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«Hanging man, un viaggio nel Weiwei-pensiero» |
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Il Saggiatore 2013 Pechino, 2011. È sera quando un uomo viene scaricato sulla soglia di casa dalla polizia. Si regge con le mani i pantaloni rimasti senza cintura. Sembra stordito, forse ha paura. Un giornalista gli si avvicina ma lui farfuglia solo poche parole, si schermisce: non può rilasciare interviste e spera nella comprensione dei media. È il 22 giugno e Ai Weiwei torna a casa dopo 81 giorni di reclusione. Due mesi prima, l’opinione pubblica mondiale aveva reagito con sconcerto alla notizia dell’arresto del più famoso artista cinese vivente, simbolo di una nuova cultura in lotta per la libertà di espressione in Cina: la fama internazionale, esplosa nel 2010 con l’installazione Sunflower Seeds alla Tate Modern, non era bastata a proteggere quel tenace contestatore dall’aspetto bonario. Attraverso l’arresto di Weiwei, il mondo intero si confrontava con la violenza del regime cinese per l’assenza di diritti fondamentali dell’individuo, per le detenzioni senza un processo che verifichi la responsabilità dei reati, per la sostanziale mancanza di uno stato di diritto. Le parole di Ai Weiwei raccontano i pedinamenti degli agenti in borghese, la detenzione e il rilascio, le angherie del governo, la rabbia e la frustrazione, ma anche le idee e i nuovi progetti; Barnaby Martin le raccoglie una a una nelle stanze dello studio di Pechino. Insieme ricostruiscono la vita dell’artista: l’infanzia con la madre e il padre Ai Qing poeta amatissimo in patria e le peregrinazioni dopo la rottura di Qing con Mao; l’adolescenza e i primi anni a Brooklyn con la scoperta di Jasper Johns, Andy Warhol e Marcel Duchamp alla ricerca di un proprio stile. E poi le opere: la pittura, le creazioni protodadaiste, le performance ironiche e le opere concettuali che obbligano lo spettatore a riflettere sulla realtà, per immaginare e realizzare il cambiamento. Hanging Man è la testimonianza del coraggio con cui Ai Weiwei ha saputo riprendere la contestazione dopo il suo rilascio, nonché la prova della determinazione con cui Barnaby Martin, senza temere ritorsioni, ha dipinto un affresco sulla Cina moderna, sul suo artista più grande, sulle condizioni dei suoi intellettuali e sullo stato psicologico del partito al governo.
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Il Venerdì di Repubblica «Hanging man, un viaggio nel Weiwei-pensiero». Pechino, 2011. È sera quando un uomo viene scaricato sulla soglia di casa dalla polizia. Si regge con le mani i pantaloni rimasti senza cintura. Sembra stordito, forse ha paura. Un giornalista gli si avvicina ma lui farfuglia solo poche parole, si schermisce: non può rilasciare interviste e spera nella comprensione dei media. È il 22 giugno e Ai Weiwei torna a casa dopo 81 giorni di reclusione. Due mesi prima, l’opinione pubblica mondiale aveva reagito con sconcerto alla notizia dell’arresto del più famoso artista cinese vivente, simbolo di una nuova cultura in lotta per la libertà di espressione in Cina: la fama internazionale, esplosa nel 2010 con l’installazione Sunflower Seeds alla Tate Modern, non era bastata a proteggere quel tenace contestatore dall’aspetto bonario. Attraverso l’arresto di Weiwei, il mondo intero si confrontava con la violenza del regime cinese per l’assenza di diritti fondamentali dell’individuo, per le detenzioni senza un processo che verifichi la responsabilità dei reati, per la sostanziale mancanza di uno stato di diritto. Le parole di Ai Weiwei raccontano i pedinamenti degli agenti in borghese, la detenzione e il rilascio, le angherie del governo, la rabbia e la frustrazione, ma anche le idee e i nuovi progetti; Barnaby Martin le raccoglie una a una nelle stanze dello studio di Pechino. Insieme ricostruiscono la vita dell’artista: l’infanzia con la madre e il padre Ai Qing poeta amatissimo in patria e le peregrinazioni dopo la rottura di Qing con Mao; l’adolescenza e i primi anni a Brooklyn con la scoperta di Jasper Johns, Andy Warhol e Marcel Duchamp alla ricerca di un proprio stile. E poi le opere: la pittura, le creazioni protodadaiste, le performance ironiche e le opere concettuali che obbligano lo spettatore a riflettere sulla realtà, per immaginare e realizzare il cambiamento. Hanging Man è la testimonianza del coraggio con cui Ai Weiwei ha saputo riprendere la contestazione dopo il suo rilascio, nonché la prova della determinazione con cui Barnaby Martin, senza temere ritorsioni, ha dipinto un affresco sulla Cina moderna, sul suo artista più grande, sulle condizioni dei suoi intellettuali e sullo stato psicologico del partito al governo. |
