Vai all'Indice |
Parte II TEORIE, PARADIGMI, MODELLI E IPOTESI Capitolo 1 LA TEORIA E' stato detto che la teoria è un modo per rispondere alla domanda "perchè?". E dato che questa domanda sui problemi della convivenza sociale viene posta sempre più frequentemente, da categorie sempre più vaste di persone ("laiche", per usare la terminologia di Simon, o specialiste) è importante capire meglio cos'è, a cosa serve, e come si costruisce una teoria. La teoria è "un insieme di proposizioni correlate che suggeriscono perchè certi fenomeni avvengono nel modo in cui avvengono " (Hoover, p. 37), e "un tentativo di spiegare un particolare fenomeno e di predirre il suo svolgimento" (Bailey, p.55). Ma per chiarire ulteriormente sarà bene vedere quali sono le funzioni cui essa può assolvere. Hoover ne individua quattro: 1) La teoria offre dei modelli per l'interpretazione dei dati; 2) la teoria unisce uno studio con un'altro; 3) la teoria offre dei quadri di riferimento all'interno dei quali i concetti e le variabili acquistano un significato particolare; 4) la teoria ci permette di interpretare il senso più largo delle nostre scoperte, per noi e per gli altri (op.cit. p 39). . Bailey, come abbiamo visto, ne propone una quinta: 5) la teoria permette di prevedere gli andamenti dei fenomeni studiati. L'esempio cui accenna Hoover per illustrare le prime quattro funzioni può servire anche per la quinta. Egli riporta i risultati di una ricerca sul voto per il partito democratico nella città di New Haven nel 1959 in rapporto alla condizione lavorativa manuale ed i gruppi etnici di appartenenza (op.cit. p. 40 e segg.). I risultati sono questi: La prima funzione indicata da Hoover è quella di fornire un modello interpretativo del fenomeno studiato. Questi, ed altri risultati della ricerca, soprattutto se venissero confermati da altre in luoghi diversi ed in tempi diversi, possono permettere di costruire una teoria che sottolinei come l'appartenenza etnica sia molto più correlata al voto di quella di classe. E questo mette in discussione l'interpretazione tradizionale, e cioè la cosiddetta teoria dell'assimilazione. Questa sostiene infatti che, con il passaggio alle generazioni successive, si indebolirebbero i modelli comportamentali etnici. La seconda funzione è quella di rendere possibile collegare una ricerca con un'altra aiutando così la scienza sociale a muoversi verso una conoscenza cumulativa. Nal caso specifico permette ad Hoover di collegare i risultati ottenuti con il concetto, elaborato da un'altro studioso, di "classe etnica" (appartenenza ad un gruppo etnico o religioso) come base utile di partenza per l'organizzazione delle persone a livello comunitario. La terza funzione è quella di fornire un quadro di riferimento all'interno del quale i concetti e le variabili assumono un significato speciale. Nel caso in questione la teoria dell'assimilazione dà un significato speciale alla variabile "mobilità di classe sociale" come contro influenzante l'etnicità. Altri dati, risultanti dalla stessa ricerca, sottolineano, al contrario, come il voto etnico diventi maggiore quando tale gruppo ha prodotto una classe media, e cioè nella seconda o la terza generazione, e non nella prima. In questa nuova teoria, definita della "mobilizzazione", l'ascesa di classe sociale rinforza il voto etnico, mentre nell'altra, quella dell'assimilazione, l'ascesa di classe l'indebolirebbe. La quarta funzione è quella dell'interpretazione dei significati più vasti dei risultati. Gli elementi emersi sembrano ad Hoover mettere in difficoltà le tesi marxiane della primaria importanza, in campo politico, del collocamento e della lotta di classe. Ma anche la quinta funzione, quella della previsione, emerge chiaramente dai risultati. Questi infatti permettono di prevedere, con una notevole approssimazione, almeno nella situazione studiata, l'identificazione di partito delle persone quando si conosca il loro substrato etnico, mentre lo stesso non avviene per l'appartenenza alla classe operaia. Tutto questo permette ad Hoover di concludere che "senza la teoria la scienza sociale sarebbe un immensa pila di dati statistici, e di osservazioni senza coerenza e di scarsissimo significato" (p.44). Ma visto cos'è e a cosa serve la teoria, passiamo ora a vedere gli elementi che la compongono. Questi, secondo J.Turner (1986) , sono: 1) I concetti; 2) le variabili; 3) le asserzioni teoretiche, o proposizioni; 4) i modelli. I concetti sono immagini o percezioni mentali che è impossibile osservare direttamente, come la giustizia, l'amore (concetti astratti), o che possono avere riferimenti facilmente osservabili, come un albero o un tavolo (concetti concreti). Ma per poter utilizzare i concetti astratti, che sono quelli alla base della teoria, per la costruzione di quest'ultima, è necessario che essi siano ben definiti. E' infatti la definizione che permette di visualizzare il fenomeno e rende possibile a tutti gli intervistatori di "vedere la stessa cosa". In caso contrario l'accumulazione delle conoscenze teoretiche è impossibile. Ma secondo Turner l'astrazione è fondamentale per la costruzione teoretica. I concetti astratti non sono infatti legati ad un contesto specifico, trascendono gli eventi e le situazioni particolari, e tendono a sottolinearele proprietà comuni di eventi e situazioni simili. E' infatti la concettualizzazione astratta che fa riferimento a proprietà generali non legate all'interazione di individui in un tempo ed un luogo specifico. L'esempio più chiaro, citato da Turner, dell'importanza dell'astrazione per la costruzione teoretica è quello della scoperta da parte di Newton della teoria della gravità. La gente ha visto per secoli cadere le mele dagli alberi, ma una reale comprensione del problema si è avuto solo con il concetto più astratto di gravità, che ha permesso a simili eventi di essere visualizzati ed incorporati in una proposizione, od asserzione teoretica, che spiegava il perchè le mele avrebbero dovuto cadere dagli alberi. Ma Turner sottolinea come, per essere utilizzabili ai fini della ricerca, ci devono essere delle procedure (definizioni operative, o operazionali) per rendere tali concetti rilevanti per la comprensione di situazioni o eventi osservabili. Questo aspetto, della massima importanza nella ricerca sociologica, verrà approfondito nel capitolo sulla "costruzione delle variabili". L'elemento successivo indicato da Turner come costitutivo di una teoria è il concetto di variabile. Nella costruzione di una teoria si distinguono due tipi generali di concetti: 1) quelli che etichettano o classificano un fenomeno; 2) quelli che si riferiscono a fenomeni che differiscono di livello (o di grado). I primi, ad esempio, gruppo, classe sociale, ecc., non rivelano come il fenomeno studiato vari in rapporto a proprietà quali l'ampiezza, la coesività, ecc. Un concetto che ha un unico valore, immutabile, è denominato costante (es. pregnanza, lo si è oppure no). Ma la teoria scientifica tende ad utilizzare in modo specifico concetti che si riferiscono alle proprietà variabili dei fenomeni studiati. Infatti per comprendere gli eventi è necessario vedere come le variazioni di un fenomeno siano correlate con quelle di un altro. Le variabili tra di loro possono avere una relazione simmetrica (l'una influenza l'altra, in modo reciproco, perchè hanno un peso equivalente) od una relazione asimmetrica. In quest'ultimo caso una delle due variabili è capace di indurre un mutamento nell'altra, mentre non avviene il contrario. La variabile che provoca un mutamento nell'altra è chiamata variabile indipendente, mentre l'altra è chiamata variabile dipendente. Un esempio chiaro di questi due tipi di variabili sono il fumo ed il cancro, il fumo (variabile indipendente) tende a provocare il cancro (variabile dipendente), mentre non è vero il contrario (Bailey, p.63). Il terzo elemento per la costruzione di una teoria sono le asserzioni teoretiche , che altri studiosi (come il Bailey) chiamano proposizioni. Lo scopo finale della scienza è quello di capire come i fenomeni o gli eventi sono in rapporto l'uno con l'altro. Ad esempio il concetto di conflitto asserisce che nel mondo sociale ci sono varie forme di interazione ostile, il concetto di unità sociale che gli individui sono organizzati in diversi tipi di modelli collettivi, il concetto di solidarietà denota il fatto che le unità sociali evidenziano livelli diversi di coesione, o unità interna. Ma solo una asserzione (proposizione) teoretica come questa: "Più grande il livello di conflitto tra unità sociali, più grande il livello di solidarietà all'interno di ogni unità" può permettere di capire i rapporti tra questi diversi concetti (Turner, p.11). Questa è una asserzione astratta, perchè trascende il tempo e lo spazio, ed è una asserzione teoretica perchè asserisce il rapporto tra i tre fenomeni citati. Ma naturalmente può essere falsa. Una asserzione teoretica non ancora sicura ma che, proprio per questo, è messa al centro del processo di ricerca è l'ipotesi. Essa è "una proposizione espressa in forma controllabile che prevede un particolare rapporto tra due o più variabili" (Bailey, p.57) o tra una o più variabili ed una situazione (Hoover). Attraverso delle definizioni operative si possono trovare degli indicatori per ognuno dei concetti su citati (conflitto, unità sociale, solidarietà), ed il rapporto può essere messo alla prova e, se confermato, l'asserzione teoretica assume una maggiore plausibilità. La generalizzazione empirica è una forma particolare di proposizione che afferma una relazione tra eventi attraverso un processo di induzione. Essa viene costruita osservando l'esistenza di questo rapporto in uno o più casi, e successivamente generalizzando sino ad estendere la validità del rapporto osservato a tutti i casi, od alla maggior parte di essi (Bailey, pp.59-60). La quarta componente della costruzione teoretica è il modello, o la forma, del processo di teorizzazione. Le asserzioni teoretiche, o proposizioni, non sono infatti mai sole, ma interrelate tra di loro secondo uno schema logico che può essere diverso l'uno dall'altro (il modello). Le asserzioni teoretiche non ordinate sistematicamente in modelli, o forme, non sono provabili in modo valido. Senza una interrelazione sensata tra di loro le singole asserzioni si dovrebbero mettere alla prova separatamente. Invece, se sono organizzate con chiare relazioni reciproche, la prova di poche affermazioni cruciali può portare luce alla plausibilità delle altre. Secondo Turner ci sono tre principali modelli per ordinare le asserzioni teoretiche nelle scienze sociali: 1) assiomatico; 2) causale; 3) classificatorio. Ma vediamo meglio ciascuno di questi: 1) Il modello di teorizzazione assiomatico La teoria assiomatica, o deduttiva, assume fondamentalmente la forma del sillogismo deduttivo: Proposizione 1: Se A, allora B Proposizione 2: Se B, allora C pertanto Proposizione 3: Se A, allora C. In questo tipo di teoria se le proposizioni 1 e 2 sono affermazioni vere, ne deriva per deduzione che anche la proposizione 3 è vera. Le asserzioni vere da cui sono dedotte le altre asserzioni sono denominate assiomi (o postulati)3. Una proposizione dedotta da assiomi o postulati è chiamata teorema. Dato che i postulati, o assiomi, sono considerati veri non c'è ragione per trattarli come ipotesi verificabili. Invece il teorema viene di solito considerato come ipotesi e 3 Secondo Bailey questi due concetti sono quasi intercambiabili. Comunque gli assiomi, in termini matematici, sono le affermazioni altamente astratte che sono considerate vere per definizione, mentre il concetto di postulato, è utilizzato più spesso per affermazioni la cui verità è stata dimostrata empiricamente (Bailey, pp.60-61). sottoposto a verifica, dato che spesso questo è l'unico mezzo per verificare l'intera teoria. La caratteristica principale di questo modello è quello che le affermazioni di rapporto si collocano in un ordine gerarchico. In cima alla gerarchia ci sono gli assiomi, o affermazioni molto astratte, dalle quali tutte le altre sono dedotte logicamente. Le affermazioni di livello inferiore si chiamano proposizioni, o teoremi: La selezione degli assiomi è, per Turner, in realtà una materia abbastanza arbitraria. Egli comunque suggerisce alcuni criteri per selezionarli nel modo più valido: a) gli assiomi dovrebbero essere consistenti l'uno con l'altro, anche se non è indispensabile che siano interrelati logicamente; b) gli assiomi dovrebbero essere molto astratti; c) essi dovrebbero definire relazioni tra concetti astratti; questi rapporti dovrebbero essere del "tipo-legge", nel senso che le proposizioni più concrete derivate da queste non devono essere state falsificate dalle ricerche empiriche; d) gli assiomi dovrebbero avere una plausibilità intuitiva, nel senso che la loro verità appaia auto- evidente. Il pregio di tale sistema è quello che i concetti più astratti non devono essere misurabili direttamente, dal momento che essi sono logicamente collegati a proposizioni più specifiche e misurabili che, quando sono sottoposte a verifica, possono indirettamente provare, o meno, le proposizioni e gli assiomi più astratti. Queste due scale di astrazione, utilizzate dal Phillips per una ricerca sulla scelta della professione medica, possono aiutare a comprendere meglio i principi e la metodologia del modello assiomatico: Ma un esempio, preso da nostre ricerche sul pregiudizio (L’Abate, 2001, pp.162-176), può aiutare ulteriormente a comprendere la logica della teorizzazione assiomatica ed il suo uso per ricerche empiriche, che si prefiggano, in particolare, l’obiettivo di studiare come operare per superare i tanti pregiudizi che ci sono verso i diversi (sia dal punto di vista religioso, sia come gruppo etnico,ecc.). Come abbiamo accennato la teorizzazione assiomatica prevede che dagli assunti più generali, gli assioni appunto, che vengono dati per veri, si passi gradualmente a delle proposizioni ad un livello minore di astrattezza, i teoremi, che si sviluppano poi in ipotesi generali, ed infine, all’ultimo livello di astrattezza, nelle vere e proprie ipotesi operative, che saranno quelle che verranno effettivamente messe alla prova. Per le nostre (mie e dei miei collaboratori ed allievi) ricerche sul pregiudizio abbiamo elaborato il seguente schema, qui riprodotto I primi tre riquadri in alto, all’inizio dello schema, hanno alla base le ricerche etologiche di Lorenz (2000) e Eible Eibesfeld (1999), con la loro teoria della pseudo-speciazione. L'analisi etologica del comportamento umano spiega che, nei più crudeli conflitti tra uomini, i singoli gruppi si comportano verso gli estranei come se questi appartenessero a una specie diversa. Come se i nemici non fossero umani. Le prove addotte da questi autori su questa teoria sono, secondo noi, sufficienti per esser considerati degli assiomi di partenza dello schema. Il quarto schema, sempre dall’alto in basso, sulla percezione del fenomeno dell’immigrazione come una “pseudo-guerra”, o come una “invasione pacifica” del nostro territorio da parte dei tanti immigrati da paesi del terzo mondo che ogni giorno sbarcano nelle nostre coste, emerge con chiarezza da interviste fatte ai tanti giovani coinvolti in episodi di razzismo, dalla passività della gente comune verso i loro comportamenti, ed anche dall’uso, spesso, di navi anche militari per questa “difesa” del nostro territorio. Nei livelli successivi dei riquadri c’è invece una biforcazione della deduzione logica. Al lato sinistro si focalizza l’attenzione sul ruolo delle agenzie di socializzazione primaria (famiglia, scuola, mezzi di comunicazione di massa) nella trasmissione del pregiudizio. Sulla base di varie ricerche fatte, in precedenza, da Borghi e Carbonaro sul ruolo delle famiglie sulla trasmissione dei pregiudizi, e di quelle sul ruolo della scuola e dei mass media, presentate in un convegno su questo tema a Roma (Delle Donne, 1998), e di nostri allievi che hanno dimostrato che i giovani acritici verso la TV tendevano a seguire maggiormente i suggerimenti di consumo da questa proposti, abbiamo elaborato l’ipotesi operativa espressa nella tabella successiva, e cioè che “i giovani che accettano acriticamente gli insegnamenti della famiglia, della scuola e dei mezzi di comunicazione di massa, avranno livelli di pregiudizio superiori di quelli che hanno invece, verso queste agenzie, un atteggiamento critico” (L’Abate. 