Corriere della Sera
29 Maggio 2014

Da West Point Obama detta la sua linea per la politica estera: meno armi più dialogo, ma per i repubblicani questo atteggiamento viene considerato debole e rende più aggressivi i nemici dell'America, Putin e Talebani
di Massimo Gaggi

Obama considera questi giudizi ingenerosi, è convinto che la sua strategia che punta più sulle alleanze e la costruzione del consenso che sull’uso della forza è meno spettacolare ma più efficace di un attacco militare e cercava da tempo un’occasione per tirare tutti i fili della rete che sta tentando di tessere...

«Credo nell'eccezionalismo americano con ogni fibra del mio corpo, ma il ruolo speciale, quello di nazione guida, svolto dagli Stati Uniti non ci autorizza a ignorare le regole internazionali, a considerarci al di sopra delle leggi. Né la nostra leadership, una supremazia che tuttora non teme rivali, giustifica l'uso della forza militare ogni volta che c'è una crisi da risolvere.

Cercare soluzioni con gli strumenti diplomatici, economici e creando un consenso multilaterale che isola l'aggressore non è segno di debolezza: funziona». Sta funzionando con l'Iran che negozia sul nucleare. Funziona in Ucraina dove Putin «sente la pressione dell'opinione pubblica mondiale che ha isolato la Russia».

Barack Obama approfitta del «commencement», il discorso che viene pronunciato in occasione della cerimonia di laurea dei cadetti dell'accademia militare di West Point, per cercare di ridefinire le linee guida della politica estera americana: meno interventismo militare, più cooperazione. Ma anche uso unilaterale della forza quando sono minacciati interessi vitali degli Usa o quando viene attaccato un alleato.

E uso delle risorse risparmiate grazie alla fine della guerra in Iraq e Afghanistan per combattere un terrorismo che rimane la minaccia più pericolosa per l'America e che è ormai polverizzato in molti gruppi sparpagliati dall'Africa subsahariana al Medio Oriente, all'Asia centrale e meridionale.

C'è spazio anche per due annunci - un maggior sostegno ai ribelli siriani (quelli non legati alle centrali del terrore) che combattono il regime di Assad e uno stanziamento di 5 miliardi di dollari per una rete antiterrorismo nei Paesi più vulnerabili dell'Asia meridionale e del Sahel - in un discorso impegnativo, orgoglioso, ma che a tratti ha anche il sapore di una dolorosa autodifesa di un presidente sotto attacco.

Aspramente criticato all'interno dai repubblicani per la riforma sanitaria e la gestione dell'economia, durante il suo primo mandato Obama era stato, tuttavia, «promosso» dai più per quanto riguardava la sua gestione della politica estera.

Nell'ultimo anno e mezzo, però, il giudizio è cambiato, e non per il meglio a causa delle incertezze della Casa Bianca nella gestione della crisi siriana, della pressione asfissiante ma fin qui priva di frutti per arrivare una pace stabile tra israeliani e palestinesi e in seguito alla crisi ucraina, con Washington che ha accusato Putin di comportarsi come uno zar del Diciannovesimo secolo, ma non per questo è riuscita ad evitare l'annessione della Crimea da parte di Mosca.

I suoi avversari del fronte conservatore, accusano il presidente di aver contribuito a rendere più aggressivi i nemici - i talebani come il presidente russo - dichiarando esplicitamente e solennemente di escludere ogni uso della forza in Ucraina e ufficializzando il calendario del ritiro dall'Afghanistan.

Obama considera questi giudizi ingenerosi, è convinto che la sua strategia che punta più sulle alleanze e la costruzione del consenso che sull'uso della forza è meno spettacolare ma più efficace di un attacco militare e cercava da tempo un'occasione per tirare tutti i fili della rete che sta tentando di tessere: un mese fa la missione in Estremo Oriente per rassicurare gli alleati in conflitto con la Cina (Giappone, Corea del Sud, Filippine) e per stringere i rapporti con nuovi amici (Malesia).

Tre giorni fa la visita-lampo in Afghanistan e l'annuncio che il corpo militare americano in questo Paese verrà ridotto a 9.800 unità a fine anno e a zero entro il 2016. E la prossima settimana un'altra missione in Europa, a due mesi da quella di marzo, per i 70 anni dallo sbarco in Normandia, un grande sacrifico americano per salvare l'Europa dal nazifascismo.

E poi la visita in Polonia, un alleato della Nato che si sente minacciato dal nuovo espansionismo russo, e il G7 che si riunirà a Bruxelles dopo la sospensione-espulsione di Putin dai vertici dell'Occidente industrializzato e la cancellazione del G8 di Sochi.

Obama - che aveva parlato ai cadetti già un'altra volta, alla cerimonia di laurea del 2009 - stavolta si è presentato con un messaggio diverso: allora erano i tempi dell'aumento della pressione in Afghanistan, con l'invio di altri 30 mila uomini per cercare di scardinare la resistenza talebana e distruggere la rete terrorista di Al Qaeda. Stavolta il presidente ha spiegato a questi ufficiali freschi di laurea che un buon «commander-in-chief» usa la forza militare solo in circostanze estreme.

Una maggior prudenza che, secondo Obama, non intacca la leadership dell'America (alla quale, dalla Nigeria alle Filippine, tutti finiscono per appellarsi) ma, anzi, mette il Paese al riparo da errori gravi: il coinvolgimento in conflitti non essenziali che, quello sì, indebolirebbe gli Stati Uniti. E qui il presidente ha parlato di errori commessi a più riprese nel Dopoguerra. Non è entrato nello specifico, ma è parso riferirsi chiaramente all'occupazione dell'Iraq e alla guerra del Vietnam.

Apprezzato da Amnesty International per la promessa di un maggior rispetto della legalità internazionale e di una maggiore trasparenza negli attacchi «chirurgici» antiterrorismo condotti coi droni, Obama non ha tuttavia convinto i suoi critici conservatori e nemmeno molti analisti di politica estera secondo i quali lo scenario disegnato - un Paese diviso tra isolazionisti e interventisti a oltranza - non è realistico.

Un discorso, insomma, diretto più agli americani stanchi delle guerre combattute negli ultimi 12 anni che a chi cerca di capire dove sta andando l'America. Come sempre di questi tempi, Obama pensa alla sua «legacy», ma anche alle elezioni di «mid-term», ormai dietro l'angolo.

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