http://www.accademianuovaitalia.it/ 03/03/2009
Fino a che punto la nostra visione del mondo è una visione ebraica? di Francesco Lamendola
Le società occidentali sono, oggi, nel complesso, abbastanza forti da non dover temere per la preservazione della propria identità culturale?
Sarebbe difficile, per non dire impossibile, negare - anche volendolo - che la nostra idea dell'economia, della politica e della storia è indissolubilmente legata alla formulazione fattane da Karl Marx ne «Il Capitale» e negli altri suoi scritti teorici (a dispetto della recente caduta dei regimi politici che alla teoria marxista si ispiravano esplicitamente; ma la spinta propulsiva dell’ideologia marxista è ancora ben lungi dal potersi considerare esaurita). Del pari sarebbe difficile, se non impossibile, negare che la nostra visione della psicologia, della salute e della malattia mentale, dell'inconscio, è enormemente debitrice delle formulazioni fatte in proposito da Sigmund Freud, in opere decisive quali «L'interpretazione dei sogni», «Psicopatologia della vita quotidiana», «Totem e tabù». Infine, sarebbe del pari difficile, se non impossibile, negare che la nostra idea del mondo fisico in cui viviamo, delle sue leggi, del rapporto esistente fra la dimensione dello spazio e quella del tempo, deriva in massima parte dalla rivoluzionaria teoria della relatività (ristretta ed estesa) formulata da Albert Einstein, il quale, alle sue opere scientifiche, ha aggiunto anche una riflessione filosofica generale intitolata «Come io vedo il mondo». Marx, Freud, Einstein: sono tre giganti del pensiero, senza i quali è semplicemente impossibile concepire non solo la cultura moderna, ma la modernità stessa. Tutti e tre ebrei; più precisamente, tutti e tre ebrei tedeschi. Se poi ad essi si aggiungono una miriade di figure meno colossali, ma pur sempre notevolissime, abbraccianti la politica, l'economia, l'arte - da Benjamin Disraeli a Daniele Manin, da Giuseppe Toeplitz alla prestigiosa famiglia dei Rotschild, da Heinrich Heine a Italo Svevo (il cui vero nome era Aaron Hector Schmitz), da Marcel Proust a Franz Kafka, da Amedeo Modigliani a Steven Spielberg, da Trotskij a Zinoviev, da Joseph Roth a Marc Chagall, da Edmund Husserl a Gabriel Marcel, da Walter Rathenau a Umberto Saba, da Lorenzo Da Ponte a Charlie Chaplin, da Martin Buber a Roberto Assagioli (e potremmo continuare molto a lungo), ci si accorge, anche non volendo, che l'influsso esercitato dagli intellettuali ebrei sul mondo in cui viviamo è stato, ed è tuttora, veramente enorme. Si aggiunga poi l'altro influsso, quello esercitato dall'Antico Testamento e, attraverso di esso, dal cristianesimo stesso (senza dimenticare che Gesù e San Paolo erano ebrei; così come lo era, nel Cinquecento, e sia pure alla lontana, il famoso inquisitore Torquemada), nonché dai filosofi ebrei del Medioevo, in parte per la via della cultura araba, e infine dalla Kabbala e dalla tradizione esoterica di origine giudaica: e si avrà, crediamo, un quadro abbastanza realistico dell'immensa influenza esercitata sul mondo occidentale dal pensiero ebraico. Attenzione: non stiamo tentando di dimostrare nulla; niente a che vedere con la famosa teoria del complotto giudaico internazionale, finalizzato alla conquista del mondo. Stiamo solo prendendo in esame una serie di dati di fatto. Ci sembra già di sentire le indignate proteste di qualcuno: dove vogliamo andare a parare con un siffatto discorso? Quale insidia nascosta si cela dietro di esso, quale forma di malevolenza antiebraica, se non addirittura di antisemitismo?
