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Eroi della legalità di Fulvia Degl'Innocenti
A 20 anni dalla strage di Capaci, ricordiamo la vita del giudici Falcone e Borsellino. La loro morte non è stata vana, e la lotta alla mafia ha ottenuto importanti vittorie.
Il Palazzo di Giustizia di Palermo è un edificio imponente: austero e bianco, si affaccia su una grande piazza che nei weekend è completamente deserta. L'unica presenza umana sono i volti ritratti in un grande mosaico appeso a lato dell'ingresso: 5 metri per 4, con i volti delle vittime di Cosa nostra, la mafia siciliana. Giudici e carabinieri, commissari di polizia e giornalisti, persone comuni e imprenditori, donne e bambini. Lungo le vie di Palermo per decenni c'è stata una guerra che ha macchiato di sangue le strade.
Su unfronte la criminalità organizzata, che imponeva il suo potere parallelo a quello dello Stato, un potere fatto di violenza, di traffici di droga, di terrore. Sul fronte opposto: quelli che credevano nella legalità, nella giustizia. Chi si avvicinava alla verità, o perché era stato un semplice testimone o perché voleva assicurare alla giustizia i criminali, veniva eliminato. Parliamo al passato perché da qualche anno al mosaico non si aggiungono nuovi volti. La mafia ancora esiste, ma il suo potere è stato notevolmente ridimensionato. Perché a un certo punto. due giudici, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che hanno raccolto lo sforzo di tanti altri uomini di giustizia morti prima di loro, hanno saputo arrivare vicino al cuore del potere mafioso. La reazione è stata brutale, con due attentati a distanza ravvicinata che hanno annientato i giudici e gli uomini e le donne che dovevano proteggerli. Ma da quel momento lo Stato ha impresso una nuova forza alla lotta alla mafia, decapitando la cosiddetta "cupola", come si chiama il vertice dell'organizzazione mafiosa.
I DUE GIUDICI Erano quasi coetanei Giovanni Falcone, classe 1939, e Paolo Borsellino, classe 1940. Nati e cresciuti a Palermo, si conoscevano sin da piccoli, ma si ritrovarono come colleghi magistrati in quello che fu definito un pool antimafia, un gruppo di poliziotti e giudici che lavoravano insieme per combattere la criminalità organizzata. I risultati c'erano, ma anche i morti: nel 1983 il magistrato Rocco Chinnici che del pool era l'ideatore, nel 1984 il giornalista Giuseppe Fava, nel 1985 Ninni Cassarà, dirigente della Squadra mobile di Palermo. I due giudici sapevano di rischiare la vita, ma andavano avanti. In particolare Falcone aveva trovato una nuova strada nelle indagini: la testimonianza di un mafioso,Tommaso Buscetta, fuggito in America dopo una sanguinosa lotta interna alla mafia. Quasi tutta la sua famiglia era stata sterminata e lui voleva dissociarsi: e scelse il giudice Falcone per raccontare tutto quello che sapeva. Grazie anche alle sue deposizioni furono fatti numerosi arresti, e si raccolsero montagne di prove per istituire un processo, anzi un maxi processo a Palermo, in quel Palazzo di Giustizia che per mesi divenne un'aula bunker con oltre 1.400 imputati alla sbarra. Nel dicembre 1987 il processo si concluse con 342 condanne, 2.665 anni di carcere e 19 ergastoli, molti dei quali inflitti a mafiosi latitanti tra cui Bernardo Provenzano e Totò Riina. Le condanne furono poi confermate definitivamente il 30 gennaio 1992. Nel frattempo a Giovanni Falcone avevano negato l'incarico di procuratore di Palermo, e il suo lavoro era a Roma, alla Direzione affari penali del Ministero di Giustizia. Dopo una stagione di veleni e sospetti, in cui era stato accusato sia dai politici che dai colleghi magistrati di protagonismo nella lotta alla mafia, il 22 maggio 1992 per Falcone arriva la sospirata nomina a Direttore della Procura nazionale antimafia. Borsellino, che era rimasto in Sicilia, esulta. La loro comune azione può riprendere con rinnovato vigore. Qualche tempo prima, nel corso di un'intervista, Falcone aveva dichiarato: «Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande... In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere». Una profezia.
