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15 Ottobre 2017

 

La pietra che, rimossa, fa vacillare la Chiesa

di Francesco Lamendola  

 

Relativizzazione della Verità cattolica e il "deicidio" dimenticato: la preghiera "Oremus et pro perfidis Judaeis" la cui modifica fu un autentico capolavoro di equilibrismo ma anche la pietra che rimossa fa vacillare la Chiesa

 

Per millecinquecento anni, ininterrottamente, nella celebrazione solenne del Venerdì Santo, milioni di cattolici hanno pregato, fra l’altro, con queste parole: Oremus et pro perfidis Judaeis, preghiamo anche per i perfidi Giudei. Una preghiera “cattiva”, nevvero? Meno male che lo “spirito” del Concilio Vaticano II l’ha spazzata via, insieme ad altre insopportabili anticaglie e a non pochi residui di antigiudaismo. Già. Peccato, però, che perfidis non significhi solo “perfidi”, nel senso di “subdoli e sleali”, ma anche, e principalmente, “increduli”, nel senso che i giudei non hanno voluto credere che Gesù, giudeo Lui pure, fosse il Messia da loro tanto atteso e annunciato dai profeti. Si trattava, dunque, di una preghiera per la conversione dei Giudei, affinché anche loro possano godere dei frutti di salvezza dell’Incarnazione del Verbo, così come i cristiani. E, inoltre, cosa ancor più importante, peccato che la preghiera per la conversione dei giudei fosse la probabile risposta, piena di mitezza e di compassione, a una serie di “preghiere” giudaiche, che erano, in realtà, altrettante maledizioni scagliate contro i seguaci del Nazareno. Ce n’era un vero florilegio, tratte dai racconti del Toledot Yesu, pieni di sconcezze, insulti e blasfemie contro la religione cristiana e il suo fondatore, un vero e proprio anti-vangelo sarcastico e sacrilego: in particolare, c’era - e c’è tuttora: le cose non sono cambiate, anche se si fa finta di nulla, in tempi di “dialogo” post-conciliare, che poi è un dialogo a senso unico – la Birkat Ha Minim, ossia la “dodicesima benedizione”, parte integrante della Hamidah, la preghiera fondamentale che ogni ebreo ortodosso recita più volte nel corso della giornata. Peccato, dunque, che più che una “benedizione”, si tratti di una vera e propria maledizione, scagliata con perfetta lucidità e intenzionalità contro i cristiani, della quale esistono varie versioni, e che suona press’a poco così: Che per gli apostati non ci sia speranza; sradica prontamente ai nostri giorni il regno dell’orgoglio, e periscano in un istante i “nozirim” (i cristiani) e i “minim” (gli eretici). E anche se i linguisti discutono tuttora se i nozirim siano tutti i cristiani, o solo gli ebrei convertiti al cristianesimo, la cosa fa poca o punta differenza,  visto che i cristiani, in quanto tali, tutti, di origine ebrea e non ebrea, rientrano nella categoria dei minim, i “dissidenti”, ossia gli eretici.