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http://www.internazionale.it Hanging Man Luglio 2011. Ai Weiwei si trovava agli arresti domiciliari a Pechino. Era appena uscito dal carcere, aveva il divieto di parlare sia con i giornalisti sia con gli altri dissidenti; era obbligato a riferire ai suoi sorveglianti ogni minimo spostamento intendesse compiere e, quando riusciva a uscire di casa, veniva pedinato da agenti in borghese. Non corrispondeva proprio alla «libertà» che sperava ma, come avrei scoperto in seguito, era una situazione infinitamente migliore di quella che aveva sperimentato in carcere. Come migliaia di altre persone nel mondo, avevo visto le riprese che mostravano l’artista più famoso della Cina scaricato dalla polizia, senza troppi riguardi, sulla soglia di casa, costretto a reggersi con una mano i pantaloni senza cintura. Era apparso intimorito e in stato di choc, era riuscito appena a farfugliare poche parole ai giornalisti, mentre si infilava nel suo cortile attraverso le porte di acciaio: non poteva rilasciare interviste e che sperava nella loro comprensione. Nonostante tutti gli sforzi compiuti dal Partito comunista cinese per dare della Cina l’immagine di una nazione moderna, a pieno titolo inserita nella comunità internazionale, il dissenso ancora non poteva essere tollerato; di fatto, i tentativi di migliorare l’immagine della Cina agli occhi del mondo non erano altro che, come aveva detto Weiwei a proposito dei Giochi olimpici di Pechino «un falso sorriso». Chiunque avesse osato oltrepassare la linea sottile e invisibile che segnava il confine tra ciò che era permesso e ciò che non era permesso sarebbe stato comunque arrestato, a prescindere da quanto famoso o importante fosse. Per tutti coloro che, in Cina e nel mondo, ammiravano Ai Weiwei proprio per essere stato una delle poche persone ad aver avuto il coraggio di criticare pubblicamente il governo cinese, si trattava di un momento spaventoso, oltre che particolarmente demoralizzante. Qualche anno fa, nel mondo occidentale, il grande pubblico non sapeva quasi niente di quest’uomo un po’ strano, dall’aspetto vagamente simile a quello di un orsacchiotto, con la barba lunga da saggio, che ridacchiava spesso e creava opere d’arte incomprensibili. Nel complesso, era decisamente sui generis. Anche a coloro che facevano parte del mondo dell’arte contemporanea appariva come un soggetto quantomeno singolare. A una prima occhiata poteva facilmente essere scambiato per una versione moderna e cinese di un dadaista, ma, ammesso che potesse essere considerato un dadaista, il suo era un dadaismo che aveva come sfondo un paese che sembrava un incrocio tra il Mondo nuovo di Aldous Huxley e 1984 di George Orwell. Si sapeva anche che era un attivista politico e che teneva un blog, in una società dove fare attivismo politico e tenere un blog era, quasi sempre, una mossa fatale per la propria carriera. Nel 2010 l’installazione Sunflower Seeds alla Turbine Hall della Tate Modern lo rese noto in tutto il mondo e spinse molti ad avvicinarsi al suo lavoro. Ciò che queste persone scoprirono furono strani oggetti e installazioni bizzarre. Sembrava che Ai Weiwei si fosse specializzato nell’alterare, giocherellando, tutti quegli oggetti banali, quotidiani, che fanno da sfondo all’esistenza: sedie e sgabelli che si scontrano fondendosi tra loro (Grapes), sedie fatte di marmo, porte di marmo, una scarpa a doppia punta (One Man Shoe), una telecamera a circuito chiuso in marmo, centinaia di