuzione di cui egli stesso aveva fatto parte. In esso Koestler cerca di dimostrare come la vecchia guardia accetti di confessare e di immolarsi come ultimo sacrificio per il comunismo. Ma Koestler, oltre che noto romanziere ed autobiografo, e` stato anche un ricercatore scientifico, contribuendo (1964) a mettere a fuoco un atteggiamento neÅL aggressivo neÅL passivo, ma da lui, e da altri, definito ”assertivo”. L’assertivita` e` quella capacita` del soggetto di mantenere il perseguimento attivo dei propri scopi, non rispondendo alla violenza con altra violenza, ma nemmeno subendola passivamente e sottomettendosi a questa, ma di rispondere alla violenza con un atteggiamento costruttivo che cerca di trasformare il conflitto in confronto e poi, se possibile, in dialogo. E’ un tratto della personalita` caratterizzato da tenacia, costanza, chiarezza, sicurezza, impegno, attenzione, disponibilita`. Sui lavori miei e dei miei allievi per sperimentare metodi pedagogici per educare all’assertivita`, e sui risultati positivi ottenuti, ho gia` parlato nei capitoli precedenti, ed in un mio libro specifico (L’Abate, 2001). Parlare di passivita` nei riguardi della guerra puo` sembrare un controsenso, o un assurdita`. Infatti mai, come in questo secolo, la partecipazione dei cittadini per un mondo piu` pacifico e` stata cosi` elevata. I circa 100 milioni di persone in 70 paesi del mondo che, nello stesso giorno, hanno manifestato, in 260 localita` diverse, contro l’inizio dell’ultima guerra dell’Iraq, giustificata per combattere un paese che avrebbe dovuto avere “armi di distruzioni di massa” (poi dimostrato che era una invenzione), sono un avvenimento mai prima avvenuto che ha portato un importante giornale statunitense, il New York Times, a definire questo movimento come “la seconda potenza mondiale”, contrapposto a quello degli USA, che, dopo il crollo dei regimi comunisti, del patto di Varsavia, e del bipolarismo, sembrano diventati l’unico potere mondiale. Questa notevole capacita` organizzativa e` stata possibile grazie ai vari Forum mondiali o regionali, (a Porto Alegre, Bombay, Firenze, Parigi, Nairobi) cui hanno partecipato migliaia di persone di molti paesi del mondo per discutere e trovare strade “Per un altro mondo possibile”, come si sono chiamati questi Forum (Pianta, 2001). In questi forum i tantissimi partecipanti, in centinaia di seminari ed incontri di studio, hanno discusso ed approfondito i limiti dell’attuale modello di sviluppo, le sue possibili alternative, le forme di economia solidali, le possibilita` di una democrazia partecipativa (e non solo delegata), le principali ragioni e caratteristiche delle guerre odierne, le possibilita` di superarle, la nonviolenza ed i corpi civili di pace come possibili strumenti per prevenirle, ed altri temi a questi connessi. E’ da questi forum che e` stato lanciato lo slogan: “Mettere la guerra fuori dalla storia” cui si ispira il titolo del mio ultimo libro. Ma i risultati di questa partecipazione popolare non sono stati all’altezza di queste aspettative. Anzi, si puo` dire con certezza, che questi sono stati piuttosto deludenti. Infatti questa partecipazione di massa contro la seconda guerra dell’Iraq ha convinto la Francia e la Germania a proporre che l’agenzia specializzata dell’ONU per il controllo del nucleare intervenisse in Iraq per verificare l’esistenza di queste armi, proposta che e` stata accettata e si e` realizzata. Le armi di distruzione di massa, che avrebbero dovuto giustificare l’intervento armato, non sono state trovate, ma sono stati invece trovati un centinaio di missili piu` a lungo raggio di quelli ammessi che, su loro richiesta, e sotto il loro controllo, sono stati distrutti. Secondo informazioni autorevoli questa distruzione di missili a lungo raggio avrebbe convinto i capi delle forze armate statunitensi ed inglesi che il loro intervento militare avrebbe potuto essere svolto con meno rischi per i propri soldati, cosi`, malgrado che le armi di distruzione di massa non fossero state trovate, cambiando soltanto il nome dell’intervento che e` diventato per la “democratizzazione” dell’Iraq, siamo arrivati alla guerra soltanto pochi mesi dopo quello che, senza le manifestazioni e senza l’intervento delle Nazioni Unite, sarebbe stato l’inizio. Percio` questa cosiddetta “seconda potenza mondiale” e` riuscita soltanto a ritardare la guerra di qualche mese, e non a bloccarla, ed anzi, forse, anche a rendere piu` facile e meno pericoloso, per chi lo