Questi sono i veri termini della questione, e le anime belle che si scandalizzavano e si scandalizzano per il fatto che, per un tempo così lungo, i cattolici abbiano pregato per la conversione dei giudei, non sapevano e non sanno, oppure non volevano, né vogliono sapere, che gli ebrei, non una vola all’anno, ma tutti i giorni, e più volte al giorno, pregavano e pregano, a loro volta, non perché i cristiani si convertissero alla loro religione, ma perché muoiano e vengano annientati dal loro Dio. La preghiera completa, fissata dal Concilio di Trento e tramandata, con delle lievi differenze nella traduzione dal testo latino, recitava così: Preghiamo anche per gli ebrei che non credono, affinché il Signore e Dio nostro tolga il velo dai loro cuori e anch’essi riconoscano il Signore Gesù Cristo. Dio onnipotente ed eterno, che non allontani dalla tua misericordia neppure l’incredulità degli ebrei, esaudisci le nostre preghiere, che ti presentiamo per l’accecamento di quel popolo, affinché, riconosciuta la luce della tua verità, che è Cristo, siano liberati dalle loro tenebre. Da una parte una preghiera d’amore, quindi, di perdono e di misericordia; dall’altra, una preghiera carica d’odio, una maledizione implacabile, un giuramento di eterna inimicizia. Eppure, specialmente dopo la Seconda guerra mondiale, i cattolici hanno accettato di essere posti sotto accusa, hanno accettato la taccia infamante di antisemitismo, si son fatti carico di una riparazione dovuta ai giudei, come se fossero sempre stati ostili verso di essi, accusandoli di “deicidio” e alimentando, sia pure indirettamente, la tremenda “soluzione finale” del problema ebraico da pare del nazismo. E questo, sebbene nessuna di tali accuse abbia un benché minimo fondamento; e benché la Chiesa cattolica, specialmente nella persona del papa Pio XII, si sia prodigata per l’assistenza agli ebrei perseguitati dal nazismo, salvandone a migliaia da una morte certa.

In realtà, sin dai primi anni del Novecento, il partito degli amici del giudaismo, dentro la Chiesa cattolica, era diventato sempre più forte, dando origine, nel 1926, alla nascita dell’associazione sacerdotale Amici Israel, alla quale aderirono, sin dal primo anno di vita, diciotto cardinali, duecento arcivescovi e vescovi e circa duemila sacerdoti, tutti intenzionati ad imprimere un corso più favorevole alle relazioni della Chiesa con il giudaismo. Guarda caso, erano passati meno di dieci anni dalla famosa Dichiarazione Balfour del 2 novembre 1917, in cui il ministro degli Esteri della Gran Bretagna prometteva ad un soggetto privato, cioè Lord  Rotschild, e, tramite lui, al movimento sionista, la costituzione di un “focolaio nazionale” ebraico in Palestina: cioè prometteva agli ebrei, in modo assolutamente cinico e illegittimo, una terra dove vivevano pochissimi ebrei e che non apparteneva, all’epoca, né alla Gran Bretagna, né a una potenza a lei legata, ma all’Impero ottomano, alleato della Germania nella Prima guerra mondiale: prometteva una terra non britannica, ad un popolo che si era schierato dalla parte inglese nel corso del conflitto. E, naturalmente, la prima richiesta degli Amici Israel – dei quali faceva parte anche il futuro arcivescovo di Milano, Ildefonso Schuster – fu quella di modificare la preghiera del Venerdì Santo, e soprattutto di espungere l’aggettivo perfidis, onde, si disse, non alimentare l’equivoco che l’antigiudaismo teologico dei cattolici avesse qualche sia pur vaga parentela con l’antisemitismo biologico e razziale. Tale richiesta venne formulata anche per mezzo di un opuscolo, Pax super Israel, che venne stampato e distribuito in una gran quantità di copie.