Per carità, nessuna insidia e nessun secondo fine. Si immagini, per un momento solo, che Marx, Freud ed Einstein fossero stati, tutti e tre, di nazionalità francese; non solo, ma tutti e tre di una stessa regione della Francia. Forse che qualcuno non avrebbe rilevato una tale singolarità, e non si sarebbe domandato sino a che punto la nostra attuale visione del mondo non sia debitrice di quella cultura? Se, poi, Mosè, Gesù e San Paolo, l'«apostolo delle genti», fossero stati francesi (o, magari, Celti di nazione gallica), la cosa non sarebbe stata notata ancor di più, senza con ciò implicare il benché minimo sentimento razzista? Oppure si immagini che Marx, Freud ed Einstein fossero stati di nazionalità cinese; anzi, che tutti e tre provenissero da una determinata regione della Cina. Forse che qualcuno non avrebbe rilevato una tale singolarità? E, se la religione oggi più diffusa nel mondo fosse, per ipotesi, il confucianesimo: forse che nessuno si sarebbe posto il quesito se la nostra visione del mondo non sia, per caso, una visione essenzialmente cinese? E il fatto di porsi un tale interrogativo, senza trarre da ciò alcun elemento di insofferenza xenofoba, non sarebbe stato considerato perfettamente lecito e naturale? Si aggiunga che, per tornare agli Ebrei, l'influsso da essi esercitato sul pensiero e sulla storia mondiali non è riferibile solo ai nomi più noti e significativi, alcuni dei quali abbiamo sopra ricordati; ma - e ciò vale specialmente nell'ambito finanziario e in quello politico - anche e soprattutto a personaggi in apparenza secondari, i quali, però, divennero consiglieri e confidenti di sovrani, uomini di stato e banchieri di tutto il mondo, configurandosi come delle vere e proprie «eminenze grigie». Ciò, del resto, rientra perfettamente nella tradizione del giudaismo antico: basta leggere il libro di Ester per rendersi conto dei questa particolare tecnica del potere, consistente nel raggiungere posizioni di intimità e di fiducia alla corte di qualche potente monarca. Non fu la tecnica utilizzata anche dal profeta Daniele alla corte del re di Persia? E non fu la tecnica utilizzata dai Giudei di Roma per insinuarsi, tramite Poppea, alla corte di Nerone, spingendo l'imperatore alla prima persecuzione anticristiana della storia? Certo l'ebreo Disraeli, l'uomo più potente della Gran Bretagna - e, perciò, del mondo - nel XIX secolo, sapeva bene quel che diceva, quando confidava a un amico: «Se l'opinione pubblica potesse immaginare che la politica mondiale non è diretta affatto dagli uomini che essa ritiene detentori del potere; ma che dietro di essi vi sono personalità sconosciute al grande pubblico, le quali detengono il potere effettivo: ebbene, credo che rimarrebbe sgomenta». Non abbiamo alcuna intenzione - lo ripetiamo - di mettere in relazione queste riflessioni con il tentativo di spiegare l'insorgere dell'antisemitismo come fenomeno storico. Sta di fatto che, in determinate epoche storiche - ad esempio, quando l'identità e il futuro stesso di alcuni popoli europei si sono sentiti particolarmente minacciati, come nel caso della Germania dopo la grande crisi del 1929 - può essere che la presenza di una minoranza etnico-religiosa compatta, ben decisa a non integrarsi e capace di occupare posizioni eminenti nel mondo degli affari, della politica e della cultura, abbia generato sentimenti di preoccupazione, paura e avversione; e ciò, lo ripetiamo, senza che ciò implichi che una minaccia concreta esistesse realmente. Un’altra obiezione a quanto abbiamo fin qui detto potrebbe essere che l’origine comune di alcuni importanti pensatori, artisti e scienziati, non implica che la visione del mondo sottesa alle loro opere e alle loro