commetteva, l’intervento armato. E questo mette questione il carattere di queste manifestazioni, e la qualita` dell’impegno che queste richiedono. Infatti le manifestazione di un giorno, in situazioni normali, non richiedono ne un grosso impegno ne grossi rischi, ed e` percio` facile trovare persone disposte a parteciparvi, specie se aiutate da organizzazioni di massa. Ma il quadro cambia notevolmente se si va a vedere le iniziative che richiedono grossi impegni e rischi. Le attivita` di interposizione e di mediazione del conflitto nella prima guerra del Golfo hanno coinvolto poche centinaia di persone (L’Abate, Tartarini, 1993); quelle nella ex Jugoslavia (Sarajevo, Mostar, ecc) ne hanno coinvolte varie migliaia; l’obiezione di coscienza al servizio militare in Italia, quando implicava la condanna anche ripetuta ed il carcere per uno o piu` anni, era fatta da pochissimi giovani molto motivati; quando poi e` stata riconosciuta per legge e quindi era possibile farla senza alcun rischio, nel nostro paese siamo arrivati ad oltre 60.000 richieste. E potremmo continuare con gli esempi che confermerebbero in pieno questo fatto: le azioni e le iniziative che non implicano rischi riescono a coinvolgere centinaia di migliaia ed anche milioni di persone, quelle invece che li implicano, riescono al massimo a coinvolgerne poche migliaia. E questo e` sicuramente un problema: come e` possibile andare contro i grossi interessi coinvolti dalla guerra e nella costruzione e vendita di armi, se a lottare seriamente, e prolungatamente, contro di questa, sono solo delle esigue minoranze? Che fare per superare questo grosso problema ? Una delle possibili strade e` quella di lavorare ad una corretta informazione. I giornali e le televisioni tendono ad amplificare tutto quello che c’e` di marcio nella societa` attuale, ed a trascurare spesso le buone notizie. Tra queste ultime, ad esempio, i notevoli successi avuti, in vari paesi del mondo, in quest’ultimo secolo, dalle lotte nonviolente: per l’ottenimento dell’indipendenza (India), per il superamento dell’apartheid (Sud Africa), contro regimi dittatoriali (Polonia, Filippine, Cile), per il miglioramento delle condizioni di vita delle minoranze di colore (USA), per la difesa degli ebrei dalle vessazioni dei nazisti (Danimarca), per la liberazione dei loro mariti ebrei da parte delle mogli ariane (Germania), ecc. ecc. (si vedano i libri citati di Sharp, 2005, e di Ackerman e DuVall, 2001, ed anche i video: “Una Forza più potente”, riprodotti e distribuiti dal giornale “Azione Nonviolenta”). Quali le ragioni di questa trascuratezza? . Galtung, il fondatore degli studi per la pace nel mondo, ha delle idee molto chiare, in suo importante libro (2000) cerca di sfatare il detto comune che la “nonviolenza non funziona” e sostiene che questa opinione “è basata sulla disinformazione, dati i successi sbalorditivi ottenuti nella seconda metà del secolo ventesimo”. E prosegue .“Dato il crescente fallimento della violenza e della guerra - con la moderna tecnologia che certamente non nobilita il vincitore o la vittima ma li degrada entrambi e dati i significativi risultati ottenuti con mezzi nonviolenti perchè questi ultimi non vengono usati molto di più?” (ibid. p. 219). Nel suo commento ai tanti successi della nonviolenza Galtung scrive :”Non stiamo ipotizzando che la nonviolenza funzioni sempre, che sia una panacea. Ma molti gruppi oppressi si sarebbero potuti avvicinare maggiormente all’autonomia se avessero usato la nonviolenza. D’altro canto, l’ipotesi che la violenza non funziona mai può essere argomentata” (ibid., p. 218). Ed egli ritiene che le risposte a questo quesito vadano ricercate nella nostra cultura profonda (ad esempio nel privilegiamento dell’eredita` hobbesiana e della teoria della sopravvivenza del piu` forte) e propone che questi fattori culturali, positivi o negativi, vengano studiati attentamente, in modo da poter vedere se “ci possono anche essere fattori nascosti che anziché impedire favoriscono l’azione nonviolenta”. E, concludendo, sostiene che “l’Occidente è eccessivamente individualista e attento alla verticalità. Alla radice c’è la percezione della società come un insieme di individui che lottano per farsi strada. Ma una società è anche una struttura, una rete che collega le persone attraverso miliardi di interazioni” (ibid., p.220). Ed e` questa accentuazione degli aspetti conflittuali nei confronti di quelli solidali ed interattivi, unita alla diffusa concezione dell’innata