The Wall Street Journal Caro Obama stai sbagliando Il mondo non può essere governato con idee defunte Il vecchio leone della diplomazia statunitense, a 91 anni ruggisce ancora In Libia c'è la guerra civile, le milizie fondamentaliste stanno costruendo un califfato auto-proclamato in Siria e Iraq e la giovane democrazia in Afghanistan è sull'orlo della paralisi. A questi problemi si aggiungono il riemergere delle tensioni con la Russia e le relazioni con la Cina divise tra impegni di cooperazione e recriminazioni pubbliche. Il concetto di ordine alla base dell'era moderna è entrato in crisi. La ricerca di un ordine mondiale è stata a lungo definita quasi esclusivamente dai concetti delle società occidentali. Nei decenni successivi alla Seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti, forti di un'economia solida e della fiducia nella nazione, hanno cominciato a raccogliere il testimone della leadership internazionale, aggiungendovi una nuova dimensione. Una nazione fondata esplicitamente sull'idea di governance libera e rappresentativa, gli Stati Uniti identificavano la loro ascesa con la diffusione della libertà e della democrazia e attribuivano a queste forze la capacità di raggiungere una pace giusta e duratura. Il tradizionale approccio europeo all'ordine aveva invece considerato i popoli e gli Stati intrinsecamente in competizione tra loro e, per limitare gli effetti delle loro contrastanti ambizioni, si era basato sull'equilibrio del potere e sul concerto di uomini di Stato illuminati. La visione americana dominante riteneva il popolo intrinsecamente ragionevole e incline al compromesso pacifico e al buon senso: la diffusione della democrazia era perciò l'obiettivo primario dell'ordine internazionale. I liberi mercati avrebbero elevato la condizione degli individui, arricchito le società e sostituito l'interdipendenza economica alla tradizionale concorrenza internazionale. Questo tentativo di stabilire un ordine mondiale si è realizzato da più punti di vista. Una pletora di Stati sovrani indipendenti governa la maggior parte del territorio mondiale. La diffusione della democrazia e di una governance partecipativa sono diventate aspirazioni condivise, se non addirittura realtà universali; le comunicazioni globali e le reti finanziarie operano in tempo reale. Gli anni che vanno dal 1948 alla fine del secolo hanno segnato un breve momento nella storia dell'uomo in cui si poteva parlare di un nascente ordine globale composto da un'amalgama di idealismo americano e dei tradizionali concetti europei di Stato e di equilibrio del potere. Ma vaste regioni del mondo non hanno mai condiviso ma solamente accettato il concetto occidentale di ordine. Queste riserve stanno ora diventando esplicite, per esempio, nella crisi ucraina e nel Mar Cinese Meridionale. L'ordine stabilito e proclamato dall'Occidente si trova a un punto di svolta. Prima di tutto, la natura dello Stato in sé, l'unità formale di base della vita internazionale, è soggetta a una moltitudine di pressioni. L'Europa ha deciso di superare lo Stato e di creare una politica estera basata principalmente sui principi del soft power. Ma è dubbio che le rivendicazioni di legittimità separate dal concetto di strategia possano sostenere l'ordine mondiale. Inoltre, l'Europa non si è ancora conferita le caratteristiche di Stato, lasciando un vuoto di autorità al suo interno e uno squilibrio del potere lungo i suoi confini. Allo stesso tempo, alcune aree del Medio Oriente si sono dissolte in componenti etniche e settarie in conflitto tra loro; le milizie religiose e i poteri che le sostengono violano confini e sovranità, producendo il fenomeno di Stati falliti che non controllano il proprio territorio. In Asia, la sfida è opposta a quella dell'Europa: prevalgono i princìpi dell'equilibrio del potere, indipendenti dal concetto stabilito di legittimità, portando alcuni dissensi sull'orlo dello scontro. Lo scontro tra l'economia internazionale e le istituzioni politiche che apparentemente sono al governo, indebolisce anche il senso di avere un obiettivo comune, necessario per l'ordine mondiale. Il sistema economico è diventato globale, mentre la struttura politica del mondo resta basata sullo Stato-nazione. La globalizzazione economica, in sostanza, ignora le frontiere nazionali. La politica estera afferma queste ultime, anche quando cerca di riconciliare i contrastanti obiettivi nazionali