scoperte presenti caratteri di uniformità dovuti, appunto, a quella origine. Questa obiezione si presenta, di primo acchito, come abbastanza plausibile; ma basta una brevissima riflessone per rendersi conto che si tratta di un sofisma. Non vogliamo affatto sostenere che la teoria della relatività sia una «teoria ebraica», oppure che lo sia quella della psicanalisi; e neppure il materialismo dialettico. Non si tratta per niente di «teorie ebraiche», ma di idee che hanno trovato il loro ambiente di nascita all'interno della cultura ebraica, anzi, della cultura ebraico-tedesca del XIX e dei primi anni del XX secolo. E chi trovasse strana o vagamente razzista questa affermazione, rifletta se non sia altrettanto corretto dire che l'opera di Shakespeare non può essere compresa fuori della cultura inglese; o che dalla cultura inglese non si può fare astrazione allorché ci si accosta alla teoria dell'evoluzione biologica (che, guarda caso, si è espressa per mezzo di due diversi studiosi britannici, giunti, indipendentemente l'uno dall'altro ma negli stessi anni, alle medesime conclusioni: Wallace e Darwin). Nessun essere umano, e tanto meno un intellettuale, può sottrarsi all’influenza del proprio retaggio culturale; per cui, negare che quest'ultimo eserciti un influsso sulla genesi dell’attività spirituale è un atto puramente ideologico. In altri termini, un italiano, un inglese o un tedesco tenderanno sempre a vedere il mondo attraverso le lenti della propria cultura, anche nel caso che si propongano di contestarla in modo radicale; e le loro opere, nel momento in cui divengono patrimonio spirituale dell’umanità, riflettono inevitabilmente la loro matrice culturale. Non solo: è illusorio pensare che un’opera del pensiero, dell’arte o una ipotesi scientifica siano sottratte ai condizionamenti culturali, in funzione della propria unicità e irripetibilità. Nessun atto del pensiero è «neutro»: nemmeno una ricerca scientifica o una teoria da esso scaturita. Pertanto, sia la teoria economica di Marx, sia la teoria psicanalitica di Freud, sia quella fisica di Einstein, non sfociano in una visione «oggettiva» della realtà, ma in una «interpretazione» di essa: ci danno il fenomeno (o per usare un linguaggio kantiano), non il noumeno, la cosa in sé. Ecco perché è lecito definire la nostra visione del mondo come largamente influenzata dalla visione ebraica della realtà. Dal Dio padre, ma anche giudice, dell’Antico Testamento, al Padre amato-odiato della psicanalisi, noi vediamo il mondo attraverso un particolare tipo di lente che è, in buona misura, determinato dalle categorie della cultura ebraica, della religiosità ebraica, del senso etico ed estetico proprio dell’ebraismo. Non vogliamo dire che vi sia qualcosa di male in questo: l’umanità è comunque debitrice verso i grandi del pensiero, dai quali riceve, in ogni epoca, la linfa vitale che ne forma l’atmosfera culturale e spirituale. Ma è, comunque, un fatto, e un fatto innegabile. L’immaginario collettivo dell’ultima generazione vede l’evento storico della Shoah essenzialmente attraverso la macchina da presa dell’ebreo Steven Spielberg: questo è un fatto, ed è un fatto innegabile. Non vogliamo dire che sia un male (come non è, di per sé, nemmeno un bene): è un dato di fatto; ma, in ogni caso, esso non corrisponde a una visione oggettiva delle cose. Dire che un fatto è un fatto, non equivale a dire che esso parla da solo. Al contrario: perché parli, bisogna farlo parlare. Il mondo in cui viviamo non è il mondo dei fatti, ma il mondo dei fatti che noi recepiamo e selezioniamo in un determinato modo, anziché in un altro («esse est percipi», diceva Berkeley). Il mondo in cui viviamo è il mondo dell’ermeneutica.
