Originale: The Intercept

http://znetitaly.altervista.org/
19 ottobre 2014


Che cosa significa realmente Democrazia negli Stati Uniti e il gergo del New York Times: edizione latino-americana

di Glenn Greenwald

Traduzione di Maria Chiara Starace

Uno dei resoconti giornalistici più casualmente rivelatori che sottolinea il vero significato di “democrazia” nel discorso portato avanti dagli Stati Uniti, è un editoriale del New York Times del 2002 ma ancora notevole, riguardo al colpo di stato militare sostenuto dagli Stati Uniti in Venezuela, che aveva temporaneamente rimosso il popolarissimo presidente eletto democraticamente di quel paese, Hugo Chávez. Invece di definire quel golpe per quello che è stato per definizione – un attacco diretto alla democrazia da parte di una nazione straniera e di forze militari interne che non gradivano il presidente eletto in modo popolare – il Times, nella maniera più orwelliana possibile, ha letteralmente esaltato il golpe come una vittoria per la democrazia:
Con le dimissioni del presidente Hugo Chávez, presentate ieri, la democrazia venezuelana non è più minacciata da un mancato dittatore. Il Signor Chávez, un disastroso demagogo, si è dimesso dopo che i militari sono intervenuti e hanno passato il potere a un rispettabile imprenditore: Pedro Carmona.
Fortunatamente, ha scritto il NYT, la democrazia in Venezuela non era più in pericolo…perché il leader democraticamente eletto era stato rimosso con la forza dall’esercito e sostituito da un “imprenditore” non eletto e favorevole agli Stati Uniti. I campioni della democrazia nel NYT hanno allora chiesto un governante che fosse più di loro gusto: “Il Venezuela ha urgente necessità di un leader che abbia un forte mandato democratico per ripulire il marciume, incoraggiare la libertà imprenditoriale, snellire la burocrazia e renderla più professionale.”
Cosa ancora più straordinaria, gli editori del Times, hanno detto ai loro lettori che la “rimozione di Chávez è stata una faccenda puramente venezuelana,” anche se è stato rivelato rapidamente e come era prevedibile, che i funzionari neoconservatori dell’amministrazione Bush hanno avuto un ruolo centrale in quella faccenda. Undici anni dopo, alla morte di Chávez, gli editori del Times hanno ammesso che la “amministrazione Bush aveva gravemente danneggiato la reputazione di Washington in tutta l’America Latina quando imprudentemente aveva benedetto un tentativo fallito di colpo di stato militare contro il Signor Chávez” [il giornale ha dimenticato di citare che anche esso ha benedetto ( e ha ingannato al riguardo i suoi lettori) quel golpe]. Gli editori allora hanno anche riconosciuto i fatti alquanto significativi che le “politiche di Chávez per la redistribuzione hanno portato migliori condizioni di vita a milioni di venezuelani poveri” e che “non si può negare la popolarità di Chávez tra la maggioranza indigente del Venezuela.
Se pensaste che la pagina del New York Times dove compaiono gli editoriali abbia imparato qualche lezione da quel fiasco, vi sbagliereste. Oggi hanno pubblicato un editoriale che esprime una seria preoccupazione sullo stato della democrazia in America Latina in generale e in particolare in Bolivia. La causa prossima di questa preoccupazione? La vittoria schiacciante del Presidente boliviano Evo Morales, che, come ha scritto The Guardian, “è ampiamente popolare nella sua patria per la gestione economica di tipo pragmatico che ha diffuso tra le masse la ricchezza che proviene dal gas naturale e dai minerali.”
Tuttavia, gli editori del Times considerano l’elezione di Morales per un terzo mandato non come una convalida della democrazia, ma come una minaccia a questa, in cui “la forza dei valori democratici nella regione è stata indebolita negli anni passati da colpi di stato e da irregolarità elettorali.” Anche quando ammettono che “è facile capire perché molti boliviani vorrebbero vedere il Signor Morales, il primo presidente del paese che ha radici indigene, rimanere alla guida della nazione: durante il suo mandato l’economia del paese, uno dei meno sviluppati dell’emisfero, ha avuto una crescita gagliarda, il livello di disuguaglianza si è ridotto, e il numero delle persone che vivevano in povertà è calato in modo significativo – tuttavia rimproverano i vicini della Bolivia per aver avallato il governo in corso di Morales: “è sconvolgente che democrazie più forti in America Latina sembrino contente di legittimarlo.”