2001, p. 163) Nella seconda biforcazione si prendono invece in considerazione i fattori soggettivi che, o per la loro situazione oggettiva, oppure a causa di particolari esperienze personali, portano le persone ad avere una maggiore propensione ad assumere i pregiudizi trasmessi dal proprio gruppo, o dalla maggioranza del proprio paese . Da qui ne emergono tre diverse ipotesi operative. A sinistra quella che sostiene che i giovani che sentono il loro futuro incerto ed insicuro a causa soprattutto degli sbocchi lavorativi carenti avranno un livello di pregiudizio verso gli immigrati superiore a quello degli altri. Al centro quella che sostiene che i giovani con un alto livello di alienazione (forte senso di impotenza a modificare l’ambiente intorno a loro), saranno meno critici dei riguardi dei pregiudizi trasmessi ed avranno, perciò, livelli di pregiudizio superiori ai meno alienati. Nel terzo riquadro, a destra, l’ipotesi riguarda il livello di “assertività”, sostenendo che i giovani meno assertivi “avranno livelli di pregiudizio verso gli immigrati superiori agli altri e, tenderanno, più degli altri, ad aggregarsi e ad unirsi acriticamente a gruppi che si comportano in modo razzista” (Ibid.). I risultati delle nostre ricerche, e di quelle presentate al convegno citato di Roma, tendono, in generale, a confermare le ipotesi operative qui illustrate. Per una analisi più attenta di questi risultati si rimanda al testo citato. Qui indicheremo solo alcuni dei risultati che mi sembrano più rilevanti. Sull’ipotesi operativa sul ruolo degli strumenti di socializzazione primaria, in particolare riguardo alla famiglia, già le ricerche citate sui pregiudizi antisemitici di Borghi, Carbonaro ed altri loro collaboratori, avevano dimostrato che i giovani che provenivano da famiglie in cui prevaleva la comunicazione verticale, di tipo autoritario, avevano livelli di pregiudizio molto più elevati di quelli che provenivano invece da famiglie in cui la comunicazione era orizzontale, in cui i figli non erano trattati come “sudditi” da comandare, ma come “persone” con cui discutere e convincere, o essere convinti. Anche le nostre ricerche confermano questa ipotesi (L’Abate, 2001, pp.165 e segg.). Da queste emerge che i giovani solidali, con il livello più basso di razzismo, provengono in prevalenza da famiglie in cui il titolo di studio della madre è superiore o uguale a quello del padre. Il che ci ha fatto pensare a famiglie più ugualitarie in cui il ruolo della madre è importante e non secondario. Questo, d’altra parte, concorda con le ricerche di nostri colleghi psicologi (Fonzi, 1997) che hanno trovato che i giovani che avevano un maggiore comportamento “prosociale” provenivano da famiglie più ugualitarie al loro interno. Ma sempre in rapporto al condizionamento familiare, da una metodogia particolare di elaborazione dei dati, l’analisi dei profili, di cui parleremo più a lungo nel capitolo sull’analisi causale, emerge un fatto che ci ha positivamente colpito perché dimostra come questi condizionamenti possono anche essere superati. Da questa risulta che il gruppo che ha il livello più basso nella scala di “razzismo agito personale”, composto in prevalenza da ragazze, ha invece il massimo livello di “razzismo agito dei familiari e dei compagni”. Per questo il gruppo è stato da noi definito delle ”solidali ribelli” (L’Abate, 2001, p.166). Anche se nella definizione del razzismo agito dai familiari e compagni (dato che l’indice è basato su una loro risposta) non si può negare l’effetto della percezione personale, questo dato sottolinea, in accordo con l’ipotesi su citata, che i meno razzisti, per essere tali, non devono conformarsi al loro ambiente, ma devono piuttosto resistere alle pressioni dei loro vicini più prossimi . Ma sempre in rapporto alla stessa ipotesi, ma prendendo in considerazione il ruolo della scuola, le ricerche di contenuto dei libri di testo delle scuole elementari fatte dal seminario della Prof.sa Delle Donne, e presentate al convegno di Roma citato, confermano in pieno le funzioni della scuola nella trasmissione dei pregiudizi. Ed anche le ricerche dei miei allievi, fatte nell’anno accademico 1994/5, su come i libri di testo delle scuole medie trattavano il problema dell’olocausto, e sull’immagine che davano dell’ebreo, confermano che anche i libri di testo allora più recenti e diffusi non erano affatto immuni da omissioni e pregiudizi antisemitici (in L’Abate,op.cit., pp. 165 e 178). Ma un dato simile a quello delle “solidali ribelli” emerge anche dalle nostre ricerche con questionario su studenti delle scuole medie superiori. Da queste risulta che i giovani che ricercano più attivamente le informazioni, e non accettano perciò acriticamente le informazioni correnti, sono oggettivamente i più informati e sono anche i più impegnati socialmente e quelli che, nella scala di razzismo da noi costruita (F.Maggino, 1995), hanno i livelli più bassi. Ed in rapporto al ruolo dei giornali, nel convegno di Roma citato (Delle Donne, pp.463-505), è emerso chiaramente, attraverso la metodologia dell’analisi di contenuto, come questi, in generale, tendano a trasmettere dei pregiudizi contro gli immigrati, invece che informare obbiettivamente su questi fenomeni. Ed in rapporto alle tre ipotesi operative del secondo filone individuato, quello più incentrato sul comportamento individuale, prendendo la prima ipotesi: quella che sostiene che ”i giovani che sentono il loro futuro incerto ed insicuro a causa soprattutto degli sbocchi lavorativi carenti avranno un livello di pregiudizio verso gli immigrati superiore a quello degli altri”, questa ha una notevole conferma da una ricerca presentata a Roma sugli stereotipi degli studenti delle scuole professionali dell’Enaip (Cifiello, Minardi, Calmieri, in Delle Donne, citato, pp.441-446). I dati di questa mostrano come ci sia, tra di questi studenti, una generale tendenza a sopravvalutare numericamente il fenomeno dell’immigrazione, con una percetuale non indifferente (14%) che la vede tre volte superiore al reale. E che siano proprio gli studenti che sopravvalutano notevolmente il fenomeno ad essere i più preoccupati, ed i meno disposti all’accettazione degli immigrati perché li vedono, molto più degli altri, come un pericolo sociale ed anche come una minaccia alle proprie possibilità di lavoro. La seconda ipotesi di questo filone si incentra invece sul ruolo, nei pregiudizi, dell’atteggiamento da noi definito come “alienazione”, o meglio come senso di impotenza a modificare il proprio ambiente. Il dato da noi rilevato, nelle ricerche sul pregiudizio antisemita (Baracani, Porta, 1999) che i giovani da noi definiti come “volontaristi”, che sono cioè quelli che credono nella propria capacità di influenzare il proprio futuro, risultano avere livelli di pregiudizio sensibilmente inferiori a quelli dei “fatalisti”, è una prima conferma di questa ipotesi. Ma una conferma più precisa emerge proprio dalla correlazione tra l’indice di “alienazione “ da noi costruito (Maggino, op.cit.) e l’atteggiamento ed il comportamento razzista dei giovani studenti oggetto dlel’indagine. Questo del resto conferma anche altre ricerche, da noi già citate, sul rapporto tra i giovani, la pace e la nonviolenza fatte attraverso un questionario sottoposto ad un certo numero di studenti degli ultimi anni delle scuole medie superiori (L’Abate, 1989, 2001). Da queste era risultato un notevole distacco tra un atteggiamento pacifista molto diffuso tra i giovani (con livelli che vanno oltre l’80% delle risposte, ed un comportamento a questo coerente che raggiunge al massimo il 20% dei giovani studiati. La risposta data da loro stessi delle principali ragioni di questo distacco erano appunto legate al loro senso di “alienazione”, che non servisse a niente darsi da fare perché, come ha risposto uno dei giovani, “tanto decidono tutto loro e noi non ci possiamo fare nulla!”. Sensazione che è risultata presente anche nei riguardi del fenomeno dell’immigrazione. Nelle ricerche citate abbiamo sentito il bisogno di differenziare, sulle scie delle indicazioni di un sociologo statunitense (Olson, 1969;1983), anche tra due tipi diversi di alienazione, una “oggettiva”, la senzazione dei giovani di essere emarginati dai processi decisionali dalla società stessa, ed una “soggettiva”, la loro personale senzazione di essere incapaci di modificare la realtà esterna. Il primo tipo di alienazione, quella oggettiva, è risultata molto incrementata tra le ricerche fatte prima della guerra del golfo e quelle fatte dopo, dato che le decisioni del fare la guerra o meno non tengono mai conto delle sensazioni e dei desideri della popolazione in generale, e dei giovani in particolare. Il secondo tipo di alienazione, quella “soggettiva”, sia pur molto presente, mostra però una notevole percentuale dei giovani cercare di uscirne anche attraverso una richiesta di aiuto alla stessa scuola4. L’ultima ipotesi riguardava invece l’atteggiamento di assertività, ed il fatto che i meno assertivi avessero maggiori livelli di pregiudizio verso gli immigrati. Questa ipotesi è stata inizialmente invalidata dal fatto di avere utilizzata una scala che non teneva conto della differenza dell’assertività verso i pari e di quella verso le autorità (le persone autoritarie, infatti, sono molto assertive verso i loro pari, ma pochissimo, o niente, verso le autorità). Solo in seguito, creando, specie per i bambini di scuole elementari, delle scale che tenevano ben distinte queste due dimensioni (L’Abate, 2001, pp. 144-151) questa ipotesi è risultata confermata in pieno. Le ricerche successive hanno dimostrato che le persone, ed i giovani, non assertivi, tendono ad accettare acriticamente i pregiudizi del proprio ambiente sui diversi e sugli immigrati, ed ad subire il condizionamento verso un comportamento razzista. Inoltre tendono anche a subìre la violenza per poi, più tardi, rispondere anche loro con la stessa violenza da loro prima subìta. Infine per quanto riguarda i problemi della pace, hanno una forte tendenza a subìre i condizionamenti del potere che, per interessi politici o economici, ricorre alla guerra (L’Abate, 2001, pp.125-132; 2008 pp.45-52).Tutte queste conferme hanno portato sia me, che i miei allievi e collaboratori, a considerare l’educazione alla pace come una educazione ad un atteggiamento ed ad un comportamento assertivo, dimostrando sperimentalmente, come abbiamo già accennato in un capitolo precedente, come sia possibile far questo attraverso forme di educazione partecipative, maieutiche. 2) Il modello di teorizzazione causale Il modello causale tende ad individuare fino a che punto la variazione di una variabile causi la variazione di un'altra. In realtà questo è risultato molto difficile tanto che nelle scienze sociali si parla sempre meno di causa e sempre più di correlazione tra variabili diverse. Comunque si può dire che X causa Y se: 1) esiste una relazione tra X e Y; 2) la relazione è asimmetrica, così che una variazione di X ha come risultato una variazione di Y, e non viceversa; 3) una variazione di X ha come risultato una variazione di Y quali che siano le influenze di altri fattori (Bailey,p.64). Dato che nessuna causa può precedere l'effetto uno dei metodi più sicuri per determinare quale fattore sia la causa e quale l'effetto è la sequenza temporale (ciò che accade prima viene considerato la causa, ciò che accade dopo l'effetto) (Bailey,ibid.). L'esempio più illustre di teorizzazione causale, nella storia del pensiero sociologico, è quello dell'interpretazione dei suicidio da parte di Durkheim, nel grafico qui ripreso dal testo di Boudon (1984) : 4 Il fatto che gli studenti intervistati, quando richiesti sulle metodologie di educazione alla pace nelle scuole da loro preferiti, disdegnino le lezioni e le assemblee, e chiedano invece l’organizzazione, con la classe, di dibattiti, di ricerche apposite o di mostre, ed anche di giochi di ruolo, sono la dimostrazione del desiderio di avere metodi attivi e partecipativi di educazione che li portino anche, con le mostre o il teatro, a comunicare le loro acquisite idee ai genitori ed al loro amici,mostrando in fin dei conti il loro desiderio di uscire da quella alienazione soggettiva di cui abbiamo parlato. Gli autori precedenti tendevano a vedere un rapporto di causalità diretta tra temperatura e suicidio. Durkheim nota invece come i giorni più caldi siano anche quelli più lunghi. E dato che le statistiche dimostrano che i tassi di suicidio variano non solamente in funzione della stagione, ma anche con il ritmo di attività che caratterizza i giorni della settimana e le ore del giorno (ad esempio, il suicidio femminile aumentava durante la fine della settimana, mentre per l'uomo durante i primi giorni della settimana, oppure, in città il suicidio è più regolare lungo il corso dell'anno rispetto alle zone rurali) Durkheim collega il suicidio non con la temperatura ed i fatti atmosferici, ma con il ritmo della vita sociale. Il suicidio è più elevato quando la vita sociale è più intensa. L'illustrazione di questo esempio permette a Boudon di sostenere che "una relazione statistica tra due variabili può essere interpretata in maniera generale solo se viene inserita in un modello causale" (p.69). Un secondo esempio di teorizzazione causale citato da Boudon (ibid.) è quello del successo scolastico dei ragazzi a seconda delle condizioni dei genitori. La relazione tra reddito dei genitori e riuscita scolastica dei figli era stata trovata varie volte (era una specie di generalizzazione empirica). Essa tendeva ed essere interpretata meccanicamente come rapporto diretto, di tipo causale, del reddito nei riguardi del successo scolastico. Le ricerche di Girard, in Francia, permettono a Boudon di mostrare come questa fosse una relazione spuria. Infatti, analizzando il livello culturale delle famiglie la relazione diretta sparisce e ne emerge invece una tra livello di istruzione del padre ed il reddito, da una parte, e successo scolastico del figlio, dall'altra. E questo porta Boudon a confermare quanto già detto, e cioè che "l'analisi sociologica consiste nel precisare le strutture causali che spiegano le relazioni tra variabili" (p.71). Questo emerge ancora con più chiarezza dal grafico accluso tratto dal Turner (1986): Ma prima di concludere questo paragrafo è importante chiarire altri due aspetti: 1) il rapporto tra causalità e necessità; 2) i processi di causazione reciproca. Il primo è sottolineato dal Bailey che ritiene utile parlare di causalità in termini di condizioni necessarie e sufficienti. Si può dire che X è causa necessaria al verificarsi dell'effetto Y seY non accade mai a meno che non accada (o sia già accaduto) X. Si può dire che X è causa sufficiente di Y, se Y si verifica tutte le volte che si verifica X. Ma esistono altre tre combinazioni: a) causa necessaria ma non sufficiente: in questo caso X deve accadere, ma non basta, è necessario che compaia un'altro fattore prima che avvenga Y (es: fumo ed inquinamento atmosferico e cancro). In questo caso si può parlare dei due fattori come cause parziali; b) causa sufficiente ma non necessaria: quando due o più fattori, ad esempio X e Z, sono causa alternativa dello stesso fenomeno Y, ma non sono causa parziale, perchè anche uno solo dei due fattori è sufficiente a causare Y (ad es. nel caso risulti che il fumo e lo smog sono sufficienti, anche da soli, a provocare il cancro); c) causa necessaria e sufficiente: questa è la forma più forte di relazione causale, Y non accadrà mai senza che accada X, ed accadrà sempre quando accade Y. In questo caso non ci sono cause alternative, X è la causa completa, l'unica. Ma la situazione c) (di causa necessaria e sufficiente) è molto rara, di solito ci si trova davanti a molte difficoltà nel ricercare le cause di un fenomeno. Scrive, a questo proposito, Bailey: "Tale difficoltà può dipendere dal fatto che spesso esiste un gran numero di cause possibili, a volte un numero apparentemente quasi infinito. Questa è una delle ragioni per cui le nostre teorie spesso non riescono a isolare le cause corrette. Anche se ipotizziamo correttamente le cause, spesso non siamo in grado di dimostrare che esse sono veramente le cause, perchè non possiamo controllare adeguatamente altre variabili che potrebbero essere anche loro cause, o comunque produrre una variazione estranea tale da confondere la relazione che stiamo cercando di individuare" (p.66). Bailey ritiene che i modi migliori per conoscere le cause siano l'analisi della sequenza temporale, ed in particolare l'osservazione sperimentale, di cui parleremo in un capitolo successivo. Ma l'ultimo aspetto che mi sembra necessario chiarire, prima di chiudere il paragrafo sulla teorizzazione causale, è il fenomeno, sempre più diffuso, della causazione reciproca. Abbiamo visto, infatti, come, di solito, si parla di causa nei rapporti asimmetrici. Ma è possibile individuare una causa anche nelle relazioni simmetriche, in cui X è causa di Y e contemporaneamente Y è causa di X, cosicchè ciascun fattore è contemporaneamente causa ed effetto. Ma la causa può non essere diretta tra X e Y e passare attraverso una serie di altri fattori, intermedi, che rendono il processo ancora più complicato. E' una teorizzazione di questo tipo che si va diffondendo sempre più e che sta diventando uno dei punti centrali di una analisi attuale nel campo delle scienze sociali. Quest'ultime stanno cioè passando dall'analisi uni-causale, tipica di una sociologia ottocentesca, ad una causalità multipla, ed infine all'individuazione dei processi di causalità reciproca, interrelata, complessa. L'esempio più chiaro di questo tipo di causalità è il principio di causalità cumulativa, individuato da G.Myrdal (1944) per interpretare la situazione dei neri negli Stati Uniti d'America, e ripreso recentemente da R. Bastide per l'interpretazione delle malattie mentali. Ma altri esempi si potrebbero citare (Lewin, Morin, Galtung, Crozier e Friedberg,ecc.). Morin parla di necessità di passare dalla logica alla dialogica riferendosi appunto al'importanza, nelle scienze sociali contemporanee, dei processi di causalità reciproca, o circolare. Uno psico-sociologo americano J.Liss, facendo riferimento alla teoria dei sistemi, spiega il funzionamento, ma anche le difficoltà, del passaggio dalla causalità lineare a quella circolare. La scienza tradizionale (la logica lineare) è basata sul ragionamento, molto semplice, di "A causa B" (es: se tagliate il gambo del fiore questo muore). Ma questo modo di ragionare è sempre più inadeguato (ad esempio nel settore della terapia familiare in cui vengono sempre più alla luce processi di causalità reciproca). La logica circolare è più complessa: A causa B e B esercita su A un effetto retroattivo immediato (A-B,BA-AB). La logica lineare richiede che vengano presi in considerazione due elementi, od al massimo tre: (l'elemento A, l'elemento B, e la relazione A/B). La logica circolare o interattiva ne prevede almeno il doppio:1) l'elemento A, 2) l'elemento B, 3) l'impatto di A su B (A-B),4) B in un nuovo ruolo attivo al momento della sua reazione (B-), 5) l'informazione data da B ad A nella sua reazione (BA), 6) la nuova posizione di A ricevente la reazione di B (-A). Ma questo rende più complesso il rapporto, e più difficile l'accettazione di un modo di ragionare di questo tipo da parte di persone che siano educate a vedere tutto in bianco e nero (io ho ragione, tu hai torto), e non a vedere anche la propria parte di responsabilità in quello che accade ed in cui siamo coinvolti (Liss, p.45-46). Ma anche se più difficile, e non facilmente comprensibile, dice Liss, le scienze sociali attuali non possono fare a meno di questo modo di ragionare. 