blocchetti in oro e bronzo a forma di mattoncini di carbone simili ad alveari (Coal Hives) disseminati sul pavimento, biciclette impilate le une sulle altre e disposte in cerchio, centinaia di vasi neolitici ricoperti di pittura industriale. Vi erano poi opere di dimensioni più ampie: Fairytale, per esempio, creata nel 2007 per Documenta 12, nella quale furono coinvolti 1001 cinesi che, per una settimana, vagarono per le vie di Kassel, in Germania. Oppure Remembering, l’inquietante affresco realizzato sulla facciata della Haus der Kunst di Monaco, nell’ambito della retrospettiva So Sorry del 2009: novemila zainetti di altrettanti bambini andavano a comporre le tragiche parole «Lei visse felice su questa terra per sette anni». La citazione veniva da una delle madri che avevano perso i propri figli nel terremoto del Sichuan del 2008, quando migliaia di bambini morirono sotto le macerie degli edifici scolastici che, malamente costruiti, crollarono sulle loro teste. Le sue opere erano serie ma anche, a volte, irriverenti; originali, ma anche banali. Gli oggetti quotidiani venivano trasformati dal suo tocco, così da apparire sotto una luce nuova e misteriosa. Si aveva l’impressione che, nel corso di tre decenni, Ai Weiwei fosse riuscito a creare una sorta di aldilà quasi impercettibile, ma che aveva l’effetto di obbligare le persone a tornare con lo sguardo sulla realtà e vederla con occhi nuovi. Non fu però questo trastullarsi con gli oggetti della quotidianità a mettere Ai Weiwei nei guai con il governo cinese. I veri problemi cominciarono quando la sua arte divenne tutt’uno con l’attivismo politico, con le sue campagne a favore di una maggiore trasparenza e responsabilità del governo, e per la libertà di espressione. È impresa ardua rendere conto, in modo esaustivo, della portata del suo impegno extrartistico prima dell’arresto; in alcuni momenti aveva più di millecinquecento persone che lavoravano per lui. L’arte era solo una delle molteplici manifestazioni della sua energia e della sua personalità: l’arte, l’architettura, il blog, i libri, la politica erano tutte espressioni naturali e complementari. Era, innanzitutto, un demiurgo vulcanico con un programma profondamente radicale. Fino al momento del suo arresto, si sono spesso sottovalutate la carica propulsiva e la vera potenza del programma di Weiwei, forse perché, a causa del suo humour e della sua intelligenza, era stato da taluni considerato un personaggio beffardo e irriverente, una sorta di clown duchampiano. In realtà, sotto la superficie, si celava qualcosa di gran lunga più profondo e solenne: Weiwei si era dato una missione, il cui obiettivo dichiarato era il cambiamento della Cina. Come una Furia della mitologia greca, egli è, al tempo stesso, figlio e nemesi del proprio tempo. Qualche giorno dopo il rilascio di Weiwei, feci varie telefonate a Pechino. Nessuno dei miei contatti gli aveva ancora parlato. Rifiutava qualsiasi intervista perché aveva paura che, se avesse parlato, sarebbe stato riportato in carcere per aver violato le condizioni del rilascio su cauzione, e ciò che temeva sopra ogni altra cosa era un nuovo arresto. Non avevo altra scelta: presi il telefono e composi il suo vecchio numero. Immaginavo che la polizia gli avesse confiscato il cellulare, o che comunque gliel’avessero spento, invece, con mia grande sorpresa, mi rispose. Mi sembrò subito molto più vecchio rispetto all’ultima volta che ci eravamo parlati, all’incirca un mese prima del suo arresto, molto più vecchio e molto più lento. Il mio secondo pensiero fu: «L’hanno distrutto». Ma, quando gli chiesi com’era andata in carcere, lo riconobbi immediatamente, l’affabilità e l’entusiasmo erano sempre i suoi: «Vieni a trovarmi, così possiamo parlare di tutto». Acconsentii, ma evitai di dirgli con precisione quando sarei andato, poiché sapevo che il telefono e l’email erano sotto controllo. Durante i primi sei mesi del 2011, all’interno della comunità dei dissidenti di Pechino e in quella più ampia di coloro che osavano criticare il governo cinese, l’atmosfera cambiò notevolmente: dall’entusiasmo si passò alla paura