o gli ideali dell'ordine mondiale. Questa dinamica ha prodotto decenni di crescita economica, punteggiati da periodiche crisi finanziarie, in apparenza sempre più intense: in America Latina negli anni 80, in Asia nel 1997, in Russia nel 1998, negli Stati Uniti nel 2001 e di nuovo a partire dal 2007, in Europa dopo il 2010. I vincitori hanno poche riserve su questo sistema; ma i perdenti (coloro che sono bloccati da errori strutturali, come nel caso dei paesi meridionali dell'Unione europea) cercano i rimedi attraverso soluzioni che negano, o almeno ostacolano, il funzionamento del sistema economico globale. L'ordine internazionale si trova così di fronte a un paradosso: la sua prosperità dipende dal successo della globalizzazione, ma questo processo produce una reazione politica che spesso va contro le sue aspirazioni. Un terzo difetto dell'attuale ordine mondiale, così come stanno le cose, è l'assenza, per le grandi potenze, di un meccanismo efficace per consultarsi e possibilmente di cooperare sulle questioni più importanti. Potrebbe sembrare una strana critica alla luce dei molti forum multilaterali esistenti, più numerosi di ogni altro momento nella storia. Ma la natura e la frequenza di questi incontri funzionano contro l'elaborazione di una strategia a lungo termine, non andando oltre, nel migliore dei casi, a una discussione sugli aspetti tattici in sospeso e, nel peggiore, in una nuova forma di incontri al vertice intesi come eventi da «social media». Una struttura contemporanea di regole e normative internazionali, se deve risultare più rilevante, non può semplicemente essere affermata da dichiarazioni congiunte, ma deve essere alimentata da convinzioni comuni. La punizione per il fallimento non sarà tanto una grande guerra fra Stati (anche se in alcune regioni questo esito rimane possibile) quanto un'evoluzione in sfere di influenza identificate con particolari strutture nazionali e forme di governance. Ai suoi confini, ogni sfera sarà tentata di provare la propria forza contro altre entità ritenute illegittime. Una lotta tra regioni diverse potrebbe essere ancora più debilitante di quella avvenuta in passato tra le nazioni. L'attuale ricerca di un ordine mondiale richiederà una strategia coerente per stabilire un concetto di ordine all'interno delle varie regioni e per mettere questi ordini regionali in relazione tra loro. Questi obiettivi non sono necessariamente autoconcilianti: il trionfo di un movimento radicale potrebbe portare ordine in una regione e preparare il terreno a tumulti nelle altre. Il dominio di una regione da parte di un paese con un intervento militare, anche se può dare un'idea di ordine, potrebbe produrre una crisi nel resto del mondo. Un ordine mondiale di Stati che affermino la dignità individuale e una governance partecipativa e cooperino su scala internazionale secondo regole condivise può essere la nostra speranza e dovrebbe essere la nostra aspirazione. Ma il progresso su questa strada dovrà essere sostenuto attraverso una serie di fasi intermedie. Per avere un ruolo responsabile nell'evoluzione di un ordine mondiale del ventunesimo secolo, gli Stati Uniti devono essere pronti a rispondere a una serie di domande: che cosa cerchiamo di impedire, non importa come, anche da soli, se necessario? Cosa tentiamo di raggiungere, anche se non sostenuti da uno sforzo multilaterale? Cosa cerchiamo di raggiungere o impedire, solo se sostenuti da un'alleanza? In che cosa non dovremmo impegnarci, anche se spinti da un gruppo multilaterale o da un'alleanza? Qual è la natura dei valori che cerchiamo di promuovere? E quanto l'applicazione di questi valori dipende dalle circostanze? Per gli Stati Uniti tutto questo richiederà di pensare su due livelli apparentemente contraddittori. La celebrazione dei princìpi universali deve essere accompagnata dal riconoscimento della realtà delle diversità storiche e culturali e della visione della sicurezza che hanno le altre regioni. Proprio mentre vengono analizzate le lezioni di decenni stimolanti, l'affermazione della natura eccezionale dell'America deve essere sostenuta. La storia non concede tregua ai paesi che mettono da parte il loro senso d'identità a favore di un corso in apparenza meno arduo. Al tempo stesso, però, non assicura il successo alle più nobili convinzioni in assenza di una strategia geopolitica globale.
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