3) Il modello di teorizzazione classificatoria Il terzo modello di teorizzazione sociologica individuato da J. Turner è quello classificatorio o tipologico. Vediamo lo schema in cui lo presenta questo autore: La preoccupazione principale di questo modello non è quello di sviluppare proposizioni, ma nel vedere un fenomeno come un elemento all'interno di una configurazione di fenomeni. Il modello deve indicare, sul piano formale, le dimensioni ed i criteri di base con i quali classificare i fenomeni. Tali criteri rendono possibile al ricercatore di discriminare tra gli eventi e di collocarli nella categoria adeguata all'interno di un sistema più largo di categorie. Si fa inoltre uno sforzo comprensivo per trovare un posto, all'interno del sistema più largo di categorie, di tutti gli eventi empirici che rientrano in tale sistema, ed attraverso questo tipo di collocamento si raggiunge un certo tipo di comprensione del mondo. Vediamo un esempio di questo tipo di teorizzazione applicata al mutamento sociale: Un esempio di teorizzazione classificatoria R. Boudon definisce questo modello come "spazio di attributi e tipologie" (1984, p.60). Per tipo Boudon intende uno specifico composto di attributi, ogni tipo cioè si basa sulla combinazione di due o più attributi. Come esempio di questo tipo di ragionamento egli cita uno studio sul comportamento dei genitori dei genitori nei confronti dei figli. Prendendo come punto di partenza due attributi, il grado di "permissività" ed il grado di "calore" del comportamento dei genitori, e considerando i due attributi come aventi due diverse modalità ciascuno, si avranno le seguenti possibilità: sul primo asse, permissività, restrittività; sul secondo, caldo, ostile. Lo spazio di attributi emergente è il seguente: Spazio degli attributi del comportamento dei genitori verso i figli I tipi individuati sono perciò: I tipo: genitore indulgente, caratterizzato da un comportamento caldo e permissivo; II tipo: genitore ansioso-nevrotico, caratterizzato da un comportamento ostile e permissivo; III tipo: genitore iperprotettivo, caratterizzato da un comportamento caldo e restrittivo; IV tipo: genitore autoritario, caratterizzato da un comportamento ostile e restrittivo. Ma Boudon sottolinea come la costruzione di tipi sulla base della combinazione di attributi possa non trovare riscontro nella realtà sociale, o non essere del tutto rispondente ai fini della ricerca. Per superare questo fatto si può ricorrere all'operazione logica della riduzione di cui egli individua due tipi: a) riduzione funzionale, se esistono relazioni tra gli attributi presi in considerazione che fa si che certe combinazioni non si verificano, queste possono essere eliminate; b) riduzione pragmatica, partendo dagli obiettivi specifici della ricerca si eliminano le combinazioni che non interessano. Ma una operazione importante in una ricerca può essere quella di ricostruzione. Analizzando le tipologie proposte da diversi studiosi, o dal linguaggio comune, si può verificarne la consistenza logica ricostruendo gli spazi di attributi, o tipologie, su cui si basano. L'operazione può segnalarci che una o più definizioni di attributi sono carenti, mancanti od indeterminate, e quindi mostrare l'inadeguatezza della tipologia invitando il ricercatore a fare ulteriori precisazioni che possano portare ad una verifica più rigorosa. Turner sottolinea però anche i limiti di tale forma di teorizzazione. Questa infatti può essere utile nel permettere ai ricercatori di visualizzare come i fenomeni si adattano l'uno con l'altro, ma non è chiaro che le spiegazioni classificatorie rispondano adeguatamente alla domanda "perchè?". E' certo, comunque, che esse stimolano altri tipi di spiegazioni scientifiche. Finchè un ricercatore non conosce il modello, o la configurazione di un fenomeno, può essere impossibile conoscere cosa può richiedere ulteriori spiegazioni. Questo studioso, per andare oltre alle classificazioni suggerisce questi due metodi: a) si possono cercare fattori causali dietro il fenomeno; b) si possono cercare i principi che sono sotto il fenomeno stesso. Ma i due metodi si possono integrare reciprocamente. Alla fine Turner si pone la domanda di quale dei tre modelli di teorizzazione da lui individuati (assiomatico, causale e classificatorio) sia più valido. Ma la sua risposta è che tutti e tre hanno dei pregi e dei difetti, e che si può rispondere diversamente a seconda dei singoli ricercatori e degli scopi teoretici sui quali si basano. Ma prima di concludere il capitolo è necessario affrontare un'altro tema, quello dei livelli di teorizzazione, sottolineato da un'altro studioso, il Loubet del Bayle (1978) Egli individua tre principali livelli: I) le teorie particolari; II) le teorie intermedie, o a medio raggio; III) le teorie generali. Ma vediamole meglio, una per una: I) Le teorie particolariQueste sono caratterizzate dal fatto che il loro tentativo di sistematizzazione riguarda un campo ristretto ed hanno una portata limitata. L'esempio citato da Loubet è quello della teoria della personalità politica di H. Lasswell. Loubet la riassume in questo modo: "L'evoluzione della personalità politica si caratterizza per uno spostamento di motivi personali verso un oggetto di interesse pubblico, che si razionalizza in termini di interesse generale. Secondo questa teoria agli inizi di una carriera politica ci sarebbe una frustrazione a carattere privato, avendo l'individuo la sensazione di aver subito una privazione: di denaro, di salute, di affetto, di considerazione sociale, ecc.. Questo sentimento di frustrazione condurrebbe l'individuo a cercare una compensazione nella conquista e nell'esercizio del potere politico. C'è dunque una deviazione di motivi personali verso un oggetto pubblico. Ma, in seguito, impegnandosi nella carriera politica, l'individuo dimenticherà, o dissimulerà, questi motivi di ordine privato, e razionalizzerà la sua condotta invocando considerazione di interesse generale" (p.215). Il punto di partenza di una teoria del genere è una riflessione induttiva basata su interviste a personalità politiche. I risultati di queste osservazioni vengono generalizzati e sintetizzati, ricollegandoli ad un certo, limitato, numero di idee organizzate in un insieme coerente. Malgrado il loro carattere limitato, ed il loro basso livello di generalizzazione, secondo Loubet le teorie particolari costituiscono le prime pietre dell'edificazione di un quadro teorico. Attualmente sono numerosissime, ed il loro valore molto diversificato, ma possono essere comunque molto utili per passare ad un livello superiore di generalizzazione. II) Le teorie intermedie, a medio raggioIl sociologo che ha sottolineato maggiormente l'importanza di questo tipo di teorizzazione è R.K.Merton (1959). Egli si pone il problema di come la ricerca empirica possa influire sulla teoria sociologica, ed individua quattro funzioni principali della ricerca stessa: "Essa suscita, riformula, orienta, e chiarifica la teoria: il dato anomalo ed imprevisto (serendipity) influisce sull'origine della teoria; nuovi dati esercitano una pressione per l'elaborazione di uno schema concettuale; nuovi metodi di ricerca empirica esercitano una pressione verso nuovi orientamenti dell'interesse teoretico; la ricerca empirica esercita una pressione verso la chiarificazione dei concetti" (pp.146-162). Secondo Merton le teorie di medio raggio sono cruciali nel processo di teorizzazione sociologica perchè sono verificabili (mentre quelle generali spesso non lo sono, o non almeno direttamente), e sufficientemente ampie da fornire dei primi passi verso la costruzione di teorie generali, più fondate di quelle che si trovano attualmente. Secondo Loubet esse superano l'analisi di un oggetto ristretto, ed interessano in generale tutto un settore della vita sociale, senza però pretendere di rendere conto dell'insieme dei processi sociali. Ma l'esempio più illustre di teorizzazione a medio raggio è sicuramente la teoria del comportamento anomico dello stesso Merton. Secondo questo studioso nella società nordamericana c'è una scissione anomica tra mete culturali interiorizzate e mezzi istituzionalizzati. Mentre infatti tutti i cittadini sono socializzati a credere che tutti possano raggiungere il successo, di fatto solo pochi privilegiati possono farlo. Di fronte a questa scissione esistono cinque possibili forme di adattamento: ANOMIA E COMPORTAMENTO DEVIANTE Forme di adattamento Valori Mezzi individuale Condivisi Istituzionalizzati Conformismo + + Innovazione + - Ritualismo - + Retrattismo (fuga) - - Ribellione +- +- Il + significa accettazione, mentre il - rifiuto. Come si vede le forme di adattamento individuate sono cinque, il conformismo, che porta ad accettare sia i valori condivisi che i mezzi istituzionali: Merton sottolinea come questa forma di adattamento sia più diffusa tra le classi elevate per le quali i mezzi istituzionali, di solito, funzionano; l'innovazione, che accetta i valori condivisi ma rifiuta invece quelli istituzionalizzati, e porta perciò a ricercare il successo anche con mezzi illegali: Merton sottolinea come spesso siano le classi più povere, che hanno grossi limiti di ascesa sociale tramite i mezzi istituzionalizzati, ad andare verso questa forma di adattamento; il ritualismo, che porta invece a rifiutare i valori condivisi e ad accettare invece i mezzi istituzionalizzati: Merton sottolinea questo adattamento come tipico delle classi medio basse, in particolare dei funzionari di basso livello, che sono attaccati alle norme senza capire a cosa queste servano; il retrattismo, o fuga, che porta invece a rifiutare sia i valori che le norme: questo è l'adattamento tipico dei barboni, o di certi gruppi di hippies; ed infine la ribellione, che rifiuta ed accetta contemporaneamente sia i valori che i mezzi, o meglio che lavora per modificare questi due livelli: Merton sottolinea come spesso questa forma di adattamento sia tipica di intellettuali di classe elevata che si ribellano alla propria classe sociale. Come si vede, attraverso questa teoria, Merton interpreta comportamenti considerati del tutto opposti, come il conformismo e la ribellione, che venivano spesso interpretati come fenomeni del tutto separati, e quasi opposti, l'uno dall'altro. E questo mi sembra un grosso vantaggio di teorie di questo genere, che permettono perciò di fare realmente un passo avanti verso teorie più generali. III) Le teorie generaliLe teorie generali si collocano al livello più elevato di generalizzazione dato che la loro ambizione è quella di costituire una spiegazione sintetica dell'insieme della vita sociale. Esse hanno lo scopo di riportare l'insieme dei fenomeni e dei processi sociali ad alcuni principi fondamentali. Come esempi di tali teorie Loubet cita il marxismo, ed il funzionalismo di Parsons. Non è qui il caso di riprendere gli elementi principali di tali teorie. Il grosso rischio di quest'ultimo tipo di teorizzazione è quello dell'impossibilità di dimostrarla, e la sua perpetuazione perciò non come teoria comprovata, ma come una ideologia accettata acriticamente. Il sociologo che più di altri ha accentrato le sue critiche su questo tipo di teorizzazione è C. Wright Mills, che l'ha definita la "grande teorizzazione", sottolineando con questo il suo carattere di astrattezza e di non verificabilità. In conclusione però il discorso va riportato ai processi conoscitivi di cui abbiamo già parlato, e all'induzione e la deduzione. Dato che abbiamo sostenuto l'importanza di ambedue questi processi, c'è bisogno sia di teorie particolari che, consolidate in teorie intermedie, possano, dal basso, attraverso l'induzione e le nuove ricerche, portare alla costruzione di teorie più vaste, generali. Ma c'è anche bisogno di teorie generali da cui trarre ipotesi verificabili e da verificare, e che possono portare, attraverso un processo deduttivo, alla conferma o meno delle stesse. Ma vorrei concludere questo capitolo sottolineando, con il Turner, lo stato provvisorio ed iniziale della teoria sociologica. Secondo Turner, infatti, molta di quella che viene definita come teoria sociologica, è solo un insieme slegato di assunzioni implicite, di concetti non definiti adeguatamente, e di proposizioni vaghe e logicamente sconnesse. Qualche volta le assunzioni sono definite esplicitamente e servono ad ispirare asserzioni teoretiche che contengono concetti ben definiti. Ma la maggior parte della teoria sociologica costituisce una "immagine della societa" verbale, piuttosto che un insieme rigorosamente costruito di affermazioni teoretiche, organizzate in un modello logicamente coerente. Perciò, secondo questo studioso, gran parte della cosiddetta teoria è, in realtà, solo una prospettiva o un orientamento generale per guardare ai vari aspetti della vita sociale che, se tutto va bene, potranno, eventualmente, diventare in futuro delle teorie scientifiche. Capitolo 2 I PARADIGMI Abbiamo già visto come il contributo principale allo sviluppo del concetto di "paradigma" sia venuto da T. Kuhn che ha visto passare tutto il progresso della scienza attraverso il mutamento rivoluzionario dei paradigmi. Kuhn definisce tale concetto come un sistema di idee guida che orientino e organizzino una certa area di investigazione scientifica, rendendola prontamente comunicabile e modificabile all'interno di una comunità che ha lo stesso linguaggio. Vedremo meglio, in seguito, come in questa definizione siano inglobati concetti diversi che hanno fatto diventare - ricordandoci quanto detto sui problemi controversi - tale concetto stesso come una questione controversa oggetto di vari dibattiti. Un primo dibattito, più interno alla filosofia della scienza ed all'epistemologia, che alla sociologia vera e propria, è quello su come avvenga il progresso conoscitivo. Le tesi sono varie: il progresso conoscitivo come rivoluzione permanente (Popper, 1970), o come rivoluzione di tanto in tanto (Kuhn, 1978), o come proliferazione e confronto delle varie teorie sulla base di programmi di ricerca (Lakatos, 1984), o, infine, come unione tra il sapere rivoluzionario - guidato dalla logica della scoperta - e quello cumulativo - guidato dalla logica della ricerca (Fisichella,1985, p.32). Ma non è tanto su questo dibattito che volevo concentrare la mia attenzione, quanto su quello, più interno al mondo sociologico, tra sociologi che hanno cercato di applicare il concetto di paradigma nelle scienze sociali. Mi sembra importante in rapporto a questo secondo dibattito vedere quali i tentativi principali fatti, e quali risultati (se ci sono stati) si sono ottenuti. Per prima cosa vediamo altre definizioni del concetto di paradigma da parte di sociologi che l'hanno utilizzato per le loro analisi. Giddens lo definisce semplicemente come "quadri di significato" (1979, p.201), e ne mostra l'importanza per la ricerca, se si mantengono aperti ad un confronto reciproco. Ceresa, Mela, Pellegrini, lo definiscono invece :"Un modo di strutturare un insieme di domande e di problemi che, contemporaneamente, rappresenti un tentativo di organizzare tali problematiche in costrutti canalizzabili in termini scientifici" (1981, pp. 1 e 2). Ritzer, infine, ne dà una definizione molto più complessa e dettagliata: "Un paradigma è una immagine di base dei contenuti di una scienza. Serve a definire cosa dovrebbe essere studiato, a quali domande si dovrebbe rispondere, come si dovrebbe formularle, e quali regole dovrebbero essere seguite per interpretare le risposte ottenute. Il paradigma è la più vasta unità di consenso all'interno di una scienza e serve a differenziare una comunità scientifica (o sotto-comunità) da un'altra. Sussume, definisce e interconnette esempi, teorie, metodi e strumenti che esistono al suo interno" (1975, p.157). Come possiamo vedere le tre definizioni su citate sono molto diverse l'una dall'altra, soprattutto per l'ambito che esse coprono, circoscritto, ma vago, la prima, molto ampio, ma molto specificato, l'ultima. E' abbastanza naturale che, partendo da un concetto così mal definito, ed inglobante in realtà concetti diversi, si sia arrivati a fare delle proposte di applicazione in campo sociologico le più disparate. Ma converrà dare uno sguardo almeno alle principali di queste proposte per vedere se il concetto è utilizzabile, oppure, come sostiene Martindale, ed anche la Cavallaro (una sociologa italiana), è talmente confuso e distorcente da dover essere eliminato dal linguaggio della ricerca sociologica. Ma questo ci porterà a prendere in considerazione anche il dibattito, molto vivo, tra i sostenitori di un'unico paradigma unificato, come obiettivo di fondo per superare la confusione creata dai molti paradigmi utilizzati, ed i sostenitori, invece, della multiparadigmaticità della sociologia. Dato che ognuno dei proponenti sembra aver seguito una strada diversa, direttamente ispirata dal libro di Kuhn, ma senza riferimento esplicito l'uno con l'altro, seguirò un ordine logico, passando dalle proposte più semplici a quelle più complesse. 