Per fortuna, all’epoca la Chiesa aveva ancora un pastore dalle idee chiare e dai nervi saldi, Pio XI, il quale non si lasciò suggestionare o ricattare facilmente, ma passò la questione alla Congregazione dei Riti, perché la studiasse e desse il suo parere. Ne derivò un’aspra contesa fra Schuster, incaricato di occuparsi personalmente della cosa, e il cardinale Merry del Val, segretario del Santo Uffizio, il quale diede un parere nettamente negativo. In sostanza, l’obiezione centrale che la Curia avanzò alla proposta di modifica fu che una preghiera antichissima, consacrata nei secoli, approvata e confermata da decine di pontefici, non poteva essere espunta come fosse una cosa da nulla, perché se si comincia con una riforma liturgica, non ci si ferma più: parole veramente profetiche, come avrebbero mostrato le vicende del Concilio Vaticano II e quelle degli ultimi decenni, fino alla odierna “svolta” impressa alla vita della Chiesa dal pontificato di papa Francesco. La preghiera perciò non venne modificata e la parola perfidis non venne soppressa: prevalse l’opinione che i tempi non fossero maturi, e che, inoltre, nessuno poteva prendersi la responsabilità di cambiare una preghiera che tutti i predecessori di Pio XI, nessuno escluso, avevano trovato perfettamente legittima e consona alla dottrina cattolica e alla natura dei suoi rapporti con il giudaismo. Non solo: due anni dopo, nel 1928, la Congregazione per la Dottrina della Fede decise lo scioglimento dell’associazione Amici Israel e impose una vera e propria ritrattazione da parte dei firmatari della richiesta di intervento sulla preghiera del Venerdì Santo; anche se Pio XI personalmente volle aggiungere una precisazione in cui si specificava che la Chiesa non nutriva sentimenti di odio verso gli ebrei e disapprovava in maniera esplicita quanti li manifestavano. I quattro principali propugnatori della richiesta di riforma, fra i quali Schuster, dovettero presentarsi di fronte al tribunale del Sant’Uffizio e giustificare il loro operato, per poi ricevere una solenne ammonizione; il libretto venne posto all’Indice, mandato al macero e distrutto.

Le cose stavano a questo punto quando, dopo gli eventi della Seconda guerra mondiale, e l’indebolimento morale della figura di Pio XII a causa della campagna di stampa contro il suo “silenzio” circa il genocidio degli ebrei, tutta la questione tornò prepotentemente alla ribalta, in un clima generale molto cambiato rispetto agli anni ’20. Di sua iniziativa, nel 1959, Giovanni XXIII decise di togliere dalla preghiera per la conversione dei giudei sia l’aggettivo perfidis, sia il sostantivo perfidiam, con il risultato che la preghiera assumeva un tono assai più blando e perdeva sostanzialmente il suo carattere d’impetrazione per la salvezza dei giudei; tre anni dopo, nel 1962, la riforma del Messale toglieva definitivamente le espressioni contestate, così come esse sparirono dal nuovo Messale, entrato in vigore nel 1969 al posto di quello Tridentino. Nel frattempo, la dichiarazione Nostra aetate, del 28 ottobre 1965, nel clima profondamente cambiato del Concilio Vaticano II, sembrava dar ragione e “vendicare” l’iniziativa degli Amici Israel, già condannata nel modo che si è detto. Ed ecco la versione definitiva della preghiera per gli ebrei, nella traduzione dal latino della Conferenza Episcopale Italiana, durante il pontificato di Paolo VI: Preghiamo per gli ebrei: il Signore Dio nostro, che li scelse primi fra tutti gli uomini ad accogliere la sua parola, li aiuti a progredire sempre nell’amore del suo nome e nella fedeltà alla sua alleanza. Dio onnipotente ed eterno, che hai fatto le tue promesse ad Abramo e alla sua discendenza, ascolta la preghiera della tua Chiesa, perché il popolo primogenito della tua alleanza possa giungere alla pienezza della Redenzione. Un autentico capolavoro di equilibrismo diplomatico, come si vede: si parla di giungere alla pienezza della Redenzione, ma si lascia intuire che la Redenzione, almeno in parte, è già alla portata degli ebrei, perché essi furono i destinatari dell’Alleanza e quindi il popolo primogenito della Promessa. In mezzo a tanta enfasi sulla primogenitura degli ebrei, quasi scompare il concetto, assolutamente centrale nella teologia cattolica, fin dalle lettere di san Paolo, anzi, fin dai Vangeli, che la nuova Alleanza, quella stabilita fra Dio e gli uomini per mezzo del sangue dell’Agnello, cioè della Passione, Morte e Resurrezione di Gesù Cristo, sostituisce completamente l’antica, e che ormai, dopo tali eventi,  non ci sono più il giudeo e il non giudeo, ma ci sono solo quanti accolgono il Vangelo e quanti non lo accolgono. Non solo: sparisce qualsiasi riferimento al piccolo e quasi insignificante dettaglio che la Crocefissione di Cristo fu voluta dai Giudei, per cui pare che la Morte di Gesù sia avvenuta per qualche evento estemporaneo, forse un raffreddore o un incidente imprevisto. Tuttavia, se è giusto che si sia smesso di parlare degli ebrei come del “popolo deicida”, non è però giusto, a nostro avviso, che si sia completamente rovesciata la frittata, per cui i cattolici devono auto-censurarsi e far finta di nulla, quando si parla della Passione di Gesù, per timore di suscitare la permalosità dei giudei. I quali, da parte loro, si sono ben guardati dall’aprire un dibattito sulla ben più scioccante Birkat Ha Minim: cioè, mentre la Chiesa cattolica entrava quasi in crisi, al proprio interno, per decide se si dovesse o no togliere la parola “perfidi”, che, oltretutto, non significava “subdoli”, ma “increduli”, gli ebrei non si sono mai sognati di ripensare alle maledizioni quotidiane che le loro preghiere rituali rovesciano addosso ai discepoli del Nazareno. Ciò fa par parte della posizione di forza che essi hanno acquisito dopo la Seconda guerra mondiale, e soprattutto durante il Concilio Vaticano II, quando la loro massoneria, il B’nai B’rith, esercitò forti pressioni sulla commissione incaricata di redigere il testo della dichiarazione Nostra aetate, concepita inizialmente proprio come una revisione competa e radicale del rapporto fra cattolicesimo e giudaismo, naturalmente ribaltando tutta la prospettiva precedente e ponendo implicitamente  la Chiesa sulla difensiva, come se avesse delle gravi malefatte sulla coscienza, nei confronti degli ebrei, da farsi perdonare (cfr. il nostro precedente articolo Come il B’nai B’rith ha infiltrato e condizionato il Concilio Vaticano II, ripreso su vari siti internet).

