Fonte:   http://rt.com/

http://znetitaly.altervista.org

24 settembre 2013

 

La tragedia di Nairobi: una carneficina preannunciata

di Andre Vltchek

Traduzione di Giuseppe Volpe

 

Avevano avvertito che avrebbero attaccato e hanno mantenuto la parola. Dopo l’invasione keniota della Somalia il 16 ottobre 2011, Al-Shabaab ha ripetutamente minacciato di attaccare “grandi edifici” a Nairobi, in quella che considera una rappresaglia legittima per le dozzine di civili uccidi dalle forze armate keniota operanti nella Somalia meridionale.

L’attacco è arrivato il 21 settembre 2013, quando un’unità pesantemente armata di Al-Shabaab ha guidato le sue auto dall’aspetto ordinario all’ingresso dell’esclusivo centro commerciale di Nairobi “Westgate”, poi si è aperta la strada con le armi all’interno del complesso innaffiando di raffiche di mitra l’intero atrio e lanciando bombe a mano. Centinaia di clienti del sabato sono rimasti immobilizzati per l’orrore. Molti sono morti nella prima ora.

Ai mussulmani è stato consentito di uscire, ma prima dovevano dimostrare la loro fede recitando parti del Corano. Quelli che non erano in grado di farlo sono stati uccisi, giustiziati a bruciapelo, sul posto. Bambini che cercavano di fuggire, alcuni anche di cinque anni, sono stati uccisi.

 

Poi sono stati presi ostaggi, forse diverse centinaia.

Il centro più lussuoso dell’Africa Orientale è stato trasformato in un campo di sterminio, in una frazione soltanto di quella sventurata mattina.

La signora Mitsue Uemura, Specialista Regionale dell’Istruzione per l’UNICEF, era sul luogo e in seguito ha ricordato:

“La mia famiglia ed io eravamo al Centro Westgate nella tarda mattina di sabato. Avevamo passato un mucchio di tempo a sfogliare libri nella libreria al primo piano. Poi tutto ad un tratto abbiamo sentito numerose forti esplosioni dal piano inferiore e anche da sopra di noi, ma all’inizio non eravamo sicuri di cosa si trattasse. La gente ha cominciato a correre cercando di uscire e ho sentito urla e improvvisamente c’è stata una grande confusione tutto attorno a noi. Siamo rimasti bloccati per due ore ma alla fine siamo stati scortati in sicurezza fuori dal centro dalla polizia.”

Sono stati fortunati. Saveer, un giovane dentista che in seguito ha salvato molte vite guidando l’esercito nel complesso assediato, mi ha detto lunedì 23 settembre:

“Quello che ho visto attorno a me è stato sconvolgente … al piano terra, al Cafè Dorman’s, c’erano ancora tazzine di espresso e cappuccino sui tavoli. Erano intatte. Ma tutto attorno le persone erano morte, sparpagliate su tutto il pavimento.”

 

***

 

La follia e la brutalità dell’attacco hanno scosso il mondo. Le immagini di persone terrorizzate, di sangue e fumo, delle forze armate keniote e della polizia pesantemente armata hanno inondato gli schermi televisivi in Europa, Nord America, dovunque.

Sfortunatamente la maggior parte dei servizi ha trattato l’attacco fuori dal complesso e crudele contesto dell’Africa Orientale.

 La Somalia sta sanguinando. E’ destabilizzata da decenni, invasa da numerosi paesi, tra cui l’Etiopia e il Kenia, per conto delle potenze e degli interessi occidentali.

Già nel 2010, un anno prima dell’invasione keniota della Somalia, il mio amico e leader dell’opposizione keniota Mwandawiro Mghanga, capo del Partito Socialdemocratico ed ex parlamentare, prevedeva problemi:

“… guarda la nostra politica estera, il nostro coinvolgimento in Somalia per conto degli Stati Uniti. Il modo in cui procede proprio ora può solo causarci grandi mali. Siamo quelli che pagheranno il prezzo più alto per aver seguito le istruzioni e difeso gli interessi statunitensi nella regione … Un altro fattore che rende questo così importante è che in questa parte del mondo la Somalia, in particolare, è sospettata di avere un’enorme quantità di petrolio nel sottosuolo. Non è esplorata a causa della situazione della sicurezza, ma c’è. C’è un mucchio di petrolio nel Kenya settentrionale in prossimità del confine con la Somalia, un’altra area strategica.”

Mwandawiro mi ha poi informato dei numerosi tentativi fatti in passato dai politici kenioti di mediare accordi di pace in Somalia. Ha spiegato come l’occidente li ha silurati.

Un anno dopo numerosi operatori degli aiuti e turisti sono stati rapiti dal campo profughi di Dadaab (creato prevalentemente per profughi somali) e dalla costa.