1)Le proposte semplici Tra le prime, le più semplici, mi sembra opportuno far riferimento a quelle di Friedrichs, di Eisenstadt e Curelaru, e di R. Boudon. Il Friedrichs (1970) distingue vari paradigmi, in particolare uno sistemico, che sottolinea l'integrazione interna al sistema, ed uno conflittuale, che ne sottolinea invece la disintegrazione ed il conflitto. E ritiene necessario accettarli tutti e due, sostenendo perciò la multi-paradigmaticità della sociologia. Ma quello che a lui sembra più centrale, ed in cui invece non accetta l'eclettismo come semplice sommatoria, è il concetto di paradigma visto come immagine del sociologo su se stesso, come agente del progresso scientifico. In questo settore egli individua altri due paradigmi: quello profetico e quello sacerdotale. Il primo, quello profetico, vede la funzione della sociologia essere quella, non solo di conoscere ed interpretare il mondo, ma anche di trasformarlo, di renderlo migliore, più adeguato ad una convivenza civile, ed ai risultati ottenuti dalla ricerca stessa. Il sociologo è visto, perciò, come agente del mutamento sociale. Questo approccio è stato, per Friedrichs, alla base della nascita e dello sviluppo della sociologia nel suo paese, gli USA. Il secondo paradigma, come i sacerdoti che si limitano a celebrare un rito, non si preoccupa tanto di trasformare il mondo, compito considerato esterno al mondo sociologico, quanto di interpretarlo sulla base di codici ben specificati ed accettati, oggettivamente costituiti (il metodo che viene equiparato al rito), di solito presi in prestito dalle più consolidate scienze naturali. In questa visione il sociologo è visto come uno scienziato "libero da valori". Questo sembra, a Friedrics, lo sviluppo più recente della sociologia nord-americana. Egli non nasconde la sua simpatia per il primo dei due paradigmi considerandolo fondamentale per una sociologia che non si estranei, ed astragga, dalla realtà sociale che la circonda. Piuttosto interessante, dal punto di vista della ricerca formativa di cui abbiamo parlato nel cap.1, un esempio di ricerca-intervento sul problema del razzismo, da lui riportata in un'altro saggio di cui abbiamo già accennato, che lui propone come esempio di una sociologia che si basa sul paradigma da lui preferito (1972). Ma su questo argomento dovremo tornare quando tratteremo del problema dei valori nella ricerca sociale. Ad un livello leggermente più elevato di complessità è la proposta di Eisenstadt e Curelaru (1976) che individuano tre paradigmi, che definiscono però anche modelli: I :I paradigmi discreti; II: I paradigmi da sistemi chiusi; III: I paradigmi da sistemi aperti. Ma vediamo meglio come questi studiosi descrivono questi paradigmi. I. Paradigmi discreti Il fuoco è su entità concrete separate, come le proprietà ecologiche, la grandezza dei gruppi, o le caratteristiche razziali e psicologiche. Data l'immagine del mondo come un insieme di unità isolate, coloro che hanno operato all'interno di questo paradigma avevano difficoltà a trattare con argomenti relazionali come l'emergenza, l'innovazione, la creatività. II. Paradigmi a sistema chiuso La società era composta di elementi separati ma interrelati. Coloro che operavano all'interno di questo paradigma tendevano a considerare un elemento come dominante sugli altri (es: Marx e l'importanza dell'economia). III. Paradigmi a sistema aperto Focalizza la dinamica sistemica interna, le interconnessioni, e i continui processi di retroazione (feed-back) tra i diversi componenti del sistema sociale. Gli autori concludono che, malgrado non ci sia un passaggio lineare e naturale dall'uno all'altro di questi paradigmi, e che vi sia stata storicamente una sovrapposizione tra di loro, sembra esserci un andamento a lungo termine dai primi, i discreti, attraverso quelli a sistema chiuso, verso i paradigmi a sistema aperto. Ad un livello superiore di complessità che, si avvicina, ma, per certi versi, li supera, a quelle che analizzeremo successivamente, ci sono le proposte di Boudon. Egli parte dall'asserzione di Lazersfeld che la macrosociologia sia dominata da due teorie, il marxismo ed il funzionalismo. Boudon ritiene sia più giusto considerarli paradigmi, e non teorie, e pensa riportare il primo a quella forma di neo-marxismo che si è incorporato e tradotto nel lavoro di molti sociologi occidentali. Considera inoltre esistente, e fondamentale, anche un'altro paradigma, che egli definisce dell' "analisi interattiva", o meglio, il che lo rende più distinguibile dall'interazionismo, dell' "analisi delle aggregazioni delle azioni". Egli pensa che quest'ultimo paradigma, molto usato in campo economico e che ha anche illustri precedenti in campo sociale (ad es: nel contratto sociale di J.J.Rousseau) sia stato ingiustamente ignorato da molti sociologi contemporanei. Secondo Boudon (1972), malgrado ci siano diversità notevoli al loro interno, si possono individuare alcuni assunti che caratterizzano i primi due paradigmi. Questi sono: I: Funzionalismo. Il primo assunto è quello che nessuno può imporre la propria volontà su altri attraverso la forza e la violenza. Il secondo è invece la considerazione che quello che conta non sono tanto gli squilibri interni ad una società quanto il fatto che un allontanamento dell'equilibrio raggiunto tra le varie parti sociali che compongono la società possa portare ad un peggioramento della situazione di uno o più di coloro che stanno peggio. Cambiamenti sociali, anche se possono portare ad un incremento delle inuguaglianze interne, se fanno migliorare la situazione di tutti, sia di coloro che stanno meglio, sia di coloro che stanno peggio, sono visti come un passaggio da uno stato di squilibrio ad uno di equilibrio. Infatti, per gli studiosi che si richiamano a questo paradigma, "uno stato di inuguaglianza è in equilibrio se, e soltanto se, l'allontanarsi da questo equilibrio peggiorerebbe la situazione di almeno uno dei partecipanti (in una versione alternativa: di coloro che stanno peggio)" (ibid., p.53). II: neomarxismo. L'assunto di base di questo paradigma è invece quello che una classe (quella dominante) ha il potere di imporre la sua volontà su quella/e dominata/e. I mali pubblici, come l'inuguaglianza delle opportunità educative, l'inquinamento, lo spreco delle risorse naturali, il deterioramento della qualità della vita, il crimine, ecc., sono interpretabili perciò solo per il fatto che il profitto che alcuni membri della classe dominante ne traggono, grazie al loro ruolo socioeconomico nella società, è più grande dei danni che essi subiscono come membri della società più vasta, dalla loro esistenza. Boudon ritiene che il funzionalismo non sia riuscito a spiegare la persistenza dei "mali sociali" nella società occidentale, e che questo abbia reso popolare il paradigma neo-marxiano trai sociologi occidentali. Ma pensa che quest'ultimo sia limitato, nella sua funzione esplicativa, proprio da quel forte assunto che "una classe (la classe dominante) ha il potere di imporre la sua volontà sulle altre (la/e classe/i dominata/e)" (ibid., p.52). Attraverso due esempi, quello dell'inuguaglianza di opportunità scolastica nelle società occidentali, e quello della propaganda, Boudon mostra come un terzo paradigma, da lui definito come "analisi dell'aggregazione delle azioni", permetta di comprendere gli esiti negativi delle nostre azioni (non interpretabili sulla base degli assunti funzionalisti) senza però introdurre quel forte assunto del neo-marxismo che, secondo Boudon, non è falsificabile. Sulla base del paradigma proposto da Boudon, infatti, la persistenza nelle società occidentali di grossi livelli di ereditarietà sociale (i.e. squilibri di livello educativo tra le classi), piuttosto costanti nelle ultime decadi, malgrado un indubbio accrescimento delle opportunità di studio, è interpretabile dal fatto che gli individui misurano l'interesse di investimento in educazione sulla base delle proprie risorse. Il fare studiare ancora un anno rappresenta un costo (sia a causa delle spese, sia a causa dei mancati guadagni), il che fa sì che più piccolo sia il bilancio della famiglia più grande invece la disutilità di affrontare tale costo. Lo stesso vale per i guadagni attesi. Questo permette di comprendere la persistenza del fenomeno senza ritenere che esso dipenda, come sostengono i neo-marxisti, "dal controllo della classe dominante sul sistema educativo" (p.56). Secondo Boudon infatti questi ultimi non riescono a spiegare come mai sia diminuita l'inuguaglianza di opportunità scolastica nei paesi occidentali in modo notevole, senza però influenzare il risultato finale della mobilità sociale. Per Boudon "quando ogni individuo richiede più educazione di quanto abbiano fatto i suoi simili in passato, l'aggregazione di questi cambiamenti, ognuno dei quali ha un effetto infinitesimo, risulta in un cambiamento macrosociologico nella struttura delle aspettative sociali associate con ogni livello educativo" (ibid., p.56). Ma questo porta a risultati sia positivi che negativi. Il fatto che ci sia una domanda di maggiore educazione è desiderabile, sia dal punto di vista individuale che collettivo. Ed il fatto che la domanda di educazione cresca maggiormente tra le persone della classe bassa, rispetto alle altre, è pure desiderabile dal punto di vista sociale perchè porta ad una distribuzione più equilibrata dell'educazione. Ma il modello aggregativo mostra che ci sono anche dei risultati indesiderabili, come, ad esempio, il nessun accrescimento di mobilità ascensionale per i giovani delle classi basse, e la necessità di un maggior numero di anni di educazione per mantenere la stessa possibilità di ascesa sociale, ed anche, persino, una maggiore inuguaglianza di guadagni. Questo mostra come certi fenomeni, come la domamda di educazione, hanno insieme effetti buoni e cattivi, che non possono essere reciprocamente separati. Questo porta Boudon a sostenere l'importanza del terzo paradigma, che si basa su un principio metodologico generale, che in altri testi (Boudon, 1980) egli ha definito come "individualismo metodologico", che i "fenomeni macrosociologici, anche se appaiono per definizione a livello societario, dovrebbero essere analizzati come risultanti dall'aggregazione di azioni elementari" (1972, p.54). Avremo occasione di ritornate su questa proposta nel capitolo che dedicheremo all'individualismo metodologico. Ma vorrei sottolineare qui il fatto che, nel presentare il terzo paradigma, Boudon abbia di fatto presentato un metodo di analisi della realtà sociale. Questo ci potrà aiutare quando cercheremo di superare la confusione terminologica sui concetti di paradigmi, teorie e modelli. 2) Le proposte complesse Ceresa, Mela, Pellegrini, sono tre sociologi italiani che operano all'Università di Torino, ed hanno scritto, a tre mani, un lavoro molto interessante su "Una lettura della sociologia per paradigmi"(1981). In questo libro essi distinguono sette principali paradigmi sociologici: 1) Meccanico. Ha l'immagine della società come una macchina, o come un sistema planetario (meccanismo celeste); vede gli attori sociali come atomi in condizioni di equilibrio reciproco; fa riferimento, come sua comunità scientifica (che abbiamo visto messa da Kuhn al centro del concetto di paradigma) alla fisica sociale, ed alle prime sociologie sistematiche; ed ha un rapporto preferenziale con i paradigmi organici e sistemici e con la cibernetica sociale; 2) Organico. Vede la società come un organismo vivente, "sui generis"; fa riferimento, come modelli teorici, alle leggi strutturali e evolutive degli esseri viventi (differenziazione, crescita, patologia); ha, come comunità scientifica, la sociologia classica, molto influenzata dal bioorganicismo, ed al funzionalismo; ha rapporti preferenziali con i paradigmi meccanici e sistemici (in particolare, per quest'ultimo, alla socio-biologia), ed, in parte, a quello dialettico, corretto però dalla 2a internazionale e dal revisionismo; 3) Dialettico. Vede l'uomo come soggetto di trasformazione delle condizioni materiali naturali, e vede centrale, nei processi storici, la lotta tra gli agenti sociali (la lotta di classe); come modelli teorici fa riferimento alle leggi di organizzazione della produzione (modo di produzione, divisione del lavoro) e vede il ruolo dell'economia come fondamentale per lo sviluppo della società; la sua comunità scientifica sono gli intellettuali (economisti, sociologi, ecc.) ed i politici, i militanti e l'avanguardia proletaria in genere; i suoi rapporti preferenziali sono con i paradigmi organico, strutturalista e dell'azione sociale; 4) Strutturalista. L'immagine di questo paradigma è quella di relazioni sociali governate da sistemi astratti di organizzazione, come in un sistema linguistico; come modelli teorici ha quelli formali di regolazione e di invarianza e delle regole di trasformazione, e sottolinea la ricerca di strutture profonde, anche inconsce; la comunità scientifica è quella dei linguisti, degli psicologi e degli antropologi, ma in particolare le correnti struttural-funzionaliste in sociologia; i rapporti preferenziali sono con il paradigma dialettico e con quello sistemico; 5) Sistemico. L'immagine della società dei sostenitori di questo paradigma è quello di una totalità organizzata, innervata da reti di comunicazione e informazione, vista come un organismo vivente, inserito in altre totalità-ambiente; i suoi modelli teorici sono le leggi che spiegano le interrelazioni tra le parti e le loro condizioni di equilibrio, la regolazione del sistema, le sue finalità, ed i suoi processi evolutivi; la comunità scientifica è quella interdisciplinare di studiosi di scienze matematiche e naturali che hanno teso a vedere il concetto di "sistema" come valido in campi diversi, compreso quello delle scienze sociali; i suoi rapporti preferenziali sono con i paradigmi organico, meccanico, transazionali (soprattutto la teoria dei giochi), strutturalista; 6) Azione sociale. L'immagine è quella della società come un processo di inter-azioni in cui gli attori sono impegnati a definire la propria posizione rispetto a quella degli altri, ed in cui hanno un ruolo fondamentale lo scambio di comunicazione e la conversazione; il modello teorico è quello dell'analisi del senso soggettivo che l'attore conferisce alle proprie azioni, ai suoi modelli d'azione ed ai suoi ruoli, e l'attività creativa dell'attore; la comunità scientifica è quella della sociologia classica (soprattutto Weber), della sociologia nord-americana, la fenomenologia e la microsociologia; i rapporti preferenziali sono con i paradigmi transazionali, organico (funzionalismo), dialettico, sistemico; 7) Transazionali.Gli autori vedono questo paradigma composto da tre diverse scuole, ciascuna di queste con una certa autonomia. 1) La drammaturgia: vede la società come un teatro; ha come modelli teorici, i personaggi, la scena, la rappresentazione; focalizza lo studio dell'espressività, dell'interazione faccia a faccia, del contegno, della deferenza, della manipolazione del ruolo e dei rituali; ha, come comunità scientifica, la micro-sociologia sulla scia della tradizione iniziata da Simmel; ha rapporti preferenziali con il paradigma dell'azione sociale. 2) La strategia: come immagine ha la costruzione razionale di strategie per il successo; come modelli teorici gli attori che si muovono in giochi con regole da scoprire, in un rapporto di competizione generalizzata, con le alleanze ed il calcolo dell'efficacia dell'agire; la comunità scientifica è soprattutto quella degli studiosi di sociologia dell'organizzazione; i suoi rapporti preferenziali con i paradigmi dell'azione e quello sistemico. 3) Il mercato: l'immagine è appunto quella del mercato con al centro il patteggiamento del prezzo e lo scambio; il modello teorico è quello del calcolo costi/benefici nell'interazione sociale (e cioè di quanto ci guadagno o ci rimetto nel fare una certa azione); la comunità scientifica è soprattutto quella del comportamentismo con il suo grosso peso nella tradizione psicologica nord-americana; i rapporti preferenziali sono con l'organicismo, e, parzialmente, con l'azione (ibid., pp.89-90). Ceresa, Mela, Pellegrini tentano anche una periodizzazione storica dell'influenza e del declino dei diversi paradigmi dal 1830 ad oggi. Dal 1830 al 1880 vedono, come paradigmi forti, l'organico ed il dialettico, e, come latenti, il meccanico ed il sistemico. Dal 1950 alla metà del 60 vedono invece il paradigma organico come quello egemone, il meccanico, che era presente soprattutto nel periodo dal 1880 al 1930, è di nuovo latente, mentre sono presenti tutti gli altri paradigmi. Il periodo da metà degli anni 60 a metà degli anni 70 è quello del confronto e della competizione tra i diversi paradigmi. In quello successivo, fino ad oggi, non sembra esserci alcun paradigma egemone, ma essere presenti il sistemico, l'azione sociale, e quelli transazionali; essere anche presenti, ma indeboliti, l'organico ed il dialettico; essere infine indebolito anche lo strutturalista. In un loro bilancio dei diversi periodi definiscono così il periodo più recente, dalla metà degli anni 70 ad oggi: "Situazione di riflessione e lotta per la leadership. Emergenza del paradigma sistemico e della istanza di "produzione della società" (ibid., p.87). Si pongono infine il problema se sia possibile arrivare ad un unico paradigma e propongono alcuni elementi che possono aiutare una "nuova sintesi paradigmatica". Questi, nelle linee essenziali, sono i seguenti: 1) Il superamento della dicotomia e della contrapposizione tra teorie e paradigmi dell'azione sociale (azione sociale, transazionali) che mettono in primo piano l'operatività dell'uomo e la sua capacità di agire sociale, e i paradigmi "strutturali" (organico, meccanico, sistemico, strutturalista, dialettico, in parte) che privilegiano le funzioni dei grandi sistemi (il condizionamento sociale dell'agire umano). 2) Superamento delle teorie classiche della stabilità e del mutamento che privilegiano l'equilibrio sociale. I grandi sistemi possono funzionare anche in condizioni di forte instabilità (vedi concetti di retroazione negativa e positiva, e degli anelli complessi di retroazione). 