opprimente e alla paranoia. La primavera araba era in piena fioritura e, in tutto il Medio Oriente, i regimi autoritari stavano avviando disperate azioni di retroguardia. Nel febbraio del 2011, con il sovvertimento del governo egiziano e di quello yemenita, sembrava che il vento soffiasse a favore dei rivoluzionari; ai dirigenti del Partito comunista cinese questi eventi devono essere parsi pericolosamente simili a quelli dell’aprile 1989, quando le mobilitazioni in Polonia portarono Solidarność di Lech Wałęsa molto vicino al potere, innescando quella catena di eventi che avrebbero condotto al crollo del blocco sovietico. Nel 1989 gli studenti cinesi di piazza Tienanmen reggevano cartelli e striscioni che esprimevamo solidarietà con i loro fratelli e sorelle dell’Unione Sovietica; Wúěrkāixī, forse il più carismatico tra i leader studenteschi del 1989, arrivò addirittura ad autoproclamarsi «meglio di Lech Wałęsa». Nel febbraio del 2011 il governo cinese decise di agire, arrestando decine di dissidenti e di attivisti per i diritti umani. Furono picchiati, torturati, sottoposti ripetutamente a interrogatori e obbligati a rilasciare confessioni forzate e videoregistrate. Alcuni furono trattenuti per qualche giorno, altri internati in campi di rieducazione, altri semplicemente sparirono. Al momento in cui scrivo, i parenti ancora non sanno dove si trovino i loro cari. Spesso gli arrestati venivano tenuti incappucciati durante la prigionia e sorvegliati ventiquattr’ore su ventiquattro. I parenti che hanno avuto il coraggio di rilasciare interviste al Guardian riferiscono che i detenuti tornavano a casa traumatizzati, con disturbi del sonno e amnesie. Per il governo cinese, questa retata fu una sorta di attacco preventivo. La prova di forza di piazza Tienanmen e il massacro finale del 4 giugno 1989 sono eventi che rivestono, da allora, un ruolo decisivo ne determinare i pensieri e le azioni dei leader del governo cinese. Nel 1989 le manifestazioni cominciarono in modo abbastanza pacifico, come veglia funebre spontanea per Hu Yaobang, l’amato politico riformista morto l’11 aprile di quello stesso anno. Le cose però precipitarono molto rapidamente. Gli studenti cominciarono, dapprima, a chiedere che fosse portato avanti il programma di riforme, poi, resi più audaci dall’inerzia del governo e dal sostegno del popolo e dei lavoratori di Pechino, iniziarono a denunciare, uno per uno, i membri del Politburo. Leader studenteschi come Wúěrkāixī, Wang Dan e Chai Ling riuscirono a utilizzare piazza Tienanmen come palcoscenico da cui rivolgersi alla Cina e al mondo intero. Zhao Ziyang, il segretario generale del Partito, che era a favore di una linea moderata, suggeriva di interpretare la protesta come espressione di patriottismo degli studenti; Li Peng, a capo dell’ala conservatrice, sosteneva la necessità dell’uso della forza. La decisione finale spettò al capo supremo, Deng Xiaoping, un uomo che aveva partecipato attivamente a quasi tutti i grandi eventi della tumultuosa storia della Cina postimperiale. Deng era nato nel 1904. Aveva visto innumerevoli amici e colleghi morire nelle atrocità dei conflitti con i nazionalisti e con i giapponesi. Nel 1934-35 aveva partecipato alla Lunga marcia con Mao Tse-tung, l’evento chiave della storia del Partito comunista cinese, una ritirata militare durata un anno, nella quale sopravvissero solo ottomila persone delle ottantamila che vi avevano preso parte. Deng Xiaoping conosceva da vicino la vita nell’esercito, prima da sottoposto e poi ai vertici; era stato commissario politico della Seconda Armata in una delle più grandi battaglie di eserciti convenzionali della storia dell’umanità, la campagna di Huaihai del 1948-49, la Stalingrado cinese: una battaglia di proporzioni tanto gigantesche che si dice siano stati oltre cinquecentomila i caduti sul campo tra i soldati nazionalisti. Era stato testimone del fallimento del Grande balzo in avanti e della conseguente disastrosa carestia nella quale perirono almeno trenta milioni di persone, o forse addirittura quarantacinque milioni. Mao lo estromise tre volte dal potere, ma Deng