aggressivita` dell’uomo, senza tenere in alcun conto invece la dichiarazione di molti dei piu` noti scienziati mondiali che a Siviglia (Spagna) hanno contraddetto autorevolmente questa tesi (Adams, 1991), che porta, nella cultura occidentale, a privilegiare la violenza rispetto alla nonviolenza, ed a non parlare, quasi nascondendoli, dei successi di quest’ultima, continuando invece a considerare la violenza quasi come un “atto dovuto”, come “una necessita` storica e biologica”. E secondo gli studiosi di comunicazione questa accentuazione, da parte dei mezzi di comunicazione, di notizie sulla violenza, e la trascuratezza invece di quelle sulla nonviolenza, fa si che tra le persone comuni aumenti la paura nei riguardi degli altri esseri umani, e questa paura porta al bisogno di sentirsi protetti da un capo forte, incrementando cosi` l’autoritarismo del sistema. Un’altra indicazione operativa e` la necessita` di superare il distacco tra le tre forme di pacifismo individuate da Norberto Bobbio. Egli infatti, in suo bellissimo libro (1979) distingue tra pacifismo istituzionale, che punta alla pace, ad esempio, attraverso una riforma delle Nazioni Unite, oppure con lo sviluppo di una legislazione che renda sempre piu` difficile il ricorso alla guerra; il pacifismo strumentale, che punta invece a ridurre gli armamenti: un esempio di questo puo` essere la proposta di Galtung, di eliminare, da subito, le armi a lunga gettata mantenendo solamente quelle a breve raggio che hanno carattere difensivo (che, del resto, nel nostro paese, sono le uniche in linea con l’art.11 della nostra Costituzione che ammette solo la guerra di difesa); ed infine il pacifismo finalistico, che punta a convertire, o a guarire, l’essere umano ed a renderlo piu` pacifico e piu` nonviolento. Ma Bobbio ritiene che le tre forme di pacifismo non possano andare insieme percheÅL hanno lunghezze d’onda ed obiettivi diversi: il primo pacifismo cerca dei risultati a breve raggio, l’ultimo invece li puo` ottenere solo a lungo raggio. Ma l’esperienza di chi lotta per la pace con la nonviolenza, con le sue due armi (azione diretta nonviolenta e progetto costruttivo), lo porta a ritenere che queste tre forme di pacifismo non possono che andare insieme, che essere unite in una strategia comune che cerchi, contemporaneamente, di cambiare l’essere umano, ma anche le strutture sociali nelle quali egli e` immerso. In caso contrario il risultato e` nullo, o quasi. Un’altra indicazione riguarda invece la partecipazione dei cittadini. Anche se ci sono state eccezioni positive, come quella accennata contro la seconda guerra in Iraq, normalmente la popolazione si muove soprattutto quando ci sono i disastri. Per fare approvare, nel nostro paese, con un referendum, la chiusura delle centrali nucleari civili (che e` notissimo come siano l’anticamera del nucleare militare, che non e` certo difensivo) c’e` voluto il disastro di Cernobil che ha reso immangiabili anche il nostro latte e le nostre verdure. Ma se le persone, per muoversi, devono aspettare che avvenga un disastro, e che questo porti a loro dei gravi disagi, c’e` il grosso rischio che questo, se e` troppo grande, non permetta nemmeno il suo superamento. Per questo e` importante sviluppare l’arte della previsione, e legare strettamente alla previsione anche la prevenzione, e questo sia per i fenomeni conflittuali, sia per i possibili disastri ambientali che la continuazione del nostro attuale modello di sviluppo rende sempre piu` probabili. Ma questo presuppone che si comincino ad organizzare centri di ricerca e formazione, all’estero molto piu` diffusi che da noi, per studiare a fondo questi problemi e formare le persone ad affrontarli prima che questi diventino irrisolvibili ed irrimediabili (AA.VV., 1999 ). Una ulteriore indicazione e` la necessita` di lavorare per un modello di sviluppo completamente diverso da quello attuale, che parta dal basso, dalla popolazione stessa, e non dall’alto, e che sia ecologicamente compatibile e sostenibile (Friedmann, 2004). Ma la guerra, il nostro tipo di sviluppo, ed il nostro modo di agire quotidiano, sono reciprocamente collegati tanto da portare Alex Langer (deputato europeo altoatesino che ha dedicato al problema della pace tutti i suoi sforzi) a lanciare lo slogan: “Contro la guerra cambia la vita” (1991). Questo presuppone che i movimenti che lottano contro la guerra, quelli che si occupano della difesa dall’ambiente, e per lo sviluppo di forme di economia