3) Superamento del modo di ragionare dicotomico tra "senso soggettivamente inteso" e "acquisizione di senso dalla struttura-sistema" (i sistemi non sono entità date a priori, ma prodotti essi stessi dell'attività competente dei soggetti) (p. 102 e seg.). Un sociologo francese E. Morin (1984), sembra aver accettato la sfida di cercare un nuovo approccio integrato che egli chiama il "paradigma della complessità". In tredici diverse proposizioni confronta questo paradigma con quello della scienza classica, che egli chiama "paradigma della semplificazione". Eccole: 1) La scienza classica (da qui in avanti SC) si basa sul principio dell'universalità, per cui la conoscenza scientifica è soltanto conoscenza generale; si tende ad escludere il particolare e l'individuale come contingenti o residui. Il paradigma della complessità (PC da qui in avanti) considera questo principio inadeguato e mette in luce il fatto che l'intelleggibilità inizia dal particolare e dall'individuale; 2) La SC tende ad eliminare tutto ciò che è in rapporto con un singolo, specifico, evento, essendo alla ricerca di regole generali. Il PC ha bisogno di includere la storia e l'evento in tutte le descrizioni e spiegazioni. Un sistema complesso può essere compreso soltanto in riferimento alla sua storia ed al suo evolversi; 3) La SC tende a ridurre la conoscenza degli insiemi alla conoscenza delle unità elementari (parti semplici) che li compongono. Il PC ritiene impossibile conoscere le parti senza conoscere l'insieme, e viceversa; 4) La SC tende a ridurre la conoscenza dell'organizzazione al principio dell'ordine (leggi, costanti, invariabili). il PC considera il principio dell'ordine solo una parte dell'organizzazione; 5) La SC si basa sul principio della causalità lineare, superiore ed esterna agli oggetti. Il PC si basa sull'interrelazione complessa della causalità reciproca, sull'inter-retroazione, i ritardi, le mescolanze, le deviazioni, i ri-orientamenti, e sul principio dell'endo-eso-causalità dell'auto-organizzazione; 6) La SC considera l'ordine sovrano assoluto, c'è un universale, impeccabile determinismo; gli eventi casuali sono dovuti all'ignoranza. Il PC si basa su un'organizzazione-interazione dialogica tra l'ordine ed il disordine; si considera che gli eventi casuali completino la comprensibilità; 7) La SC, per studiare i suoi oggetti, tende ad isolarli o a separarli dal loro ambiente. Il PC, al contrario, tende a studiare i suoi oggetti come distinti, ma non disgiunti, dal loro ambiente; 8) La SC tende a separare totalmente un oggetto dal soggetto che lo percepisce e lo concepisce; il controllo dell'osservatore/sperimentatore è sufficiente per escludere il soggetto conoscente e garantire l'oggettività. Il PC tende, al contrario, a riconoscere i rapporti fra colui che osserva e pensa e l'oggetto osservato e pensato; 9) La SC tende ad eliminare tutti i problemi collegati al soggetto osservatore nella conoscenza scientifica. Il PC, invece, ritiene possibile elaborare una teoria scientifica del soggetto, e svolge ricerche a tale scopo; 10) La SC tende ad eliminare l'essere e l'esistere attraverso la quantificazione e la formalizzazione. Il PC mira all'introduzione ed al riconoscimento delle categorie dell'essere e dell'esistere; 11) La SC ritiene inconcepibile il concetto dell'autonomia dal tutto. Il PC mira al riconoscimento scientifico del concetto di autonomia; 12) La SC si basa sull'assoluta affidabilità della logica nell'affermare teorie (contraddizione=errore). Il PC si basa sul riconoscimento dei limiti della logica nei sistemi complessi; contraddizioni ed incoerenze sono indici di un settore sconosciuto e profondo, quindi il PC tende ad associare concetti complementari, concorrenti ed antagonisti; 13) La SC si basa sul pensiero mono-logico (idee chiare e distinte in una logica generalmente accettata). Al contrario il PC si basa sul pensiero dialogico, sul pensiero per macro-concetti e sul collegarsi complementare di nozioni che possono anche essere reciprocamente antagoniste. Avremo occasione, successivamente, di analizzare le novità introdotte da Morin, con il suo paradigma della complessità, nella metodologia sociologica. Passiamo ora all'ultima proposta, tra quelle definite complesse, che analizzeremo, che è quella di G. Ritzer (1983), un sociologo nordamericano. Anche lui individua tre paradigmi, ma notevolmente diversi dai tre di Boudon e di Eisenstadt - Curelaru. Questi sono: I) Fatti sociali, II) Definizione sociale, III) Comportamento sociale. Ma vediamoli uno per uno. I) Fatti socialiL'autore che ha più contribuito allo sviluppo di questo paradigma è E. Durkheim. Egli tende a vedere i fatti come cose, oggetti esterni all'individuo che li compie. Questo paradigma tende a mettere al centro della ricerca sociologica le strutture e le istituzioni di larga scala ed i loro effetti sul pensiero e sulle azioni dell'individuo. Dal punto di vista metodologico coloro che si richiamano a questo paradigma tendono ad usare, più di altri, i metodi storico-comparativi, ed il questionariointervista. Le teorie che rientrano nel paradigma sono lo struttural-funzionalismo, la scuola del conflitto e quella sistemica. II) Definizione socialeL'autore che ha dato i principali esempi di ricerca cui fanno riferimento coloro che si richiamano a questo paradigma è M. Weber. In questo la realtà viene vista come costruzione sociale (e non come dato esterno), e l'interesse maggiore è sul modo in cui gli attori definiscono la loro situazione sociale e sugli effetti di queste definizioni sulle azioni e le interazioni che ne risultano. La metodologia distintiva dei sostenitori di questo paradigma è l'osservazione, anche se ricorrono, normalmente, pure al questionario-intervista. Le teorie che possono essere incluse in questo paradigma sono: la teoria dell'azione, l'interazionismo simbolico, la fenomenologia, l'etnometodologia e l'esistenzialismo.
III) Comportamentismo Gli esempi più chiari cui si richiamano i sostenitori di questo paradigma sono quelli dello psicologo Skinner. Per i comportamentisti sociali l'oggetto della sociologia è il comportamento imprevedibile degli individui. Di particolare interesse sono i premi che fanno emergere i comportamenti desiderabili, e le punizioni che impediscono, o riducono, quelli indesiderabili. Dal punto di vista metodologico quello che contraddistingue i sostenitori di questo paradigma è l'uso, molto più frequente che per gli altri, dell'esperimento. Le teorie che possono essere incluse in esso sono la sociologia comportamentista e la teoria dello scambio (o del mercato). Ritzer si pone poi il problema di cosa e come fare per andare verso una migliore integrazione dei paradigmi diversi (ma salvaguardando le loro specificità e differenze). E, sulla suggestione di certe indicazioni di G. Gurvitch, lavora su due continuum della realtà sociale: 1) il continuum macroscopico-microscopico; 2) il continuum della dimensione oggettiva-soggettiva. Il primo continuum lo porta a delineare la seguente figura Quello invece tra dimensione oggettiva-soggettiva, l'altro continuum: Ma i due continuum si sovrappongono l'uno sull'altro, così che ad ogni lato del continuum micro-macro, si possono differenziare componenti oggettive e soggettive. Al livello micro, individuale, ad esempio, ci sono i processi mentali soggettivi di un attore, ed i modelli oggettivi di azione ed interazione in cui egli/ella si impegna. Lo stesso vale per il livello macro. Secondo Ritzer, dato che la società è fatta sia da strutture oggettive (come i governi, le leggi), sia da fenomeni soggettivi (come i valori o le norme di comportamento), per una valida comprensione della realtà non si può trascurare uno di questi livelli, ed è fondamentale comprendere il gioco reciproco tra micro-macro e tra oggetto-soggetto. Questo lo porta ad elaborare il seguente grafico: Secondo Ritzer un paradigma sociologico integrato dovrebbe trattare con tutti e quattro i livelli di base della realtà sociale individuati nella figura, e sulle loro interrelazioni. Ma un'altro problema che Ritzer ritiene importante porsi è quello di come i quattro livelli del grafico si correlano con i tre paradigmi delineati prima. Questo lo porta a presentare un'altro grafico: Mentre i paradigmi esistenti tagliano orizzontalmente i livelli della realtà sociale, un paradigma integrato li taglia verticalmente. Questo chiarisce perchè un paradigma integrato non sostituisce gli altri. Infatti esso tratta con tutti i livelli, ma non li esamina con il grado di intensità degli altri, che possono, e devono, essere utilizzati alternativamente, a seconda del problema che si pone. Se questi infatti non pretendono di spiegare la realtà sociale nella sua complessità possono essere di grande aiuto. L'elemento centrale del nuovo paradigma è nell'interrelazione dei quattro livelli di base della realtà sociale, simboleggiato, nel penultimo grafico, dall'interconnessione delle freccie al centro del disegno. Questo schema, precisa Ritzer, non rappresenta il mondo reale, che è sempre in fluire e non è diviso trai vari livelli, e non va perciò reificato. Ma può essere utile per trattare la complessità del mondo reale, tenendo però presente che è il mondo reale, e non lo schema, che è il soggetto della sociologia. Per fare questo tutti i metodi sono validi (questionari, interviste, esperimenti, osservazione, ecc.), ma ci si deve sempre confrontare con la storia, comparando società diverse per comprendere le diversità, e le similarità, con cui i vari livelli lavorano con o contro gli altri, e viceversa. E si deve rifuggire dall'idea che si possa sviluppare un'unica teoria astratta che possa spiegare la realtà sociale in tutte le società attraverso la storia. Infine Ritzer conclude che un paradigma integrato ha molto da guadagnare dalla logica dialettica. "la dialettica è basata sul mondo reale del pensiero e dell'azione degli individui. Vede la gente produrre strutture sociali più vaste, e queste, a loro volta, opprimere e coercire gli attori. E' quindi una immagine molto chiara - scrive Ritzer - delle interrelazioni tra regni macroscopici e microscopici, ma non dà un primato all'uno o all'altro. Essi sono visti in rapporto reciproco" (1979, p.44). Arrivati alla fine di questo capitolo resta aperto il problema che ci eravamo posti all'inizio. E cioè se sia meglio andare verso un unico paradigma, come propone Morin, o fare una lettura integrata dei vari paradigmi, salvando però la multi-paradigmaticità della sociologia, come propone Ritzer. E, se si accetta la prima proposta, se sia più valido il paradigma dell'analisi interattiva, di Boudon, o quello della complessità di Morin. Ma la confusione concettuale, che abbiamo visto essere presente nella definizione di paradigma, lo rende realmente utilizzabile ai fini di un approfondimento sociologico, oppure no, come sostengono Martingale (1979) e la Cavallaio (1984)? Ed infine, l'ultimo quesito cui dovremo rispondere è quello se sia possibile, dal confronto tra paradigmi diversi qui tentato, trarne delle valide indicazioni metodologiche. Ma questo, secondo me, richiede l'aver analizzato anche il terzo concetto, quello di modello di società, che viene spesso confuso o consideraro sinonimo della teoria e del paradigma. Solo alla fine di questo ulteriore sforzo potremo cercare di dare una risposta valida alle domande su accennate. Il che faremo nei prossimi capitoli. Capitolo 3 I MODELLI NELLA RICERCA SOCIALE L'uso di modelli - di società e di uomo - nell'analisi sociale è quasi generalmente riconosciuto come legittimo, e da molti è considerato anche indispensabile. Scrive, a questo proposito, l'Inkeles (1967), un sociologo contemporaneo nord-americano: "Ogni sociologo si riferisce ad uno o più modelli di società e di uomo, che influenzano necessariamente tutta la sua opera di studioso: la scelta del problema di studio, il suo modo di affrontarlo, la utilizzazione delle osservazioni e la loro sistemazione in un più ampio schema esplicativo. Da questo punto di vista la posizione del sociologo non è diversa da quella di qualsiasi altro scienziato. Ogni scienziato, infatti, ha una concezione generale del settore di realtà in cui si svolgono le sue indagini e un certo quadro mentale del 'modo in cui tale realtà è costituita e funziona'. Tali modelli sono indispensabili per l'opera scientifica" (ibid., p.49). L'Inkeles distingue poi tra modello, nel senso di immagine generale delle linee essenziali di un fenomeno importante, includendovi talune idee fondamentali sulla natura delle unità implicate e sullo schema dei loro rapporti, e teoria: "Parliamo, invece, di teoria con riferimento ad uno strumento euristico di organizzazione della conoscenza, esistente in un momento particolare, su un determinato problema, che si pone in termini più o meno espliciti. Una teoria è dunque qualcosa di più limitato e preciso di un modello. Di una teoria possiamo dimostrare l'erroneità, mentre di un modello possiamo dare soltanto un giudizio riguardo alla sua completezza, utilità o produttività" (Ibid.). E, in un capitolo successivo, lo stesso autore sottolinea poi come tali modelli di società siano strettamente collegati ad una concezione di fondo dell'uomo, che viene però raramente esplicitata, che può andare da una concezione hobbesiana dell'uomo, come spinto eminentemente da esigenze egoistiche, ad una opposta, a base eminentemente cristiana, ma che si ricollega strettamente al pensiero illuministico (Locke, Rousseau, Montesquieu), nella quale sono visti invece prevalere gli atteggiamenti altruistici, di uomo "sociale", che tiene conto, eminentemente, nel suo agire, dei propri rapporti con gli altri. In termini moderni si può parlare della prima come di una concezione eminentemente "pessimistica" dell'uomo, della seconda invece come di una concezione "ottimistica". A livello di analisi sociale l'Inkeles distingue vari modelli: quello evolutivo, quello organicistico, in particolare nei suoi sviluppi contemporanei di analisi struttural-funzionale, quelli di equilibrio e di conflitto, il modello di società derivato dall'applicazione a quest'ultima della scienza fisica, detto anche, dal suo primo sostenitore, il Comte, fisica sociale, ed infine i modelli statistici e matematici. Ma uno studioso italiano, A. Bruschi (1971), ha approfondito il problema dell'uso dei modelli nelle scienze sociali in un libro molto stimolante. Egli individua 16 significati diversi del concetto di modello. Questi sono: 1) interpretazione del linguaggio formalizzato; 2) interpretazione algebrica; 3) schema di riferimento; 4) quasi-teoria; 5) schema concettuale ipotetico; 6) schema categoriale; 7) interpretazione della teoria; 8) esplicazione analogica; 9) tipo ideale; 10) trattamento matematico; 11) schematizzazione visuale; 12) rappresentazione proporzionale; 13) riproduzione iconica; 14) rappresentazione di un fenomeno complesso; 15) interpretazione alternativa della teoria; 16) struttura logica. Bruschi poi, attraverso una riduzione progressiva di significati, cerca di risolvere i problemi portati da questa pluralità di concetti. Una prima riduzione lo porta ad individuare cinque categorie (tra parentesi i significati precedenti inglobati): 1) configurazione significante (11,14,9); 2) organizzatore sintattico (16,10); 3) riproduzione euristica (13,12); 4) interpretazione isomorfica (15,1,2); 5) strumentazione teorica (4,3,5). I cinque gruppi di significato individuati da Bruschi ruotano intorno ad un concetto principale: il primo intorno al concetto di semplificazione; il secondo intorno al concetto di organizzazione sintattica; il terzo su alcune proprietà riproduttive; il quarto sull'isomorfismo; ed il quinto intorno al concetto di strumentazione teorica. Ma una seconda riduzione lo porta a due soli concetti (anche qui, tra parentesi, i numeri della classificazione precedente inclusi nel significato): 1) calcolo formale (2,3,4); 2) approssimazione teorica (1,5). Scrive Bruschi, parlando dell'importanza dei modelli nelle scienze sociali: "la definizione di modello che abbiamo impiegato mette l'accento sulla sintassi, la descrittività, la frequente applicazione a fenomeni complessi. Ciò spiega l'importanza della teoria dei modelli per le scienze sociali, in quanto queste ultime possiedono un universo prevalentemente sistemico, necessitano (anche per tale ragione) di forti capacità sintattico-organizzative, e sono descrittive, dato il loro basso grado di sviluppo e il particolare orientamento teoretico...ne deriva che la TM (teoria dei modelli), se non è la metodologia delle scienze, ne è tuttavia una delle parti più importanti in quanto tocca tre punti strategici della teoria sociale: il concetto di teoria; i linguaggi formali; e lo studio degli insiemi complessi" (ibid., p.91). Egli inoltre analizza i modelli-struttura, i modelli-sistema, i modelli cooperativi ed i modelli competitivi. Sottolinea che i modelli devono servire a capire l'universo sociale e ad elaborare una teoria sociale per lo studio dei sistemi sociali che "hanno caratteristiche di disordine, di asenquenzialità, di pluralità di entrate e di uscite e di collegamenti" (ibid., p.152). Per lo studio di questa realtà Bruschi propone una cibernetica sociale, che lui definisce "socionica", che, attraverso le proprie procedure, permetterebbe di ridurre i due concetti di modello a cui era arrivato (calcolo formale, approssimazione teorica) ad uno solo. La socionica lavorerebbe attraverso cinque diverse fasi, distinte in tre blocchi: uno metascientifico, ideativo, la creazione; due teorici, ipotizzazione e assiomatizzazione; e due descrittivi, osservazione e modellizzazione; in una sequenza però che vede il seguente andamento: 1) crea, 2) ipotizza, 3) osserva, 4) modellizza, 5) assiomatizza, per poi ricominciare dalla prima. Secondo Bruschi la socionica permetterebbe non solo di descrivere ma anche di teorizzare, ed eviterebbe i pericoli dell'iper-empirismo, da una parte, e dell'iper-formalismo, dall'altra. Come possiamo vedere il concetto di modello usato da Bruschi ingloba in se sia la teoria che la metodologia. Per questo, malgrado il suo indubbio interesse, non ci dà alcun aiuto nel nostro tentativo di distinguere tra i tre concetti di teoria, paradigma e modello. Questo tema lo affronterò comunque nel capitolo successivo. Volevo, in questo, riprendere la riflessione sui modelli, ma nell'accezione più ristretta di questo concetto datane da Inkeles, e ripresa anche da me, come modelli di società o di uomo, che corrisponde solo al primo dei blocchi procedurali individuati da Bruschi, quello che lui definisce meta-scientifico. L'analisi della letteratura contemporanea permette di rilevare come l'interesse prevalente vada sempre più verso due dei modelli individuati da Inkeles, quello dell'equilibrio e del conflitto, e verso un terzo, il marxismo, che nelle prime interpretazioni era legato al modello conflittuale e che assume, invece, sempre più, caratteristiche autonome e distinte. Gli altri modelli individuati da Inkeles sono diventati, o semplici metodi di ricerca, od al più delle fonti di ipotesi a carattere generale senza pretese di spiegazione globale per le quali si possono ricollegare ad uno dei modelli prevalenti su citati. Così il modello evolutivo sta diventando sempre più il modo normale di spiegazione del mutamento, e del passaggio da un tipo di società ad un'altra, da parte del modello che si basa sull'equilibrio e che non riesce perciò a spiegare, se non come rottura o malattia, i mutamenti rivoluzionari. Mentre il modello organicistico struttural-funzionale non è che la teoria sociologica connessa al modello dell'equilibrio. Ma analizziamo meglio i due modelli di società che abbiamo visto essere prevalenti nella sociologia contemporanea per vedere se siano utilizzabili e proficui per l'analisi del tipo di società in cui viviamo. Il primo, di derivazione organicistica, è il modello dell'equilibrio che, nella sua versione più rozza e semplificata, può essere definito dell'equilibrio omeostatico. L'omeostasi è un processo di auto-regolazione sistemica, implicante la conservazione, da parte di un sistema, di uno stato stabile, ed il ritorno a tale stato quando se ne sia allontanato a causa di un disturbo ambientale. Tale concetto ha acquisito importanza fondamentale nella cibernetica e nella teoria dei sistemi generali, ed infine, grazie al contributo di Wiener (1968), anche nella sociologia. Ma uno dei contributi principali alla delineazione di tale modello è sicuramente quello del sociologo italiano W. Pareto. Egli, che non usò mai il termine omeostasi, introdotto in seguito, partendo dall'analisi dei corpi elastici, aveva teorizzato l'importanza, per la comprensione della società, del concetto di equilibrio sociale. Egli