fu poi sempre richiamato ai vertici della politica cinese. La totalità della sua esistenza si era svolta su uno sfondo di guerre e violenze, culminate nella furia cannibale della Rivoluzione culturale, durante la quale il suo stesso figlio fu gettato dalla finestra del dormitorio studentesco, rimanendo sulla sedia a 18 Hanging Man rotelle per il resto della vita. La totale anarchia dei primi anni della Rivoluzione culturale ebbe termine solo con l’invio dell’Esercito di liberazione popolare, anche se venne definitivamente superata solo dopo la morte di Mao e di Zhou Enlai, l’arresto e il processo della Banda dei quattro da parte di Hua Guofeng, il successore prescelto da Mao, e l’ascesa dello stesso Deng al rango di capo supremo. Deng aveva, insomma, visto di tutto: gli orrori, il dolore e il successo a caro prezzo. Il 4 giugno 1989 non poteva permettere che un gruppo di studenti facesse precipitare di nuovo il paese nel caos del passato. Oggi, la decisione di Deng di inviare l’esercito e il modo in cui questa decisione fu giustificata sono ancora in linea con i principi sui quali si fonda il contratto tra il Partito e il popolo. Come disse Deng all’epoca: Naturalmente vogliamo costruire una democrazia socialista, ma non possiamo farlo in modo affrettato, né, tantomeno, all’occidentale. Se noi, con il nostro miliardo di persone, decidessimo di colpo di indire elezioni multipartitiche ci ritroveremmo nel caos più totale, come durante la Rivoluzione culturale. Il nostro obiettivo è la democrazia, ma questa non è raggiungibile senza stabilità nazionale. Perché avevano arrestato Ai Weiwei? A un osservatore esterno, soprattutto a qualcuno che viva in Occidente e lo conosca solo come artista concettuale, il suo arresto deve essere parso insensato, al limite dell’assurdo. L’ondata improvvisa di arresti di attivisti per i diritti umani fu un fatto deprimente ma, in qualche modo, prevedibile: sono loro i soggetti da sempre bersaglio dei regimi autoritari. Ma un artista concettuale, che aveva appena deposto cento milioni di semi di girasole dipinti a mano sul pavimento della Tate Modern, perché avrebbe dovuto essere perseguitato? Può darsi che il Partito comunista cinese avesse idee estremamente sofisticate riguardo all’origine del dissenso? Avevano colto la natura sottilmente sovversiva delle sue opere pseudodadaiste e preso atto del fatto che, nel corso della storia, ogni rivoluzione sociale è stata preceduta da una rivoluzione estetica? Che i cambiamenti nel modo di riprodurre la realtà da parte degli artisti conducono, inevitabilmente, a cambiamenti nelle modalità di pensiero e di comportamento delle persone comuni? Forse la questione è molto più semplice. Ai Weiwei criticava incessantemente il governo e aveva un vasto seguito su Twitter e altri social network: una combinazione non gradita al governo cinese. In ogni caso, quale che fosse la vera ragione dell’arresto di Ai Weiwei, mi è parso che la sua esperienza durante il periodo trascorso in balìa della polizia segreta cinese potesse rivelare informazioni illuminanti sulle condizioni psicologiche dello stesso Partito comunista. Subito dopo il rilascio, tuttavia, Ai Weiwei rimase isolato. Al di là della sua segregazione volontaria iniziale, in una sorta di purdah, è anche vero che a Pechino molti giornalisti stranieri non lo cercarono per il semplice motivo che, se lo avessero fatto, avrebbero rischiato di vedersi revocato, o non rinnovato a fine anno, il loro visto giornalistico. Alcuni, invece, tentarono di contattarlo ma, perlomeno all’inizio, lui non concedeva interviste, per paura di essere nuovamente arrestato con l’accusa di aver infranto le condizioni della libertà provvisoria. I primi reportage dettagliati sulla sua esperienza cominciarono ad apparire solo in settembre. Per quanto riguarda i giornalisti locali, questi certamente non desideravano essere coinvolti. I galleristi e i dealer stranieri, analogamente, si sentivano a disagio ad associare il proprio nome a quello di un individuo ancora sostanzialmente considerato un paria. Quando si gode di una certa reputazione professionale e