L'ATTENTATO DI CAPACI 23 maggio 1992: un aereo decollato da Roma atterra all'aeroporto di Punta Raisi, qualche chilometro fuori da Palermo. Scendono il giudice Giovanni Falcone e la moglie, Francesca Morvillo. Li aspettano tre auto. Una Fiat Croma marrone apre il corteo: a bordo tre agenti di polizia, Vito Schifani, Rocco Dicillo. Antonio Montinaro. Al centro una Croma bianca, Falcone dice all'autista di passare nel sedile dietro, e si mette alla guida a fianco della moglie. Chiude il corteo una Croma azzurra con altri tre agenti della scorta. Direzione Palermo. Pochi chilometri di autostrada e poi, nei pressi dell'uscita per Capaci, un uomo che poi si scoprirà essere Giovanni Brusca, detto "scannacristiani", oltre 150 persone uccise, aziona il timer collegato a 500 chili di tritolo posizionati sotto un canalone. Un boato spaventoso che apre una voragine sulla strada: muoiono i tre agenti sulla prima auto, il giudice e la moglie. L'Italia apprende la notizia al telegiornale della sera incredula: quasi abituata alla conta dei morti ammazzati dalla mafia non riesce però ad accettare l'idea di un attacco così eclatante, una vera e propria azione di guerra. E capisce che il nemico non era solo quel giudice, il nemico eravamo tutti noi, cittadini di uno Stato chiaramente impotente. Il primo ad accorrere all'ospedale dove Falcone arriva ancora in vita è l'amico e collega Paolo Borsellino. Quando sopraggiunge Maria, la sorella di Falcone, Borsellino sconvolto mormora: «Mi è morto tra le braccia».
A un mese dall'attentato, in occasione di una commemorazione, Paolo Bor sellino dichiara: «La sua vita è stata un atto d'amore verso questa città, verso questa terra che lo ha generato. Perché se l'amore è soprattutto ed essenzialmente dare, per lui amare Palermo e la sua gente ha avuto e ha il significato di dare a questa terra tutto ciò che era possibile dare delle nostre forze morali, intellettuali e professionali per rendere migliore questa città e la patria a cui essa appartiene... Sono morti tutti per noi, per gli ingiusti, abbiamo un grande debito verso di loro e dobbiamo pagarlo, continuando la loro opera... dimostrando a noi stessi e al mondo che Falcone è vivo». È quello che lui fa intensificando le indagini, ascoltando i pentiti, cercando di fare in fretta, consapevole di essere il prossimo bersaglio.
LA BOMBA DI VIA D'AMELIO Sono passati 57 giorni dalla morte di Falcone. Il 19 luglio 1992 Paolo Borsellino, dopo aver trascorso una giornata al mare, rientra a Palermo per andare a trovare l'anziana madre in via d'Amelio. Con lui gli agenti della scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina. Il giudice scende per citofonare alla madre, cinque agenti si posizionano intorno a fargli da scudo, un sesto agente (Antonio Vullo) si allontana in retromarcia per parcheggiare una delle due auto. Dall'alto del Monte Pellegrino, che sovrasta la città, parte il comando a distanza che fa esplodere una Fiat 126 imbottita di tritolo: una fiammata, un cratere. Muoiono tutti, eccetto Vullo.
DUE ALBERI PER RICORDARE La stagione delle stragi continuò, così come i depistaggi nelle indagini, gli accordi segreti tra la mafia e esponenti corrotti delle istituzioni; ma qualcosa cominciò a cambiare. Vennero inviati in Sicilia 20.000 soldati a proteggere sia i giudici che i cittadini, arrivò un nuovo procuratore della Repubblica, Gian Carlo Caselli, nel 1993 fu arrestato Totò Riina, il cosiddetto "capo dei capi", e poi uno dopo l'altro gli altri capi mafiosi. Si moltiplicarono le testimonianze dei pentiti, i processi andarono avanti. Le associazioni di cittadini fecero sentire la loro voce, nacquero fondazioni intitolate ai due giudici. Ancora oggi sono infaticabili le sorelle, Maria Falcone e Rita Borsellino, che incontrano i ragazzi, in Sicilia e nel resto d'Italia per raccontare, come diceva Giovanni Falcone, che «la mafia non è affatto invincibile, è un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine». E in occasione del ventennale della morte di Falcone tante iniziative tra cui la mostra "Il mondo che vorrei" alla Triennale di Milano. In via d'Amelio e in via Notarbartolo davanti a quella che fu la casa di Falcone, ci sono due alberi: hanno il tronco coperto di foglietti, disegni, pensieri, poesie, fotografie di chiunque voglia lasciare una testimonianza, per ricordare ogni giorno che la morte dei due giudici non è avvenuta invano. |
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