Uno dei maggior psicoanalisti americani del Novecento, Erik H. Erikson (discepolo d Anna Freud), nel suo libro «Infanzia e società», ha svolto alcune interessanti seguenti riflessioni sull’ebraismo come fenomeno socio-culturale di portata mondale (titolo originale: «Childhood and Society»New York, Norton & Co. Inc., seconda ediz. 1963; traduzione italiana di Luigi Antonello Armando, , Roma, Armando Editore, 1966, 1970, pp. 325-29):
«Oswald Spengler aveva già avanzata l’ipotesi che l’antisemitismo fosse soprattutto un problema di proiezione come se alla gente sembri che siano gli Ebrei a possedere quelle caratteristiche che essa non ama riconoscere in se stessa. E quella di un patto segreto con il Destino, di un patto che nascondeva sogni di conquista mondiale dietro lo sfoggio di una superiorità intellettuale, è invero un’idea molto tedesca. Sebbene le proiezioni siano distorsioni della verità suggerite dall’odio e dalla paura, di solito non manca loro una briciola di profondo significato. È vero che chi vede una pagliuzza nell’occhio altrui non scorge la trave che è nel proprio. Tuttavia di solito nell’occhio del vicino c’è qualcosa che si presta ad un ingrandimento. Non fu una coincidenza che in questo cruciale momento storico (in cui un “mondi uno” diventava una immagine reale, due mondi una inevitabile realtà) la più circondata delle nazioni civili [ossia la Germania, nota nostra] fosse suscettibile alla propaganda che la metteva in guardia contro le forze diaboliche della nazione più dispersa. Noi non cercheremo di dare qui una definizione dell’Ebraismo; ma dobbiamo domandarci occasionalmente che cosa è sembrato fare degli Ebrei il bersaglio preferito delle proiezioni più malate, e ciò non solo in Germania: anche in Russia si è recentemente assistito ad una violenta campagna contro gli “intellettuali cosmopoliti”. Gli Ebre facevano forse ricordare all’Occidente quei sinistri riti di sangue nei quali dio-padre chiede una parte del membro del ragazzo come segno di alleanza, quasi si trattasse d una tassa da pagare? La psicoanalisi ci dice che essi suscitano la “paura della castrazione” nei popoli che non hanno accettato la circoncisone come misura igienica e noi abbiamo visto come questa paura si ampliasse in Germania in quella più complessiva di arrendersi, di perdere la determinazione della propria adolescenza. Il fatto che gli Ebrei avessero abbandonata la loro patria e sacrificato il loro diritto alla difesa organizzata, giocava senza dubbio un ruolo in questo contesto: era come se in tal modo gli Ebrei avessero accettato di esser vittime non solo di Dio, ma anche dei paesi che li ospitavano. Io credo però che il problema dell’identità esposto in questo libro offra la possibilità di un’altra spiegazione. Il conflitto, universalmente diffuso, tra la rigidità difensiva e la flessibilità richiesta dalle esigenze dell’adattamento, tra il conservatorismo e il progressismo, si esprime presso gli Ebrei della Diaspora nell’opposizione di due tendenze: quella dell’ortodossia dogmatica e quella della capacità opportunistica d’adattamento. Queste tendenze naturalmente erano state favorite da secoli di dispersione. Noi possiamo a questo punto figurarcele rispettivamente in Ebrei di religiosità dogmatica e di cultura reazionaria per il quali il mutare ed il tempo non significano assolutamente nulla essendo la Lettera la sola realtà; ed in Ebrei nei quali la dispersione geografica e la molteplicità culturale sono divenute una sorta di seconda natura: per essi la relatività è l’assoluto ed il valore di scambio la forza. Esistono delle figure che possono essere considerate delle caricature viventi, come l’Ebreo barbuto nel suo caftano e Sammy Glick [nomignolo per l’ebreo americano tipico], e che incarnano la forma estrema d tali tendenze. La psicoanalisi ci mostra però che queste caratterizzano anche i conflitti inconsci di persone che non s considerano e non sono considerate ebree di razza. Per esse la Lettera può essersi trasformata in un credo politico o scientifico, molto diverso dal dogma talmudico, ma trattato con lo stesso spirito con cui i loro antenati citavano il Talmud; il valore di scambio può aver a sua volta assunto la forma di una preoccupazione ossessiva nei confronti del valore comparato dei valori stessi. Inizi modesti e circoscritti possono nel corso della storia elaborarsi e tradursi sul piano economico e professionale: così gli Ebrei, limitandosi alle attività nelle quali erano più versati, appresero a perfezionarsi in altre attività e non furono più soltanto i tradizionali commercianti d beni, ma anche mediatori della cultura, gli interpreti delle arti e delle scienze, i