magari si è passata gran parte della propria vita a costruirsela, arrivando a essere riconosciuti come esperti di qualche particolare aspetto della Cina o della sua cultura, ovviamente si pensa che non valga la pena mettere a rischio tutto quanto. Con ciò non si intende dire che non ci siano stati membri della comunità artistica internazionale che si siano mobilitati in sostegno di Ai Weiwei e della libertà di espressione artistica più in generale al contrario ma è vero che questi hanno dovuto agire in modo molto cauto, escogitando modalità meno dirette per dare il proprio contributo alla causa. Per chi vive in Cina, può essere molto pericoloso sostenere in modo aperto e dichiarato un dissidente che si trova in carcere. Basta un niente per venire arrestati. Allora perché decisi di andare a trovarlo? In primo luogo, la mia carriera di scrittore non è vincolata alla possibilità o meno di recarmi in Cina, quindi sono meno intimorito da eventuali ritorsioni dello Stato cinese. In secondo luogo, proprio perché sapevo che altri dovevano tenersi alla larga da Weiwei, sentivo il dovere di verificare di persona le sue condizioni. Potevo intervistarlo e, se necessario, rendere pubblica la sua situazione scrivendo un articolo per un quotidiano, cosa che altri non potevano permettersi di fare. Terzo, mi interessava conoscere la sua storia perché, da qualche tempo, ero attratto dall’idea di scrivere un libro sulla Cina moderna, utilizzando la vicenda di Ai Weiwei come filo conduttore. La sua vita e quella di suo padre, Ai Qing, uno dei poeti più famosi del ventesimo secolo, sono intrecciate a tal punto con le persone e gli eventi che hanno fatto la storia della Cina moderna che qualsiasi biografia dovrebbe inevitabilmente rendere conto dei principali avvenimenti dell’epoca postimperiale. Inoltre, Ai Weiwei è uno di quei pochi cinesi di cui il resto del mondo abbia sentito parlare e che suscita un certo interesse, se non addirittura comprensione e solidarietà. Chiedendo a qualcuno di fare il nome di tre persone cinesi viventi, la probabilità che Ai Weiwei sia uno dei tre è altissima. Scrivendo della Cina, è rarissimo incontrare nomi di cinesi viventi così conosciuti. La maggior parte dei non cinesi, a meno che non si abbia avuto la fortuna di studiare il cinese all’università oppure di vivere nel paese o in uno dei suoi satelliti, ha una conoscenza molto limitata della Cina. Pensavo, dunque, che varcando la soglia del portone di acciaio della casa di Ai Weiwei avrei scoperto molto di più su quel mondo. All’alba di una mattina di inizio luglio 2011, passai la dogana all’aeroporto di Pechino. Mi avevano informato che c’era una macchina della polizia parcheggiata davanti alla casa di Ai Weiwei ventiquattr’ore su ventiquattro e, per esperienza, sapevo che una telecamera a circuito chiuso monitorava il suo campanello. Il piano che avevo formulato in aereo era molto semplice. Speravo di riuscire a entrare in casa per parlare con lui, in modo dettagliato, del periodo trascorso in balìa del sistema penale cinese, fintanto che i suoi ricordi erano ancora freschi. L’incognita principale di questo piano consisteva nel fatto che, nonostante Weiwei mi avesse detto al telefono che stava bene e che mi avrebbe «detto tutto» non sapevo fino a che punto avrebbe voluto, o sarebbe stato in grado, di mantenere la promessa. Ormai si stava spargendo la voce che alcuni dei dissidenti arrestati con lui erano stati torturati e taluni, tra cui un membro dello staff di Ai Weiwei, non erano più riusciti a superare completamente il trauma. Non avevo la benché minima esperienza di interviste tenute in circostanze simili e, mentre attraversavo l’enorme aeroporto, il mistero che aleggiava intorno allo strano trattamento ricevuto da Ai Weiwei da parte del Partito comunista cinese cominciò a inquietarmi. Subito dopo l’arresto di Weiwei il mondo intero pretendeva di sapere perché fosse stato imprigionato. Da un giorno all’altro fu trasformato in un martire. Non c’è da meravigliarsi. I regimi che perseguitano gli artisti si collocano, inevitabilmente, sotto una luce negativa ed era fin troppo