I sequestri erano chiaramente un preludio ben orchestrato all’invasione. In seguito il Guardian ha riferito l’8 novembre 2011:

“Il piano keniota d’intervento era stato discusso e deciso nel 2010 e poi completato con apporti di partner occidentali, tra cui gli Stati Uniti e, in misura minore, la Francia, con Nairobi che ha usato i rapimenti come pretesto per lanciare un’operazione già pronta a partire.”

Ho indagato ulteriormente, sia nei campi profughi di Dadaab sia attorno alla città di Lamu, sulla costa, arrivando alla conclusione che non c’era assolutamente alcuna prova che Al-Shabaab fosse coinvolto in alcuno dei sequestri citati. I suoi leader hanno negato con forza qualsiasi partecipazione. Molti lavoratori internazionali presso il campo di Dadaab si sono spinti sino ad affermare che i rapimenti erano stati attuati dallo stesso governo keniota, una convinzione largamente condivisa dai residenti delle comunità costiere.

Una delle giustificazioni ufficiali dell’invasione keniota è stata la presunta richiesta dell’allora Governo Federale di Transizione (TFG) della Somalia. Ma appena le truppe keniote sono penetrare in territorio somalo a nord del confine, anche il TFG, sostenuto dall’occidente, ha cominciato a protestare contro l’invasione e il presidente somalo del TFG, Sharif Sheikh Ahmed, ha dichiarato che la sua “amministrazione e il popolo della Somalia si oppongono alla presenza di truppe keniote poiché il governo federale somalo ‘non ha alcun accordo con il Kenya, salvo la sua collaborazione con noi nella logisticaà”, come è stato riferito da ABC News (Australia) il 25 ottobre 2011.

 

***

 

Il Kenya è un devoto alleato dell’occidente nella regione. Non solo sta oggi occupando parte della Somalia (sta attualmente contribuendo a fare della Jubba Land, ricca di petrolio, un’entità autonoma o un qualche genere di ‘protettorato’) ma è anche coinvolto profondamente nel Sud del Sud di nuova indipendenza.

 

Global Security ha informato:

Sin dal 2005 è stato riferito che truppe statunitensi erano state schierate a Lamu, Kenya, come parte della Forza Speciale Congiunta Corno d’Africa, composta da 1.500 uomini. Con il confine somalo a circa cento chilometri a nord di Lamu, gli ufficiali statunitensi erano ansiosi di accettare l’invito del Kenya a rafforzare le sue difese di terra e di mare. A volte le truppe statunitensi hanno marciato in piena tenuta da combattimento lungo gli stretti viali di Lamu in una dimostrazione di forza. La città costiera di Lamu è frequentemente il luogo di grandi esercitazioni militari congiunte statunitensi-keniote. Gli USA hanno costruito una base aerea militare a Manda Bay, in Kenya. Le truppe statunitensi sono di stanza a Camp Simba, una base navale keniota situata sulla costa sabbiosa del paese.

Mentre lavoravo nelle isole tra Lamu e il confine somalo mi è stato detto da pescatori che nelle comunità locali c’era paura e che avvenivano sequestri e interrogatori da parte di equipaggi di motoscafi composti da soldati dall’aspetto keniota e occidentale.

La Somalia destabilizzata allora trasferisce centinaia di migliaia di profughi in tutti gli angoli del mondo, ma principalmente attraverso il confine con il Kenya. Ho scritto e diretto un lungometraggio ‘One Flew Over Dadaab’ [Qualcuno volò sopra Dadaab]  che affrontava il calvario delle persone nel più grande campo profughi della terra (due anni fa ospitava più di mezzo milione di persone che vi vivevano, ora molte di più) in cui un’intera giovane generazione di profughi non vedeva altro che sabbia del deserto, cespugli secchi e filo spinato.

A Dadaab e altrove mi sono state raccontate innumerevoli storie sulla brutalità delle forze keniote in Somalia. Ma oggi non c’è accesso a Jubba Land; nessun modo per verificare le notizie e i resoconti dei testimoni. L’intera area è sigillata.

 

***

 

Tutto questo naturalmente non giustifica gli attacchi, la brutalità e la ferocia dell’attacco.

Ma illustra chiaramente il fatto che l’intera area è malata, danneggiata, in agonia.

In uno stato mentale normale le persone non si tirano addosso reciprocamente bombe a mano; non lo fanno per allegria.

Mentre ero all’ingresso del Westgate, sabato sera, un keniota-indiano con gli occhi arrossati stava gridando ai soldati:

“Mia moglie è là dentro  … e mia figlia di due anni! Mia moglie è probabilmente morta! Cosa avete fatto? Lasciatemi entrare! Lasciatemi andare a cercarle!”