risanatori di conflitti spirituali. Essi traggono forza in tutti questi contesti dal loro senso della relatività. Quanto abbiamo detto può dare anche un’idea delle debolezze degli Ebrei. Infatti, quando il senso della relatività diviene irresponsabile, si trasforma in cinico relativismo, laddove la relatività di cui parla il genio ebreo, forgiato dai secoli ad una tradizione di tranquillo coraggio, è quella dei valori noti in rapporto a qualcosa di superiore ad essi. Noi abbiamo osservato che letica cristiana è fondata sulla subordinazione radicale di questo ad “un altro” mondo, degli imperi mondani al Regno di Dio; quando Hitler diceva che la coscienza ebrea era una specie di macchia, egli si riferiva quindi anche al cristianesimo ed alla sua dottrina del peccato e della salvezza. Nell’epoca moderna il carattere libero della scelta dei valori e dell’esercizio dell’intelletto nell’uomo sono state messe in forse dalle teorie di tre Ebrei. La teoria marxista del determinismo storico stabilisce il fatto che i nostri valori sono inconsapevolmente determinati dai modi in cui ci guadagniamo da vivere, il che è una verità psicologica che naturalmente non s’identifica con la dottrina politica del marxismo la quale del resto ha assunto forme diverse nei diversi paesi. In psicologia la teoria freudiana dell’inconscio ha dimostrato con sufficiente chiarezza che noi non conosciamo il significato delle nostre motivazioni. Infine la teoria di Einstein della relatività ha posto le basi per una trasformazione della fisica dimostrando che le nostre misure sono relative a ciò che misuriamo. È quindi forse una coincidenza storica che Marx, Freud ed Einstein, che hanno fornito ed anzi personificato la revisione delle basi stesse del pensiero umano, siano tutti e tre di origine ebraico-tedesca? È chiaro che le teorie di questi tre uomini, così diversi sotto vari aspetti, hanno spinto all’estremo la crisi culturale e scientifica dell’Europa non solo perché erano Ebrei, ma perché essi erano insieme Ebrei, Tedeschi ed europei. Le epoche ed i paesi forti assimilano i contenuti ebraici perché il loro senso di identità si sente rinsaldato dalle definizioni progressive. Ma nelle epoche caratterizzate da un’ansia collettiva la sola ipotesi della relatività suscita la paura soprattutto nelle classi prossime a perdere il loro prestigio e la loro autostima. Queste, nello sforzo di dare una base al loro conservatorismo, si afferrano con ferocia ed ottusità a quei pochi assoluti che possono sperar di salvare. È a questo punto che l’antisemitismo paranoide viene fomentato da agitatori di vari intenti ed estrazioni i quali sfruttano la codardia e la crudeltà delle masse. Io ritengo che solo l’importanza vitale del problema dell’identità possa far luce sul fatto che milioni di tedeschi parteciparono ed in numero molto maggiore s’adeguarono alla “soluzione tedesca del problema ebraico”, i cui metodi si oppongono alla comprensione fino al punto che, tranne dei conati abortivi, nessuno, sia esso Tedesco, Ebreo, o altro, può oggi conservar viva una reazione emotiva ad essi. Questo, quindi, è stato il più grande successo del genio mitologico tedesco: creare una realtà che sembra impossibile anche a coloro che l’hanno sperimentata. L’organizzazione politica e militare del nazionalsocialismo è spezzata. Ma la forma della sua disfatta porta con sé le premesse della sua resurrezione. Ancora una volta infatti la Germania è stata divisa contro se stessa e la formazione di una identità politica tedesca è stata ancora una volta rimandata, forse con conseguenze fatali. Ancora una volta la coscienza tedesca si trova nella condizione di dover passivamente commisurare due morali e domani essa può pretendere di nuovo ad ergersi a giudice di coloro che le pongono di fronte tali morali. Perché anche la sconfitta totale può nutrire un senso di assoluta unicità suscettibile di esser sfruttato ancora una volta da chi può offrire un’illusoria promessa di forza, di unità e di identità redentrici di un passato vano. Chiunque fa oggetto della sua speranza e della sua azione un’Europa capace d provvedere alla Germania un destino di pace, deve anzitutto comprendere il dilemma in cui si trova la sua gioventù e la gioventù di molti altri paesi nei quali delle identità nazionali abortive sono poste di fronte al compito di integrarsi in un’identità industriale comune a tutto il mondo. E’ per questa ragione che io ho estesa la mia indagine al periodo precedente l’ultima guerra mondale; non dobbiamo infatti dimenticare quel periodo fintanto che le forze che erano attive in esso non abbiano dato prova di essere state asservite alla creazione di un ordine nuovo.»