diceva che un sistema sociale è in equilibrio se "quando esso è artificialmente sottoposto a una modificazione diversa da quella alla quale è sottoposto normalmente, ha subito luogo una reazione tendente a riportarlo al suo stato normale". L'impostazione di Pareto ha poi influenzato sensibilemente il pensiero del sociologo nord-americano Talcott Parsons (1965). Egli, cercando di stabilire un sistema teorico di rapporti determinati tra le variabili considerate da lui costitutive di un sistema, ha posto tale concetto al centro del suo lavoro che si basa sul postulato che tutti i sistemi sociali tendono ad approssimarsi a uno stato di equilibrio. Tale modello è stato criticato (D.Loockwood, 1956)) in quanto considerato eminentemente "conservatore" perchè pone al centro del proprio interesse il mantenimento dello status quo. Altri studiosi hanno sottolineato come tale modello possa servire solo per comprendere società primitive, semplici ed eminentemente statiche, ma come fosse del tutto inadeguato ad una seria analisi della maggior parte delle società contemporanee, complesse ed in stato di continuo mutamento. Tanto che lo stesso Parsons in varie occasioni se ne è differenziato collegandosi invece ad una versione meno rozza, che analizzeremo successivamente, che può essere definita dell' "equilibrio dinamico" (o delle "tensioni controllabili"). Ma prima di questa seconda versione conviene analizzare invece il modello che, nel pensiero sociologico contemporaneo, si presenta come il diretto antagonista di quello dell'equilibrio omeostatico, e cioè il modello conflittuale (R.Dahrendorf). Vediamo, seguendo lo stesso Dahrendorf (1963) una presentazione schematica degli assunti di base dei due modelli, detti anche, per un secondo aspetto a loro inerente, del consenso (o equilibrio), e della coercizione ( o del conflitto). Come si vede dallo schema nel primo modello sembra essere implicita - vedremo in seguito che non è del tutto vero - una concezione dell'uomo che abbiamo definito ottimistica, e l'ordine è visto come risultante dell'accordo e del consenso tra persone e gruppi diversi. Al contrario, come abbiamo già sottolineato, il disordine o il conflitto escono dalla normalità per divenire aspetti patologici della società. Il modello conflittuale, invece, che si ricollega ad una concezione pessimistica dell'uomo, vede l'ordine come risultante della coercizione, ed il conflitto tra gruppi di interessi in contrasto come la condizione normale di un sistema sociale. E' abbastanza riconosciuto che il secondo modello permette l'analisi dei mutamenti in modo molto più valido del primo. Mi sembra però che ci siano delle limitazioni in questo. Esso infatti, vedendo la società formata da due gruppi contrapposti, la classe dominante e la classe subordinata, fa coincidere il mutamento sociale soprattutto, e direi quasi esclusivamente, nel cambiamento di posizione dei gruppi rispetto all'autorità fino a far coincidere il mutamento con questa alternanza. Così, per avere un processo di cambiamento che Dahrendorf definisce tout court "rivoluzionario", è sufficiente questa alternanza. Da questo ne deriva che un sistema di democrazia che prevede l'alternanza dei partiti - e quindi (in quanto i partiti mantengano una caratterizzazione del genere) anche di classe - al potere legittimato, è per antonomasia un sistema rivoluzionario, anche se il cambiamento di classe al potere non porta che cambiamenti piuttosto modesti alla struttura sociale del paese. Questo significa sopravvalutare gli aspetti "formali" del potere, non riuscendo a cogliere, come è stato sottolineato da vari autori, l'importanza dei rapporti di potere reali che possono non coincidere, come spesso avviene, con quelli formali (o di autorità). E dato che in tale modello risulta essere presente un andamento ciclico, con un rovesciamento di ruoli tra classe dominante che diviene subordinata, e quest'ultima che diviene dominante, e così via, non ci troviamo in realtà, anche qui, di fronte ad un modello che privilegia l'equilibrio, sia pur "ciclico", di cui lo stesso Pareto aveva sottolineato l'estrema importanza, e di cui aveva dato un primo esempio di applicazione attraverso la teoria della circolazione delle elites?. Una seconda considerazione riguarda l'appartenenza del marxismo a tale modello. Come cercherò di dimostrare in seguito, proprio per quel carattere ciclico o circolare che ho sottolineato, e per la centralità data ai rapporti di potere formali rispetto a quelli sostanziali di cui ho parlato in precedenza, il marxismo non può essere considerato quale teoria conflittuale e richiede, per essere compreso, un modello sensibilmente diverso da questo. Considerando, per il momento, solo questi due modelli, quello dell'equilibrio (nella sua forma omeostatica) e quello del conflitto (nell'accezione dahrendorfiana), si può notare come ambedue siano estremamente limitativi, tanto che vari autori, compresi Parsons e lo stesso Dahrendorf, sottolineano l'esigenza di ambedue i modelli di società per l'analisi di società diverse, o per fenomeni diversi nella stessa società. Ma a pensare bene questa proposta di due modelli coesistenti ha poco spessore. Non ne può venire fuori che una immagine della società distorta e contraddittoria, sostanzialmente schizofrenica. Da una prima analisi dell'influenza di questi due modelli si può notare che nello studio dei rapporti etici, di quelli familiari, e dei processi di socializzazione, il modello che, nella storia del pensiero filosofico, ha avuto maggiore rilevanza, è proprio quello consensuale, grazie all'influenza del cristianesimo, di Rousseau e di Dewey. Al contrario nell'analisi dei rapporti economici e politici il modello prevalente è stato sicuramente quello conflittuale, grazie all'influenza di Hobbes, e del Machiavelli. Ne deriva una immagine schizofrenica della società: ci troviamo nell'incapacità di avere una visione complessiva, essendo costretti a privilegiare il primo oppure il secondo tipo di rapporti. Ma i rapporti sociali comprendono sia il primo che il secondo tipo di rapporti, perciò la proposta di considerare validi tutti e due i modelli è assolutamente da scartare ed è indispensabile arrivare ad un unico modello valido. Ma l'esigenza di tale modello deriva anche dal fatto che nella realtà il conflitto ed il consenso non si presentano mai come fenomeni staccati, ma sono strettamente interrelati. Se si pensa all'azione del sindacato, ad esempio, o alla stessa lotta di classe, che viene considerata di solito come un prototipo di conflitto, si può vedere come nella realtà l'azione di contestazione e di lotta contro il gruppo antagonista, sia strettamente collegata alla ricerca di nuove alleanze e di cooperazione tra categorie sindacali o sociali diverse. E ciò è tanto più vero nella società contemporanea, complessa, dove i fenomeni del conflitto e del consenso sono sempre più intrecciati reciprocamente. D'altra parte abbiamo visto come i due modelli abbiano un carattere che si può definire "prescientifico", in quanto si ricollegano ad una concezione dell'uomo visto come buono o come cattivo senza tener conto, nell'uno come nell'altro tipo di comportamento, dell'importanza e del ruolo dei fattori sociali e strutturali. Ma una delle aporie più grosse deriva dalla collocazione del marxismo. La maggior parte degli studiosi dà per scontato che il marxismo faccia parte del modello del conflitto. Ma in realtà le differenze tra il modello conflittuale (nella specificazione dahrendorfiana) ed il marxismo sono notevoli: In complesso si può dire che il marxismo utilizza, per l'analisi della società capitalistica, un modello conflittuale, per la proposta di una società socialista, invece, un modello consensuale. Dahrendorf risolve il dilemma eliminando la parte propositiva del pensiero marxiano, considerandola filosofica e non scientifica. Ma, secondo me, questa operazione di Dahrendorf è illegittima, il marxismo va visto nella sua globalità, e l'integrazione, l'analisi e la proposta sono l'una il riflesso dell'altra, strettamente correlate reciprocamente, come lo sono, nel pensiero marxiano, la teoria e la prassi. marxismo, alla luce di queste considerazionni, non può essere classificato tout court come modello conflittuale e necessita, secondo me, per una sua corretta interpretazione, di una teoria integrata. Si può dire, senza ombra di dubbio, che tutti gli sforzi della sociologia contemporanea vanno in questa direzione. Un primo tentativo di integrazione è nel secondo modello dell'equilibrio, di cui abbiamo già parlato, e che si può correttamente definire dell'equilibrio dinamico. E cioè, nelle parole di un sostenitore di tale modello: "Una visione globale della società come sistema capace di integrare ed assimilare in un equilibrato meccanismo funzionale ogni forza sociale ed ogni "spinta" storica suscettibile di fornire elementi di dinamica, che vengono trasformati in un moto, pressocchè continuo, di progressivo sviluppo del sistema". Ma vediamo meglio gli assunti sui quali si basa questa modello in una proposta di due dei suoi sostenitori, il Feldmann e Moore (1962), che lo definiscono anche come modello delle tensioni controllabili: - Ogni società contiene in sè attriti e tensioni che possono generare conflitti. Ogni variazione indotta dai programmatori o autogena (variabile interferente) risolve qualche tensione e ne crea delle altre. Non esiste equilibrio statico. - Le società non sono uguali tra di loro. Sono pertanto difficili generalizzazioni ad alto livello per tutte le società in via di industrializzazione. Sono consentibili soltanto alcune generalizzazioni a livello empirico. - Nonostante le loro disuguaglianze, c'è un minimo di congruenza strutturale nelle società industriali; i punti nei quali si assomigliano di più sono l'importanza data ai mutamenti intenzionali programmati, e le conseguenze di una loro continua differenziazione interna in forza del lavoro sociale. Questo modello rivaluta ed accetta il conflitto, come non faceva quello dell'equilibrio omeostatico, ma lo subordina alle esigenze di mantenimento e di integrazione del sistema. Per questo accetta solo un tipo di conflitto, quello istituzionalizzato, che serve come segnale di allarme e come valvola di sfogo del sistema, e "parcellizzato", che si divida in tanti conflitti contrapposti l'uno con l'altro che si neutralizzino a vicenda, e servano, in fin dei conti, a creare una integrazione, sia pur dinamica, del sistema (Coser,1967). Come si vede anche dalla breve descrizione qui fatta l'integrazione tra modello consensuale e quello conflittuale è fatta privilegiando il primo e subordinando il secondo. Siamo perciò sempre all'interno del modello consensuale, anche se l'accettazione di un certo tipo di conflittualità permette di correggerne certi difetti di staticità. Ma anche se questo è sicuramente un passo avanti rispetto al primo modello, non può essere considerato un reale superamento dei due modelli alternativi. Un secondo tentativo di superamento lo si trova nella teoria del continuum. Ecco cosa scrive uno studioso italiano che propone tale teoria, il Pellicani (1974): "Il modello del consenso e il modello della coercizione sono stati presentati come inconciliabili fra di loro, cioè come soluzioni alternative al problema dell'ordine posto in termini ormai divenuti classici da Hobbes. Ciò ha contribuito non poco ad attivare una polemica nella quale sia i sostenitori del primo che i sostenitori del secondo non si sono quasi mai resi conto che le proposizioni fondamentali di un modello non escludono necessariamente quelle dell'altro. Anzi, al contrario, si può dire che tutti i sistemi concreti partecipano dell'uno e dell'altro, nel senso che in essi troviamo sempre e nello stesso tempo, cooperazione e conflitto, solidarietà e sfruttamento, equilibrio e tensione, consenso e costrizione. In breve i sistemi di appartenenza vanno collocati in un continuum nel quale il modello conflittuale e il modello integrativo costituiscono i poli. Graficamente ciò può essere espresso così: A mano a mano che una società si avvicina al polo del consenso si riduce il ruolo della coercizione ed è quindi legittimo pensare che in essa predominano la cooperazione e la solidarietà. Analogamente, se un sistema sociale concreto si avvicina al polo della coercizione, è legittimo dedurre che in esso i meccanismi di integrazione e di solidarietà sociale sono difettosi e che gli elementi coesivi d'indole morale e culturale sono assai deboli, per cui l'ordine è mantenuto soprattutto grazie all'uso della costrizione fisica. Questo vuol dire che tutti i sistemi di appartenenza si fondano su una mescolanza di coercizione e di consenso, di antagonismo e di sinagogismo" (ibid., pp.33-34). Per Pellicani nessuna società corrisponde, dunque, a uno dei due modelli o sistemi "puri". Ma la teoria del continuum non riesce a superare la duplicità dei modelli. Scrive, infatti, Pellicani: "E' chiaro che quando prevarranno i conflitti e le tensioni sarà più utile far ricorso al modello B, mentre quando prevarranno la cooperazione ed il consenso converrà utilizzare il modello A. E ciò perchè, giova ripeterlo, i sistemi sociali concreti sono realtà estremamente ambigue, contraddittorie e bifronti. Simili a Giano, hanno sempre due volti: quello della forza e quello del consenso, poichè non sono mai sufficientemente integrati da potersi basare esclusivamente sulla cooperazione spontanea, nè mai completamente privi di elementi coesivi d'indole morale da essere regolati dalla pura forza. Solo con una operazione arbitraria è possibile far sparire uno dei due volti della società, cioè presentarla come il teatro di una guerra incessante fra dominatori e dominati o come il luogo della perfetta concordia ed armonia. Nessuna società concreta è stata, è o sarà identica ad uno dei due modelli. Poichè la cooperazione e il conflitto sono due dimensioni universali della vita associata, per quanto non sono universali le forme che essi assumono. Sicchè si può affermare che le specificità di una formazione sociale consistono nei modi peculiari con cui il sinagogismo e l'antagonismo si manifestano ed articolano" (ibid.). Questo è sicuramente un altro passo in avanti verso l'integrazione delle due teorie, ma non risponde del tutto a questa esigenza perchè, pur mostrando l'intreccio e la coesistenza del conflitto e del consenso non indica quale delle due teorie dovrò utilizzare, e come conciliarle reciprocamente. In particolare non mi serve in situazioni in cui il problema non è quello di studiare una società di un tipo rispetto ad un altra, ma un fenomeno rispetto ad un altro. Se, ad esempio. voglio studiare la "nonviolenza", o la cosiddetta "malattia mentale", visto che i due modelli hanno visioni opposte di essi quali dei due userò? Le istruzioni di Pellicani non me lo dicono, o mi dicono che li posso utilizzare ambedue e confrontare le due visioni tra di loro. In sostanza la proposta di Pellicani accetta l'esistenza dei due modelli dando solo delle indicazioni più precise, ma non complete, su quando utilizzare l'uno invece dell'altro, piuttosto che dar vita ad una teoria integrata. Un terzo tentativo è quello di Alberoni (1965), un noto sociologo italiano con formazione psicologica che ha messo a punto un approccio che potremmo definire a fasi alterne. La sua teoria, che può essere chiamata "ciclica", costituisce l'applicazione alla società della teoria di Klein sui rapporti madre-figlio. Secondo questa teoria ci sono tre fasi principali nel rapporto madre-figlio: - La fase schizoparanoide: il bambino vede la madre in due modi opposti: buona (da amare) e cattiva (da odiare); - La fase depressiva: le due immagini vengono riorganizzate in una sola. L'aggressività viene rivolta a se stesso (la mia morte = la tua vita); - La fase della riparazione: la risposta amorevole della madre suscita nel bambino un atteggiamento positivo (la mia vita = la tua vita), attraverso la scoperta della sua identità separata. Secondo Alberoni c'è una identità tra la madre e la società. La fase della riparazione coincide, secondo lui, con l'origine dei fenomeni di gruppo come nuovo agente nella società (movimento). Il "movimento" supera il conflitto, raggiungendo un nuovo sistema integrato (istituzione). Poi il ciclo ricomincia. Come si può vedere da questa esposizione sintetica della teoria di Alberoni, non c'è una vera integrazione di conflitto e consenso. Nella prima fase sono presenti sia il conflitto che il consenso, ma in conflitto tra di loro. La seconda fase è dominata dal conflitto, ma una forma particolare di conflitto, rivolto all'interno. La terza fase è dominata da un consenso che porta la persona ed il suo gruppo ad essere attivi nel migliorare la società (anche se quest'azione può, come accade, prendere l'aspetto della lotta), attraverso l'organizzazione di un movimento. Ma appena il movimento raggiunge il suo scopo, la trasformazione della società, viene creata una nuova istituzione che porterà necessariamente a nuovi conflitti e ad una nuova fase schizoparanoide e così via (vedi anche dello stesso autore, 1980). Benché io trovi la teoria di Alberoni estremamente stimolante, non trovo in essa la vera soluzione al problema che ho posto. Perché no? Prima di tutto perché il consenso ed il conflitto sono visti in alternativa, ognuno come predominante una data fase, anziché esser contemporanei e coesistenti. In secondo luogo questo approccio, per questa stessa ragione, non è aperto a diverse soluzioni alternative nello stesso momento. Così il movimento è visto come positivo e transitorio mentre l'istituzione è vista come necessariamente oppressiva, e per questo si ha l'inizio di una nuova fase. Ma sia i movimenti che le istituzioni possono essere molto diversi, inoltre un movimento può essere più oppressivo di una istituzione e potrebbe esserci una ricerca di forme di organizzazione (come il processo decisionale del "consenso" evocato e sperimentato dai movimenti nonviolenti), che non distrugga l'individualità dei partecipanti. Quindi non considero neppure questa la soluzione definitiva del problema. Un ultimo tentativo, che ho definito in un altro mio lavoro (1973) come modello strutturale, ma che è probabilmente più valido definire dell'equilibrio instabile, è, secondo me, quello che risolve effettivamente il problema (L'Abate, 1978). Secondo tale modello l'accento va posto sulle strutture di base e non sul sistema