facile fare di Weiwei un santo o un eroe: la sua figura si prestava a essere interpretata in chiave romantica, una sorta di reincarnazione del classico genere di ribelle avanguardista, un tempo così comune in Occidente. Ma, ora che era di nuovo libero, era lecito chiedersi come mai fosse stato rilasciato. Era già trapelato che, nonostante la prigionia, si trovava in buone condizioni fisiche e psichiche: che cosa significava tutto questo? Perché non era stato torturato (ammesso che fosse vero)? C’era qualcuno che lo proteggeva? Aveva accettato un compromesso oppure era soltanto una pedina spostata da poteri più alti? Personaggi come Ai Weiwei spesso vengono considerati fiches su un tavolo verde: la loro libertà o la privazione di essa, il fatto che godano della condizione di liberi cittadini, dipende direttamente dai giochi di potere e di scambio che avvengono molto al di sopra delle loro teste. Diventano la banderuola che indica la direzione in cui soffia il vento sotto un determinato regime. L’arresto di Weiwei, come quello di Bo Xilai, l’intraprendente sindaco populista di Chongqing, non fornisce alcuna informazione sulla colpevolezza o innocenza degli arrestati. Si possono solo dedurre piccoli indizi su quale delle fazioni stia prendendo il sopravvento a Pechino. Weiwei aveva appena trascorso ottantuno giorni in carcere, interrogato di continuo dalla fanteria dei suoi nemici politici. Era logico supporre che tanto l’ordine dell’arresto quanto quello del rilascio fossero venuti dall’alto, direttamente dal Politburo. Quindi avrebbe potuto apprendere qualcosa sui suoi carcerieri durante gli interrogatori, o addirittura avrebbe potuto avere sentore delle condizioni psicologiche dei leader della nazione più popolosa del mondo. Era del tutto evidente, sia dalla breve conversazione telefonica che avevo avuto con lui sia dai video di quella prima notte dopo il rilascio in cui cercava di evitare i giornalisti, che era diventato un altro uomo e che ciò che gli era successo in carcere, qualsiasi cosa gli fosse accaduta, lo aveva profondamente traumatizzato. Pensavo di cominciare l’intervista facendomi raccontare nei particolari le sue sensazioni fisiche e mentali. Avremmo potuto, per esempio, iniziare da quando gli avevano infilato un sacco nero in testa all’aeroporto di Pechino il 10 aprile, mentre stava per imbarcarsi su un volo per Hong Kong. Avviata la conversazione, speravo che si sarebbe sciolto un po’ e avremmo potuto inoltrarci in argomenti più interessanti, più delicati. Volevo sapere di suo padre, Ai Qing, che un tempo era stato amico del presidente Mao. Come non si stancava mai di ricordarmi il più cinico dei miei amici cantonesi di Hong Kong, questo faceva di Ai Weiwei un membro dell’«aristocrazia rossa» che a lui piacesse o no. Oggi le più alte cariche del governo e della società cinese sono occupate, perlopiù, dai rampolli di quell’aristocrazia, i cosiddetti principini. Si tratta di figli, e qualche volta di figlie, della prima generazione dei più importanti generali e uomini politici della Repubblica popolare cinese. Con il passare degli anni, la vita di questi principini si distanzia sempre di più da quella della gente comune in Cina. Molti di loro si preoccupano esclusivamente di convertire il capitale politico ereditato in un più tangibile capitale finanziario, senza dimostrare il minimo interesse per gli alti obiettivi ideologici dei loro padri e dei loro nonni. In un certo senso, Ai Weiwei era una sorta di principino della cultura e forse questo aveva qualcosa a che vedere con il particolare trattamento da lui ricevuto da parte delle autorità. Una volta Ai Weiwei mi parlò lungamente della sua infanzia, raccontandomi che era nato, nel 1957, nel cuore degli hutong, gli antichi vicoli che ancora circondano la Città proibita di Pechino. Durate il suo primo anno di vita, la famiglia di Weiwei aveva vissuto in una casa tipica, con cortile nell’antico lato orientale degli hutong, ma, nel momento in cui Ai Qing non fu più gradito a Mao, l’intera famiglia fu esiliata nel deserto del Gobi. |
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