Ma, al di là delle considerazioni di Erikson circa le condizioni affinché si formi l'ambiente adatto per l'insorgere dell'antisemitismo, come espressione della crisi d'identità di un certo tessuto socio-culturale (e la Germania tra le due guerre mondiali costituiva certamente un ambiente del genere), resta il fatto che la visione del mondo sottesa all'opera di Marx, Freud ed Einstein (ma anche di Kafka, Svevo, Proust, Roth) si può correttamente qualificare come «cultura della crisi» (non necessariamente nel senso negativo del termine) e che come tale essa venne recepita da larghi strati del pubblico e dell'intellighenzia non ebraica occidentale. Il senso della precarietà, dello smarrimento dei valori tradizionali, della frammentazione dell'io; il senso di un premere minaccioso di forze potenti, di natura inconscia, che paiono sul punto di irrompere nella nostra vita lucida e razionale; la svalutazione degli aspetti spirituali della vita, in nome di un realismo che riduce a falsità e ipocrisia ogni motivazione non economica; l'ambiguo sentimenti di attrazione e repulsione, di odio e amore, verso la figura paterna, compresa quella grande figura paterna che la religione chiama Dio; il senso, infine, dello sradicamento dell'individuo e della sua totale, irrimediabile alienazione da parte di un mostruoso meccanismo anonimo e impersonale, che tutto appiana e tutto livella sulla misura della massa e secondo la logica del profitto: tutto questo si può cogliere nella «cultura della crisi», che, negli ultimi centocinquant'anni, si è espressa largamente per bocca di intellettuali ebrei. Queste riflessioni non alludono a un disegno complessivo di destabilizzazione della società occidentale, se non altro perché sarebbe assurdo considerare l'ebraismo come un blocco solidale e indifferenziato, mentre è vero che, al suo interno, esistevano ed esistono differenze anche notevoli, che solo in senso generale possono essere ricondotte ad una radice comune. Ad ogni modo, e nonostante (o forse appunto per) la comune origine religiosa, l'Occidente cristiano, di tempo in tempo, stenta ad assimilare queste dosi massicce di cultura ebraica e tende a reagirvi; se è vero, come è vero, che sintomi d'insofferenza precedono e accompagnano tutta la storia dei rapporti fra Occidente ed ebraismo, senza identificarsi necessariamente con l'antisemitismo vero e proprio. Accenni pungenti verso la mentalità ebraica si possono cogliere in moltissimi intellettuali europei, da Shakespeare a Bakunin, passando - come è noto - per lo stesso Marx, che, pur essendo ebreo (ed ateo), scrisse pagine molto dure verso i suoi ex correligionari. Che altro dire? È perfettamente vero quel che diceva Spengler (che osò sfidare il nazismo non sostenendo la sua campagna antisemita, anche se ebbe la ventura di morire prima di dover subire le conseguenze della propria audacia) circa il fatto che noi odiamo coloro nei quali riconosciamo una parte di noi che non ci piace. Ed è altrettanto vero che, come sostiene Erikson, una società forte dei propri valori culturali non teme la «sfida» del pensiero cosmopolita, anche quand'esso appaia corrosivo e portatore di valori discutibili. Il punto, però, è proprio questo. Le società occidentali sono, oggi, nel complesso, abbastanza forti da non dover temere per la preservazione della propria identità culturale?
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