globale, e viene sottolineata l'autonomia funzionale delle parti rispetto al tutto. Secondo questo perciò l'integrazione e l'interdipendenza sono viste come problematiche e soggette a modifiche significative; l'organizzazione è vista: "Come un insieme di conflitti, particolarmente da tensioni tra forze centripete e forze centrifughe, che allo stesso tempo impone e limita i controlli sulle parti, che mantiene l'equilibrio tra la loro dipendenza e interdipendenza, che separa e nello stesso tempo unisce le parti" (Gouldner 1967, p.160). Secondo tale impostazione non solo esiste una diversa accentuazione dei due elementi, coercizione e consenso, nelle diverse società, ma nella stessa società esiste sempre una continua dialettica tra di essi per cui c'è una continua tensione tra forze consensuali e forze coercitive con la possibilità, perciò, di ognuna delle due di acquisire maggiore spazio e di ridurre perciò quello dell'avversario. La proposta di un modello unico che tenda a superare la dicotomia ed il conflitto tra i due modelli su individuati (consenso e conflitto) non vuole affatto tendere ad eliminare la valutazione, quanto a proporre un modello, basato anche esso su assunti valutativi - come sono tutti i modelli di società - che permetta però di comprendere in modo più valido le società contemporanee, complesse, con il loro intrecciarsi di consenso e di conflitto, di lotte e di accordi. Dobbiamo guardare la società e la natura umana da una prospettiva che ci liberi da ogni genere di determinismo - sia ottimistico che pessimistico - e che lasci la possibilità, in ogni situazione, di soluzioni alternative. Lo stesso sistema sociale deve essere visto aperto al suo mantenimento oppure anche al suo cambiamento, non solo a un falso cambiamento di tipo lampedusiano, ma anche un reale cambiamento strutturale. Questo significa, secondo me, che la migliore prospettiva per guardare alle società, ai sistemi sociali ed anche alle relazioni fra gruppi, è quello di un equilibrio instabile. Questo non significa che non ci sia mai qualche stabilità, ma solo che c'è sempre la possibilità, se l'equilibrio delle forze cambia, di un reale cambiamento della situazione esistente. In questo modello anche leggeri cambiamenti di equilibrio, (ad es. un cambiamento del modo di vedere il proprio ruolo professionale da parte di un gruppo ristretto di professionisti - come è avvenuto nel nostro paese in campo psichiatrico - o la disobbedienza civile di poche persone - si pensi al ruolo della disobbedienza di una negra, Nora Parks per lo sviluppo delle lotte per i diritti civili dei negri nord-americani ) che possono esser visti in altri modelli come secondari e non importanti, possono invece, a lungo andare, avere effetti importanti per il cambiamento finale dell'equilibrio generale, attraverso effetti cumulativi. In questo modello il conflitto e il consenso sono sempre presenti e possono avere un diverso impatto sulla società a causa del reciproco potere e del gioco che ognuno di loro è capace di portare avanti. Nel modo schematico con cui Dahrendorf ha confrontato il suo modello con quello consensuale, questi tre modelli (del consenso, del conflitto, dell'equilibrio instabile) possono essere presentati così: Capitolo 4 TEORIE, PARADIGMI E MODELLI: UN TENTATIVO DI CHIARIMENTO Siamo a questo punto in grado di rispondere alle domande che ci eravamo posti prima, e cioè, se il concetto di paradigma possa essere utile, ed addirittura indispensabile per la ricerca sociale, o se sia invece fuorviante, o confondente. E se si debba andare verso un unico paradigma, oppure si debba accettare l'eclettismo e la multi-paradigmaticità della sociologia. Abbiamo visto come i tre concetti siano spesso usati come equivalenti, o almeno molto simili. Si può perciò trovare testi diversi in cui si parla di teoria conflittuale, altri di modello conflittuale, altri ancora di paradigma conflittuale. E così via. Ma questa confusione terminologica impedisce di rispondere correttamente alle domande poste in precedenza. Un contributo al chiarimento concettuale ci viene da una studiosa inglese, la Masterman (1984), in un suo saggio su "La natura di un paradigma". Essa individua 21 diversi significati che Kuhn dà al concetto di paradigma. 1) una conquista scientifica universalmente riconosciuta; 2) un mito; 3) una "filosofia" o costellazione di domande; 4) un manuale, o un'opera classica; 5) un'intera tradizione, e, in un certo senso, un modello; 6) un risultato scientifico; 7) un'analogia; 8) una speculazione metafisica che ha successo; 9) un espediente accettato nel diritto comune; 10) una fonte di strumenti; 11) un'illustrazione standard; 12) un espediente o un tipo di strumento; 13) un mazzo di carte anomalo;14) un congegno che fabbrica strumenti; 15) una figura gestaltica che può essere vista in due modi; 16) un insieme di istituzioni politiche; 17) uno standard applicato ad una quasi metafisica; 18) un principio organizzatore che può governare la stessa percezione; 19) una concezione epistemologica generale; 20) un nuovo modo di vedere, 21) qualcosa che delimita un ampio settore della realtà. Ma analizzando le simiglianze reciproche tra queste diverse definizioni essa individua tre gruppi principali, o ambiti, di significato: 1) ambito metafisico (metateorico): insieme di concezioni, un mito, una speculazione metafisica che ha successo, uno standard, un nuovo modo di vedere, un principio organizzatore che governa la percezione stessa, una mappa, qualcosa che determina una vasta area di realtà; 2) un ambito sociologico: un risultato scientifico universalmente riconosciuto, un risultato scientifico concreto, un insieme di istituzioni politiche, un verdetto accettato nel diritto comune; 3) un ambito costruttivo (o artefatto): un vero manuale o opera classica, qualcosa che fornisce strumenti, un effettivo insieme di strumenti, un'analogia, come figura gestaltica o un anomalo mazzo di carte. Nell'illustrare più a fondo queste tre diverse concezioni di paradigma la Masterman sottolinea come, per Kuhn, i paradigmi sociologici precedano la teoria e siano diversi da questa. Per questa ragione Kuhn ha avuto bisogno di un termine diverso. Ad esempio il metaparadigma - il primo dei tre ambiti di significato su delineati - è diverso dalla teoria in quanto molto più ampio ed ideologicamente antecedente ad essa, è cioè un'intera "weltanschaung" (visione del mondo). Invece il paradigma costruttivo - il terzo - è meno ampio della teoria, poichè esso può essere tanto poco teorico come un pezzo di apparecchiatura scientifica. Secondo la Masterman i critici hanno preso in analisi, e messo sotto il fuoco della loro critica, solo il primo degli ambiti di significato su delineati, mentre essa ritiene che "quello fondamentale è il senso costruttivo di paradigma e non il senso metafisico o metaparadigma. Infatti soltanto con qualcosa di artificiale si possono risolvere rompicapo" (p.143). Il chiarimento della Masterman mi sembra determinante. Penso che sarebbe più saggio usare termini diversi per ognuno di questi tre concetti. La mia proposta è di usare il concetto "modello di società" - o visione del mondo tout court - per la prima sfera (la metateoretica), "teoria sociologica" o, meglio ancora, soltanto "teoria" per la seconda, e riservare il termine "paradigma" solo per indicare il terzo concetto di "metodi di analisi" . Detto questo, il problema è molto più facile da risolvere. Penso che dobbiamo superare il conflitto tra diversi approcci al primo livello, quello di "modelli di società" o visione del mondo. Non possiamo continuare a considerare l'essere umano buono o cattivo, e la società consensuale o conflittuale. Secondo me è ora di superare queste ambiguità. Dobbiamo avere un modello che lasci possibilità di libertà d'azione, consideri le persone responsabili delle loro azioni, e veda il conflitto ed il consenso come fondamentali per comprendere sia la persistenza che il cambiamento. E dobbiamo andare avanti a studiare meglio (non teorizzare) come funzionino e mutino le società. Abbiamo abbastanza materiale per farlo e per smettere di parlarne in astratto. In questo caso eclettismo e pluralismo non servono, abbiamo bisogno di un modello di società unificato e provvisorio finché non ne venga sviluppato un altro migliore. La situazione è totalmente rovesciata nelle altre due sfere. In queste il pluralismo è non solo possibile ma necessario. Nella seconda sfera, "teorie sociologiche" o, meglio, soltanto "teorie" - per restare aperti ai contributi da parte delle altre scienze sociali - abbiamo bisogno di sviluppare teorie ben fondate. Al terzo livello, quello dei paradigmi, o se preferiamo dire, come faccio io, il livello della metodologia, anche qui dobbiamo seguire Feyerabend ed essere pluralisti. Ma ciò non significa accettare tutto, specialmente ciò che è nuovo od originale, come capita talvolta. Qui dobbiamo lavorar sodo per chiarire meglio i diversi metodi di analisi sociologica e codificare meglio la loro metodologia. Penso che questo sia uno dei compiti più stimolanti che abbiamo. Ma prima di cercare di individuare alcuni insegnamenti metodologici che possiamo trarre dall'analisi fatta finora delle teoria, dei paradigmi e dei modelli, mi sembra importante confrontare la proposta fatta nel capitolo precedente, di modello dell'equilibrio instabile, con altre che hanno utilizzato diversi schemi di riferimento, quali, ad esempio, il lavoro di T. Bernard (1983) sul dibattito sul consenso ed il conflitto. Il suo lavoro è rilevante sia in rapporto alle teorie sociali, sia in rapporto ad alcune delle proposte che abbiamo visto parlando di paradigmi (Ceresa, Mela, Pellegrini; Morin; Boudon; Eisenstadt, Curelaru). Nel suo libro Bernard analizza le idee di quattordici pensatori sociali di diversi periodi della storia, dalla Grecia antica al periodo contemporaneo. Gli autori, scelti per il loro contributo a questo dibattito e analizzati a coppia (in ogni coppia un teorico consensuale e uno conflittuale), sono Aristotele e Platone, Tommaso D' Aquino e Agostino, Hobbes e Machiavelli, Locke e Rousseau, Comte e Marx, Durkheim e Simmel, Parsons e Dahrendorf. L'analisi è portata avanti confrontando il contenuto del pensiero di ogni autore, gli assunti o le asserzioni che ogni teoria fa nei riguardi dei concetti di consenso e di conflitto, e le sue forme (il modo in cui questi assunti o asserzioni sono collegati in un'argomentazione coerente). I livelli presi in considerazione sono la natura umana, la società contemporanea e le società future. Ma la classificazione finale è basata principalmente sull'immagine che questi pensatori hanno delle società del loro tempo. Dopo la sua analisi Bernard conclude che esistono non due ma almeno quattro tipi principali di teorie sociali. Comte e Agostino non hanno potuto essere classificati in queste quattro scuole per la loro visione ambivalente della natura umana. Secondo Bernard i teorici sociologici del consenso e quelli radicali hanno un problema comune che non si trova nelle altre due prospettive: essi descrivono la natura umana e la società in termini opposti. I teorici della sociologia del consenso devono spiegare perché le società sono, o come possano essere, consensuali, quando la natura umana è conflittuale (il problema Hobbesiano dell'ordine). I teorici radicali, al contrario, devono spiegare perché le società sono conflittuali quando la natura umana è consensuale, e come le società possano diventare consensuali (il problema radicale). La soluzione del problema, in ognuna delle due scuole, avviene attraverso la descrizione di uno stato ipotetico di società, diverso da quello contemporaneo, nel quale le contraddizioni tra la natura umana e la società è in qualche modo risolto. Il problema per i teorici della sociologia del consenso risiede nella natura conflittuale dell'uomo. Così la "soluzione" al problema si trova rinforzando i legami sociali (che fanno parte della società consensuale) per controllare tale natura ed eliminare le possibilità di cambiamenti rivoluzionari. Per i radicali il problema deriva dalla natura conflittuale della società, particolarmente dalle sue relazioni socio-economiche. Quindi la soluzione al problema si trova nel cambiamento di tali relazioni. Ma tutt'e due le scuole vedono la società ipotetica come consensuale. I conflitti sono stati ridotti ad un livello minimo e le rivoluzioni sono teoricamente impossibili a causa di questo basso livello di conflitto. Per questa ragione Bernard considera ambedue questi approcci come "utopistici". In ambedue gli approcci le società contemporanee sono interpretate attraverso il loro confronto con la società ipotetica utopistica. Al contrario, sia le teorie conservatrici-consensuali che quelle della sociologia del conflitto non descrivono uno stato ipotetico di società diverso dalla realtà (perciò non sono utopistiche). Ma le teorie conservatrici forniscono dei criteri per la valutazione della legittimità del conflitto e della desiderabilità dei cambiamenti sociali nella società contemporanea non sulla base dell'immagine utopistica di una società ipotetica, ma su quella delle migliori società tra quelle reali. In quest'approccio le società consensuali sono rappresentate come divise dicotomicamente tra coloro che partecipano al consenso e quelli che non vi partecipano. I primi, i gruppi dominanti, sono descritti come capaci di raggiungere un pieno e libero accordo su ciò che è legittimo e desiderabile nella propria società. Coloro che non partecipano sono considerati non aver diritto ad essere d'accordo o in disaccordo col consenso, o perché non partecipano pienamente alla natura consensuale dell'uomo (cioè perché sono "irrazionali" e/o egoisti), o perché essi non sono membri a pieno titolo della società consensuale. L'entrata in conflitto coi gruppi dominanti può esser considerato come illegittimo in se stesso oppure può essere preso come evidenza diretta del fatto che uno appartenga ai gruppi irrazionali o egoisti che non hanno alcun diritto ad essere in accordo o in disaccordo. L'unico cambiamento sociale legittimato è quello approvato dai gruppi dominanti. In contrasto con le teorie precedenti, le teorie sociologiche del conflitto non affermano che alcune delle parti in conflitto abbiano posizioni legittime e altre no. Queste teorie possono sostenere che tutte le parti in conflitto si trovino in posizioni parimenti legittimate o parimenti illegittimate, o possono asserire che il giudizio di legittimità è al di fuori dello scopo della teoria. In queste descrizioni le società contemporanee agli autori possono essere molto simili alla miglior società quale viene presentata nella teoria; perciò se ne può dedurre una valutazione positiva di quelle società. Tuttavia, anche le "migliori" società sono descritte in termini conflittuali, perciò se ne può dedurre anche una valutazione negativa. Quindi, secondo Bernard, le teorie sociologiche del conflitto sono associate a deduzioni valutative ambigue circa la società contemporanea o con una posizione "obiettiva" non-valutativa. Bernard ha poi analizzato il dibattito attuale tra consenso e conflitto, sostenendo che questo è imperniato soprattutto sulla contraddizione tra le teorie della scuola sociologica del "consenso" e della scuola "radicale" che sono, per usare le parole di Bernard, "in molti modi immagini speculari l'una dell'altra". La soluzione a questo conflitto e la sintesi tra funzionalismo e marxismo può essere trovata, secondo Bernard, solo nella scuola sociologica del conflitto di cui possono essere considerati facenti parte molti importanti sociologi. Questi sono Simmel, Bagedot, Glumpowitz, Ratzenhofer, Sumner, Small, Oppenheimer, Vold, Dahrendorf, Coser, Collins, Barrington Moore Jr., Bendix, Wrong. Scrive Bernard: "La teoria sociologica del conflitto sarebbe capace di "assorbire" il contenuto descrittivo e analitico di ambedue le teorie: sociologica del consenso e radicale, escludendo le loro valutazioni contraddittorie circa la legittimità" (ibid.,p.205). Ma, pur mantenendo ciò, sente la necessità (sulla base del lavoro di Simmel), di rifiutare l'idea, sostenuta da Dahrendorf, di identificare le teorie del cambiamento sociale con quella del conflitto e quelle dell'ordine sociale con quella del consenso. Il Bernard individua solo quattro scuole. In una mia analisi critica del suo lavoro (L'Abate,1989) ho fatto presente come ne esista sicuramente una quinta, che è quella secondo me fondamentale per il superamento del distacco tra modelli conflittuali e consensuali (con il modello che ho definito dell'equilibrio instabile), e che io definirei "critica": la teoria critica, che ha una posizione ambivalente, sia sulla natura umana, sia sulle società contemporanee. In questa scuola Bernard colloca M. Weber, da lui non preso in considerazione appunto per questa sua caratteristica. Ma vi collocherei anche Gramsci ed Habermas perchè, pur richiamandosi al marxismo, se ne differenziano per una visione più pessimistica della natura umana ed un poco meno rigida, invece, delle società contemporanee. E questo permette sia di vedere come introducendo nel dibattito anche la natura umana (il modello di uomo), che nella mia proposta di equilibrio instabile era in secondo piano, la situazione si complica e non si possa più parlare di due soli modelli (o di tre se si considera anche quello dell'equilibrio instabile), ma almeno di quattro o cinque, quante sono le scuole analizzate dal Bernard, o emergenti dal mio confronto con lui. E permette anche di vedere come il marxismo non sia del tutto unitario e come possa rientrare sia nelle "teorie conflittuali radicali" (oppure, nello schema precedente a tre modelli, in quello conflittuale), sia, per certi suoi sviluppi, nelle "teorie critiche" (o, nello schema a tre, nel modello dell'equilibrio dinamico). Questo del resto emerge anche dall'analisi di Boudon dei tre paradigmi, che abbiamo già esaminata, e che riproduce, a questo livello, uno schema a tre quale quello da me usato a livello di modelli. In questo Boudon vede il neo-marxismo come un paradigma a se stante contrapposto al funzionalismo. Ma parlando del terzo paradigma, quello da lui ritenuto più valido, e che definisce dei "rapporti interattivi" - che fa riferimento e coincide con la sua proposta, a livello di metodo, dell'individualismo metodologico - egli sostiene ripetutamente come essa può essere considerata derivante dallo