Ci siamo più volte domandati quale sia stata la pietra che, smossa abilmente, ha messo in crisi la stabilità dell’intero edificio, due volte millenario, della Chiesa cattolica; crisi che sta toccando il culmine con la presente deriva liturgica, pastorale e dottrinale, in corso sotto il pontificato di papa Francesco, tale da far parlare di una vera e propria neochiesa, gnostica e massonica, sincretista e relativista, che sta proliferando, simile a un fungo velenoso, sul corpo della Sposa di Cristo. Ebbene, siamo giunti alla conclusione che la pietra d’angolo, tolta con malizia consapevole così da compromettere l’equilibri dell’intera Chiesa cattolica, è stata proprio l’espunzione della preghiera di cui abbiamo parlato: Oremus et pro perfidis Judaeis. Averla cambiata in maniera sostanziale, ha messo in moto un processo a valanga: perché, come bene aveva visto il tanto bistrattato (dagli storici modernisti) Merry del Val, la liturgia non è acqua fresca e, se si tocca quella, si rischia di aprire la strada a un processo incontrollabile di auto-demolizione. Non solo: toccando il nervo vitale del rapporto con il giudaismo, e quindi, per estensione, con le altre religioni, la modifica di quella preghiera ha contribuito alla relativizzazione della Verità cattolica e al riconoscimento, dapprima implicito, ora anche esplicito, della pluralità delle strade che portano alla salvezza. Ma allora sorge la domanda sul perché il Verbo divino si sia incarnato. Se molte sono le strade che portano alla Verità, e quindi alla salvezza, c’era bisogno che Gesù Cristo prendesse un corpo umano e soffrisse, morisse e resuscitasse? Pare proprio di no. Ed ecco che la Chiesa ha imboccato la strada della propria sconfessione e auto-eliminazione. A che serve, se Gesù non è venuto per la salvezza di tutti?

 

 

 

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