Pioveva forte. I soldati cercavano di calmarlo, ma la sua disperazione non aveva limiti. Le lacrime gli inondavano il volto e a un certo punto si è liberato e in totale disperazione è corso verso il Westgate e dentro la notte.

I racconti a proposito del Westgate sono strazianti.

Nei due giorni che ho trascorso a occuparmi di questo scontro ci sono state forti esplosioni e sparatorie, pallottole che volavano vicino, forse troppo vicino.

C’erano congetture su se il capo dell’attacco fosse quella donna inglese, la cosiddetta “vedova bianca”, che aveva perso suo marito nel corso dell’attacco terroristico alla metropolitana di Londra.

Infine oggi, martedì, il governo keniota ha annunciato che ci sono un cittadino britannico e due cittadini statunitensi che hanno partecipato all’attacco.

 E ci sono state infinite congetture, e persino conferme, che all’intervento per riprendere il centro commerciale partecipino forze israeliane e statunitensi.

 

Ci sono state anche ipotesi sul numero dei combattenti, sul numero dei soldati kenioti morti (mi è stato detto confidenzialmente che sono stati sei), sugli ostaggi morti. Il numero è 68 o 69? Quanti sono stati feriti, duecento o più?

E continuo a pensare sotto pioggia, come aspettando qualcosa, o gettandomi a terra per evitare le pallottole … sto pensando: conta davvero? 68 o 69 o 75; la questione qui è quella delle cifre esatte?

 

Nessuno parla dell’essenza. Che cosa sta succedendo alla Somalia e che cosa sta succedendo al Kenya? Perché l’Africa Orientale e quella Centrale stanno nuovamente urlando e sono schiacciate dall’imperialismo occidentale?

Nessuno parla delle centinaia di migliaia di coloro che sono morti in Somalia, dei milioni di vite rovinate. Nessuno parla dei quasi dieci milioni che sono già morti nella Repubblica Democratica del Congo. Che ruolo ha il Kenya nel consentire la militarizzazione di questa parte del mondo, collaborando così strettamente con gli ex padroni coloniali?

 

***

 

E’ martedì e la polizia keniota fa una dichiarazione reboante: “Abbiamo trionfato!”

In precedenza il governo afferma “non ci sono più ostaggi all’interno del complesso”.

L’esercito si vanta di avere il controllo di tutti i piani del Westgate.

Tuttavia gli elicotteri ancora sorvolano il complesso e ci sono esplosioni e altri soldati che entrano nel centro.

Non si può mai essere sicuri. Ma quello che sappiamo è forse sufficiente per immaginare il  quadro completo.

Destabilizzata dall’occidente, la Somalia è stata invasa dalle forze keniote nel 2011. Migliaia di innocenti sono morti da allora. Migliaia di persone poverissime, prevalentemente disperate, sono scomparse, ben lontano dalle cineprese e dalle macchine fotografiche. Poi un centro commerciale di lusso di Nairobi è attaccato e circa cento persone sono uccise. Ci sono troupe di ripresa e giornalisti di tutto il mondo adesso, e le notizie sono trasmesse sugli schermi televisivi di tutto il mondo.

Perché queste sono persone, persone vere, persone che meritano la nostra simpatia e la nostra attenzione! Molti membri della comunità degli espatriati avevano frequentato il Centro Westgate, compresi dipendenti dell’ONU, diplomatici e uomini d’affari.

Quelli che muoiono oltre il confine sono, per usare il termine di George Orwell, “non persone”. La loro vita e la loro morte non significano nulla per gli spettatori della televisione.

Come sempre, ci è consentito di vedere solo metà della storia. E nel caso della tragedia del Westgate, anche quella metà può essere osservata solo da una considerevole distanza.

 


Andre Vltchek è un romanziere, regista e giornalista d’inchiesta. Si è occupato delle guerre e dei conflitti in dozzine di paesi. La sua discussione con Noam Chomsky ‘On Western Terrorism’ [Sul terrorismo occidentale] sta attualmente andando in stampa.  Il suo romanzo politico acclamato dalla critica ‘Point of No Return’ [Punto di non ritorno] è stato ora ripubblicato ed è disponibile. ‘Oceania’ è il suo libro sull’imperialismo occidentale nel Pacifico meridionale.  Il suo libro provocatorio sull’Indonesia post-Suharto e il modello fondamentalista del mercato s’intitola “Indonesia – The Archipelago of Fear”  [Indonesia – l’arcipelago della paura] (Pluto).  Ha appena completato il suo documentario “Rwanda Gambit” [Il gambetto ruandese] sulla storia del Ruanda e il saccheggio della Repubblica Democratica del Congo. Dopo aver vissuto per molti anni in America Latina e in Oceania, Vltchek attualmente risiede e lavora nell’Asia Orientale e in Africa.

 


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