stesso marxismo. Il confronto del modello dell'equilibrio instabile con un dibattito interno alle teorie sociali ha perciò mostrato come anche a questo livello si può trovare conferma di esso, visto come quinta teoria, ma nello stesso tempo suggerisce di portare a cinque i modelli per tener conto, in pieno, del dibattito avvenuto storicamente. Ma tale confronto mostra anche come l'uso, da parte di Bernard, del concetto di teoria sociale non differisca molto da quello di modelli anzi, in realtà, è ancora più vasto dei modelli che abbiamo visto nel capitolo precedente perchè ne ingloba due, di società e di uomo. Questo è in contrasto con quanto sostenuto da Inkeles, e ripreso da me, del modello come visione del mondo metateorica, non dimostrabile, e teoria invece come più limitata ma dimostrabile. Personalmente ritengo valido, anche sulla base delle conclusioni indicate prima sulla scia della riflessione della Masterman, considerare la "teoria" in questo secondo modo, come più limitata, ma dimostrabile, o addirittura già dimostrata. Da questo punto di vista le cinque teorie emerse dal lavoro di Bernard e dal mio confronto con lui, andrebbero considerati "modelli", e la "teoria critica" verrebbe a far parte, e a coincidere, con il "modello dell'equilibrio instabile". Boudon, invece, usa il termine di paradigma in un doppio senso: come modello di società o visione del mondo, quando analizza le due scuole contrapposte del funzionalismo e del neomarxismo (che hanno assunti di base diversi, divergenti, che fanno riferimento al concetto di equilibrio, e che, sostanzialmente, li fanno convergere il primo, il funzionalismo, nel modello dell'equilibrio, il secondo, il neo-marxismo, in quello del conflitto); come metodo, invece, nella sua proposta di un terzo paradigma, che superi i primi due. In questo caso perciò il suo concetto di "paradigma" ricade nel terzo ambito di significato individuato dalla Masterman, quello dei paradigmi-costrutto, e non nel primo, quello dei paradigmi matateorici in cui invece ricadono i primi due. Ma questo mi sembra confermare in pieno l'importanza di utilizzare termini diversi per concetti diversi, e di lavorare, in modo diverso, ad ognuno dei tre livelli individuati, cercando un modello unificato (senza però dogmatizzarlo, e considerandolo provvisorio) al primo livello, e cercando invece di essere pluralisti agli altri due livelli, quelli delle teorie e dei metodi. Il come in rapporto alle teorie lo abbiamo già visto nel capitolo apposito. Quanto emerso conferma comunque l'importanza di non limitare la scienza entro gli alvei del metodo deduttivo, ma di sviluppare anche il metodo induttivo, e di costruire perciò le teorie anche dal basso, attraverso la strada: teoria particolare --> teoria a medio raggio --> teoria generale, per poi ripartire in senso inverso, soprattutto per attivare, nel processo di discesa, delle ricerche sperimentali, non solo in laboratorio ma anche sul campo, che permettano di superare l'attuale distacco tra "teoria" e "prassi", e contribuire perciò, in modo più valido, allo sviluppo di quel ciclo conoscitivo che abbiamo visto alla base del processo di conoscenza e di comprensione della realtà che ci circorda. Ma prima di arrivare ad alcune indicazioni del come, a livello di metodo, si possa portare avanti questo compito, mi sembra importante un confronto con quanto emerso nei capitoli sui modelli e sui paradigmi. Per prima cosa mi sembra da sottolineare come il modello dell'equilibrio instabile trovi molti appoggi nelle analisi sui paradigmi. In particolare nel riconoscimento che i sistemi complessi possono funzionare anche in situazioni di forte instabilità (Ceresa, Mela, Pellegrini), e che l'ordine ed il disordine non vanno visti come concetti separati e contrapposti, ma nei loro rapporti reciproci, come dialogica, per usare un termine di Morin, tra ordine --> disordine --> organizzazione --> ordine....(Morin). Oppure nell'importanza e lo sviluppo di paradigmi aperti (Eisenstadt, Curelaru) in cui conflitto e consenso si mescolano in rapporto alla sempre maggiore complessità delle società attuali. Ma dal confronto con i paradigmi mi sembrano emergere, in appoggio alle mie conclusioni di considerare come aspetti fondamentali dei paradigmi gli aspetti metodologici (come sostiene la Masterman e riconosce anche Kuhn), una serie di indicazioni metodologiche che bisognerà tenere presente, e sviluppare ulteriormente, nel proseguo dei capitoli. I principali tra questi mi sembrano essere: 1) individualismo metodologico; 2) complementarietà tra comprensione e spiegazione; 3) importanza della soggettività e della oggettività; 4) interrelazione del tutto con le parti, ma anche reciproca autonomia; 5) causalità non solo pluralista, ma anche reciproca, interconnessa; 6) ordine e disordine visti come aspetti complementari della realtà; 7) responsabilità sociale del ricercatore (scienza con coscienza). Alcuni di questi temi li abbiamo già analizzati nei capitoli precedenti, sugli altri avremo occasione di tornare nei prossimi capitoli. Vorrei concludere questo capitolo precisando il mio parere sul pluralismo metodologico. Io non credo che vada eliminato il metodo, come ritiene Feyerabend, ma che esistono sicuramente più metodi che devono essere precisati. A parte l' "analisi casuale" che è stata studiata estensivamente e si può dire sia a un buon livello di codificazione, gli altri metodi sono ad un livello che possiamo definire "pre-elementare". Ritengo che almeno altri tre metodi debbano essere elaborati a fondo: l'analisi funzionale, l'analisi strutturale, l'analisi processuale. In un primo momento avevo parlato di altri quattro metodi, inserendo tra questi, oltre ai precedenti, anche l'analisi sistemica. Ma proseguendo nel lavoro mi è sembrato che questa ultima, data l’importanza dei processi all’interno dei sistemi, possa essere considerata parte della stessa analisi processuale. Ognuno di questi approcci, se così possiamo definirli, per diventare realmente un metodo, può trarre profitto dalla filosofia o prospettiva corrispondente, ma deve anche diventare autonomo ed indipendente da essa: l'analisi funzionale dal funzionalismo, l'analisi strutturale dal marxismo e dallo strutturalismo, l'analisi processuale dall'interazionismo, l'analisi sistemica dallo strutturalfunzionalismo ed anche dalla teoria generale sui sistemi. Ciò può esser fatto confrontando ricerche che hanno usato questi diversi metodi, come Merton ha cominciato a fare con l'analisi funzionale, cercando di trovare indicazioni per una miglior codificazione di ognuno di questi metodi. In complesso perciò, sulla base di questa interpretazione, esisterebbero cinque metodi principali di analisi della realtà (o quattro se, come alcuni fanno e come farò anche io, si considera l'analisi sistemico e quella processuale come unica e coincidente), che utilizzano o possono utilizzare sia i metodi qualitativi, sia quelli quantitativi, anche se in misura diversa l'uno dall'altro. Questo porterebbe perciò ad un superamento dell'attuale distacco che vede l'analisi quantitativa condotta solo, o quasi esclusivamente, a livello dell'analisi causale, e tutti gli altri come dominio dei metodi qualitativi. In attesa di tornare su questo argomento concluderei questo capitolo con una tabella riassuntiva dei vari metodi, con le rispettive teorie di riferimento, ed i principali elementi metodologici:Capitolo 5 LA COSTRUZIONE E LA VERIFICA DELLE IPOTESI Abbiamo già visto che l'ipotesi è una asserzione, o proposizione, teoretica che afferma, in forma dubitativa da verificare, l'esistenza di un rapporto tra due o più variabili, o tra una o più variabili ed una determinata situazione. Ma le domande cui dobbiamo ancora rispondere sono: a cosa servono; come si costruiscono e verificano; e, se ne esistono, come abbiamo già visto, vari tipi (generali, operative,ecc.) quali sono le differenze tra di loro ? Per rispondere alla prima, sulle funzioni, mi sembra utile riportare un colloquio tra Alice e lo smagatto, nel paese delle meraviglie, quando la prima si era sperduta nel bosco: " Saresti tanto gentile da indicarmi la via che devo seguire per andarmene da qui?- chiese Alice. “Dipende da dove vuoi andare - rispose lo smagatto" (in altre versioni, che preferisco, è chiamato lo stregatto) (L. Carroll, p. 61). Quel "dove vuoi andare" che lo smagatto sente il bisogno di sapere per dare una risposta valida è appunto l'ipotesi che è alla base di una ricerca, e che serve ad orientarla, a dire quali dati si devono prendere in considerazione, quali i rapporti da verificare, il che, in gran parte, determina anche i modi in cui rispondere alla domanda. Ma per andare più a fondo torniamo al caso di Alice. Astraiamoci dal caso concreto, magistralmente raccontato nel libro, e pensiamo ad una bambina qualsiasi che si è sperduta nel bosco e che vuole uscirne, e che si chiami anche lei Alice. Essa può, a sua volta, rispondere allo smagatto. "voglio andare a casa", o, semplicemente, "voglio uscire dal bosco", oppure, addirittura "non so". Le risposte di Alice su citate danno un carattere del tutto diverso alla ricerca e condizionano diversamente la risposta dello smagatto. Ma vediamo graficamente la situazione: Ammettiamo che Alice abbia dato la prima delle risposte su citate, e cioè che desidera andare a casa. Per dare una risposta valida lo smagatto deve tener conto, per lo meno, delle seguenti variabili: 1) la distanza della casa di Alice dal punto in cui lei si trova attualmente, 2) l'esistenza, tra Alice e la casa, nel punto più diretto e vicino, in cui la distanza è minore, di un fiume, il che comporta la presa in considerazione per lo meno di altre tre variabili: 3) l'ampiezza e la profondità del fiume, 4) il fatto che Alice sappia nuotare o meno, 5) le condizioni atmosferiche che possono escludere, anche nel caso che sappia nuotare, la strada più corta, o perchè è inverno, o perchè il fiume è in piena ed è pericoloso attraversarlo. Nel caso in cui le variabili 4 e 5 permettano la strada più diretta la risposta dello smagatto (e la soluzione del problema) dovrebbe essere quella indicata con la lettera A nel disegno. Nel caso invece in cui le variabili 4 e 5 escludano del tutto la strada più breve lo smagatto deve prendere in considerazione una nuova variabile, e cioè 6) il luogo in cui è il ponte, e la nuova distanza che ne deriva, e la risposta non potrà essere che la B. Ma ammettiamo invece che Alice abbia dato la seconda risposta, e cioè "voglio uscire dal bosco". In questo caso la soluzione al problema, e la risposta che dovrebbe dare lo smagatto, è la C, che fa emergere una nuova variabile, la 7) e cioè il punto meno distante dal luogo in cui si trova attualmente Alice, e più facile da raggiungere (non c'è un fiume di mezzo). Nel caso invece Alice rispondesse "non so", lo smagatto può rispondere, o che non è in grado di dare una risposta valida perchè non sa cosa vuole fare Alice, oppure le può dare tutti gli elementi conoscitivi in suo possesso, e cioè tutte le variabili, dalla 1 alla 7, che abbiamo visto possono influenzare la decisione di Alice, e lasciar lei responsabile di cosa fare. Questa situazione sottolinea molto bene la diversità di una ricerca nel caso che ci sia una ipotesi ben precisa (la prima e la seconda risposta di Alice), oppure nel caso che non ci sia (la terza risposta). Le ricerche senza ipotesi, come in quest'ultimo caso, tendono ad avere un carattere descrittivo, a dare cioè i vari dati, o variabili, che si ritiene possano influenzare la situazione ma senza riferimento ad uno specifico scopo ed obiettivo. Ma in questo "si ritiene" c'è già in nuce una ipotesi, sia pur magari non esplicitata. Per quanto riguarda il caso della risposta di Alice “non so” lo smagatto può scegliere la seconda soluzione, quella cioè di darle tutti gli elementi in sua conoscenza, nel caso ritenga che Alice, pur non dichiarandolo esplicitamente, desideri comunque uscire dal bosco. Nel caso in cui non possa ragionevolmente supporlo, la situazione diventa così indeterminata che qualsiasi risposta da parte dello smagatto diventa impossibile, o, al contrario, qualsiasi risposta valida. Vediamo, appunto, come si sviluppa il colloquio nel racconto di Carroll: " - Dove non ha molta importanza - disse Alice. - Quand'è così puoi prendere una strada qualsiasi - osservò lo smagatto. - Purchè mi porti da qualche parte...- disse Alice pensierosa. - Oh, di questo puoi essere sicura - disse lo smagatto - basta che tu abbia voglia di camminare. Era vero: (commenta lo scrittore che, nella realtà, era un logico-matematico) lo smagatto aveva perfettamente ragione" (ibid.p.61). Le ricerche invece che hanno alla base una ipotesi tendono ad avere un carattere esplicativo. L'ipotesi è stata infatti anche definita come una "interpretazione o spiegazione provvisoria - e perciò da confermare - ma plausibile del fenomeno che si vuole studiare". Cosa significa plausibile? Che essa è in accordo con tutti i dati conosciuti, e con le teorie generali sul comportamento umano, e specifiche sul fenomeno allo studio. Il che significa che molto spesso l'ipotesi non è elaborata all'inizio di una ricerca, ma che emerge in una fase più avanzata, quando si è già raccolto i dati su un fenomeno, e studiato le teorie generali o particolari che lo possono influenzare. Molto spesso la distinzione tra ricerche descrittive e esplicative, di cui abbiamo parlato prima, diventa una distinzione tra fasi diverse, la prima di tipo descrittivo, per conoscere i vari aspetti di un dato fenomeno (ad esempio, se mi interesso della cosiddetta "delinquenza minorile", tra quali gruppi - di sesso, età, classe sociale, gruppo etnico, ecc.-, ed in quali situazioni di contesto - quartieri urbani, zone rurali in abbandono, zone di deterioramento, ecc.-, tale fenomeno è più diffuso). Sulla base dei dati raccolti, e delle teorie analizzate, potrò arrivare - in seguito - ad individuare una o più ipotesi da sottoporre, in una seconda fase, quella esplicativa, a conferma o a falsificazione (secondo la terminologia popperiana). Ma la distinzione tra ipotesi "generali" ed "operative", oppure tra ipotesi "guida" o di "lavoro" sottolinea delle differenze tra le ipotesi, che si collocano, perciò, a un diverso livello di approfondimento. Viola (1972), ad esempio, distingue tra ipotesi guida :"E' espressa sotto forma di interrogativo cui dare risposta. Serve ad orientare la raccolta dei dati nelle prime fasi di una ricerca"; ed ipotesi di lavoro : "E' espressa in forma di affermazione (positiva o negativa) relativa all'oggetto. Essa ha in nuce un piano di lavoro, non solo la dirige ma ne determina la struttura" (p.44).Questo può significare, o che la fase descrittiva di cui abbiamo parlato prima ha anche essa le sue ipotesi, sia pur di tipo generale, o guida (come definite da Viola), oppure che invece di due ci saranno tre fasi, la prima puramente descrittiva in cui cerco di raccogliere tutte le informazioni possibili, e le teorie, sul fenomeno allo studio, la seconda più specifica, in cui approfondisco alcuni aspetti sulla base di prime ipotesi (guida) elaborate, e la terza infine in cui riesco ad elaborare una spiegazione del fenomeno, sia pur provvisoria (ipotesi operativa o di lavoro), che cercherò di verificare raccogliendo tutte le informazioni che l'ipotesi stessa rendono pertinenti. Ma vediamo due esempi di ipotesi elaborate in ricerche piuttosto note: 1) Ricerche di Cassell Gli esempi sottolineano l'importanza, nella costruzione delle ipotesi, di quella che abbiamo chiamata la scala di "astrazione", di cui abbiamo già parlato esaminando la teoria, e come, man mano che si passi da ipotesi guida, o generali, a quelle di lavoro, o operative, si passi anche da livelli di astrazione maggiori a livelli minori, o più concreti, che sono poi quelli che vengono sottoposti a verifica. Ma a questo riguardo è importante prendere in analisi le principali strategie utilizzabili per la verifica di una ipotesi. Bailey (1985) ne sottolinea tre: 1) L'approccio classico Esso procede per tre fasi: I) definizione di concetti e formulazione di una proposizione di relazione; II) individuazione di procedimenti per misurare empiricamente i concetti; III) raccolta ed analisi dei dati utili alla verifica delle ipotesi. Nel caso si voglia studiare i rapporti tra "intelligenza" e "felicità" la strategia può essere rappresentata graficamente così: l'ipotesi, o proposizione di relazione, formulata nella prima fase, r2 e r3 sono le procedure previste per misurare empiricamente i due concetti (fase II), che porranno al centro della ricerca x' e y', e cioè i tests di intelligenza e di felicità. r'1 è la correlazione riscontrata tra x' e y' (fase III) e che servirà a rispondere alla domanda se l'ipotesi di partenza (r1) è confermata o invalidata. 2) La teoria emergente Essa procede invece per due sole fasi: I) inizio del lavoro sul campo senza ipotesi; II) descrizione della situazione e formulazione di spiegazioni sulle ragioni per cui accade. In questa strategia le fasi II e III di quella precedente sono fuse insieme. Il disegno è analogo al precedente ma la direzione delle freccie r2 e r3 è rovesciata, dal basso verso l'alto. 3) L'operazionismo In questo approccio il concetto stesso è definito dal modo in cui viene misurato. Graficamente il Bailey lo rappresenta così: Anche questo approccio procede per due sole fasi: I) definizioni di concetti e procedimenti (le fasi I e II del primo approccio vengono unificate); II) raccolta dei dati. tre diversi approcci sottolineano anche un diverso modo di costruzione delle ipotesi. Per il I ed il III la procedura di costruzione è di tipo deduttivo, dal concetto al dato, dalla teoria alla ricerca ed all'osservazione. Per il II invece la costruzione è eminentemente una procedura di tipo induttivo, dall'osservazione della realtà si traggono delle ipotesi che sono in sintonia con quanto già osservato, e che perciò si avvicinano alla teoria stessa (che, come abbiamo visto, è sempre, anche essa, una ipotesi, in quanto sottoponibile sempre ad ulteriori verifiche o falsificazioni). Ma vorrei concludere presentando un grafico di Viola che sottolinea con più precisione il rapporto tra i due diversi tipi di ipotesi, e lo scopo della ricerca stessa (descrittivo, o esplicativo - o analisi); grafico che mette in luce diversi tipi di ricerca che richiederanno - il come lo vedremo in seguito - metodologie diverse: |
|