alternativa, quelli che cercano di aiutare i popoli del terzo mondo ad uscire dalla loro miseria, ma anche dalla loro dipendenza, ed infine i movimenti femminili che operano per migliorare le condizioni di vita delle donne, che sono, spesso, le prime vittime delle guerre e della miseria, comincino a superare il loro settarismo ed a lavorare insieme, non per dar vita ad una unica struttura organizzativa, che sarebbe un obbrobrio mastodontico e burocratico, ma per cominciare ad accordare i propri obbiettivi e le loro strategie dato che c’e` un legame strettissimo tra questi diversi aspetti del vivere sociale. Solo un diverso sviluppo, basato sulla giustizia, sulla valorizzazione degli esseri umani, di qualsiasi sesso, colore della pelle, religione, o credo politico, essi siano, puo` portare alla nostra terra un futuro di pace. Per questo i movimenti succitati dovrebbero lavorare insieme, operando ognuno nel suo specifico per cercare di correggere le molte storture della societa` attuale, ma con una unica strategia che porti il loro lavoro ad avvicinarsi sempre piu` al superamento di una cultura che e` contemporaneamente esaltatrice della guerra, della sopraffazione del piu` forte e del piu` ricco, e del sesso maschile su quello femminile. Se questo avverra` forse potremo avere un mondo in cui le guerre siano un ricordo del passato come lo e` attualmente la schiavitu` nelle forme che aveva in precedenza. Certo sono nate altre forme di schiavitu` piu` difficili da vedere ed interpretare, come nasceranno altri conflitti, che del resto sono gia` in sviluppo, piu` difficili a vedere e comprendere, ma se saremo riusciti a superare la guerra ed il conflitto armato nelle forme in cui avviene attualmente, saremo sicuramente piu` preparati ad affrontare anche le nuove forme in cui questi si sviluppano, e si svilupperanno. E’una utopia? Saranno i posteri a deciderlo, ma tutto dipende dal fatto che l’essere umano cominci a prendere coscienza che la guerra, come l’ingiustizia, non sono fenomeni necessari e naturali, e che, come l’uomo le ha inventate puo` anche inventare il loro superamento. 5) una conclusione provvisoria Mi auguro che la lettura di questo libro, ed in particolare di questo capitolo, sia servita a far comprendere meglio l’utilita`, per la comprensione di un fenomeno, di utilizzare tutti e quattro i metodi di analisi approfonditi in questo testo, ognuno dei quali permette di vedere solo una parte della realta` del fenomeno studiato, ma che, presi nelle loro interrelazioni e nella loro complementarieta`, permettono di comprendere piu` a fondo il fenomeno analizzato, nel caso specifico di questo capitolo, il problema della guerra. La mia conclusione e` percio` quella che se si vedono l'analisi causale, strutturale, funzionale, e processuale, come metodi particolari che si arricchiscono l'uno con l'altro, potremo fare dei notevoli passi avanti. Se invece si sostiene l'importanza di un metodo di analisi piuttosto che un altro, e si vuol dare a questo metodo il ruolo centrale nella metodologia della ricerca, si rischia di fare dei notevoli passi indietro ed entrare in una diatriba inutile e senza fine. Ma sono anche convinto che l'integrazione e` possibile e valida solo dopo che i metodi qui indicati vengono ulteriormente approfonditi e perfezionati, e se si considerano autonomi l'uno dall'altro. Se si cerca invece di fare subito una integrazione a priori, come hanno tentato di fare gli struttural-funzionalisti, ad esempio, si deforma uno dei metodi e si perde di profondita`. Integrazione sul campo, e in rapporto ai problemi che si studiano, e non a priori, a tavolino. Il lavoro qui concluso dovrebbe inoltre aver dato l'idea dell'importanza di rivedere anche i metodi, o le tecniche, di osservazione, per mostrare come queste possono essere usate diversamente a seconda dell'impostazione del ricercatore, e come si puo` liberare questi stessi strumenti dal peso eccessivo di una particolare scuola o impostazione, che tende a privare lo strumento di validita` euristica. E questo in modo da dare una impostazione critica non solo alla metodologia di indagine ma anche agli strumenti utilizzati. Ma questo e` un compito che esce dagli scopi e dai limiti di questo lavoro, e che rimando ad altre sedi. Mi auguro che il lavoro, sia pur grezzo come e` - spesso piu` appunti per un ulteriore approfondimento, che un lavoro compiuto - possa servire a questa impostazione critica che, secondo me, e` la virtu` piu` importante di un ricercatore. |