Gli editori spiegano che la loro preoccupazione si basa sul lungo mandato di Morales e sui capi democraticamente eletti dell’Ecuador e del Venezuela: “forse la tendenza più inquietante è che i protetti del Signor Chávez sembrano propensi a emulare la sua riluttanza a cedere il potere.” Però il vero motivo per cui il NYT detesta con tale veemenza questi leader eletti e ironicamente li considera delle minacce per la “democrazia”, diventa chiarissimo verso la fine dell’editoriale:
Questa dinamica regionale è stata fosca per l’influenza di Washington nella regione. In Venezuela, Bolivia ed Ecuador, la nuova generazione di caudillos [sic] (comandanti)ha tenuto d’occhio le politiche anti-americane e ha limitato lo scopo dell’impegno per lo sviluppo, la collaborazione militare e i tentativi di applicare le leggi contro l’uso della droga. Questo ha danneggiato le prospettive di una cooperazione per il commercio e la sicurezza.
Non si può avere una dichiarazione più sfacciata di questa. I leader eletti democraticamente di queste nazioni sovrane non riescono a sottoporsi ai dettami degli Stati Uniti, ostacolano l’imperialismo americano, e sovvertono i piani neoliberali dell’industria statunitense circa le risorse della regione. Perciò, malgrado il livello di popolarità che hanno tra i loro cittadini e anche se hanno molto migliorato le vite di milioni di persone appartenenti alle minoranze delle loro nazioni da lungo tempo oppresse e impoverite, vengono dipinti come serie minacce alla “democrazia.”
Naturalmente è vero che dei leader eletti democraticamente sono capaci di adottare misure autoritarie. Sono, per esempio, i leader degli Stati Uniti democraticamente eletti che mettono in prigione per anni delle persone senza accuse, costruiscono sistemi segreti di spionaggio domestico, e dichiarano anche di avere il potere di assassinare i loro stessi cittadini senza giusto processo. Le elezioni non sono una garanzia contro la tirannia. Ci sono delle critiche legittime da fare riguardo a ognuno di questi leader a proposito di misure domestiche e di libertà civili, come ci sono praticamente per ogni governo del pianeta.
Ma proprio l’idea che il governo degli Stati Uniti e i media suoi alleati siano motivati da quelle pecche, è semplicemente ridicolo. Molti dei più stretti alleati del governo statunitense soni i peggiori regimi del mondo, a cominciare dal regno saudita straordinariamente oppressivo (proprio ieri condannato a morte un famoso dissidente sciita) e il brutale colpo di stato militare in Egitto, che, come scrive oggi il mio collega Murtaza Hussein, diventa più popolare a Washington mentre diventa anche più oppressivo. E, naturalmente, gli Stati Uniti appoggiano Israele in ogni modo che ci si possa immaginare, anche se il Segretario di Stato americano riconosce espressamente la natura di “apartheid” del suo percorso di politiche.
Proprio come ha fatto il NYT nel caso del colpo di stato del regime venezuelano, il governo degli Stati Uniti saluta il regime al potere dopo il colpo di stato egiziano come salvatore della democrazia. Ecco perché “democrazia” nel discorso degli Stati Uniti significa: “servire gli interessi statunitensi” e “obbedire agli ordini degli Stati Uniti,” indipendentemente dal modo in cui come i leader ottengano e mantengano il potere. Al contrario, “tirannia” significa opporsi all’agenda degli Stati Uniti” e “rifiutare gli ordini degli Stati Uniti, indipendentemente da quanto siano giuste e libere le elezioni che danno il potere al governo. I regimi più tirannici vengono esaltati fino a quando si dimostrano remissivi, mentre i governi più popolari e democratici sono condannati come dispotici nella misura in cui esercitano l’indipendenza.
Per considerare come questo sia vero, immaginate soltanto le orge di denuncia che pioverebbero se un avversario degli Stati Uniti (diciamo l’Iran o il Venzuela) invece che un alleato chiave degli Stati Uniti come l’Arabia Saudita avesse appena condannato a morte un dissidente famoso. Invece, il NYT appena poche settimane fa cita in modo poco critico un ambasciatore degli Emirati che ha lodato l’Arabia Saudita come uno degli alleati “moderati” a causa del servizio reso agli Stati Uniti per la campagna di bombardamenti degli Stati Uniti in Siria. Nel frattempo, il leader della Bolivia molto popolare, eletto democraticamente, è una grave minaccia ai valori democratici – perché Evo è “ fosco” per l’influenza di Washington nella regione.”



Da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo
www.znetitaly.org


Fonte: http://zcomm.org/znet/article/what-democracy-really-means-in-us–and-new-york-times-jargon-latin-america-edition


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