PARTE QUINTA
- Giselle Dian: E' sempre piu' evidente la coerenza e la saldatura tra impegno per la pace, affermazione dei diritti umani di tutti gli esseri umani, scelta della nonviolenza, femminismo ed ecologia. Come e perche' si realizza questa convergenza? Quali frutti rechera' all'umanita'?
- Valeria Ando': Come dicevo prima, il femminismo ha portato con se' l'attenzione alle altre forme di discriminazione e di violenza. L'ecologia e' nonviolenza verso l'ambiente e dunque strettamente legata a tutte le forme di rispetto e di amore.
- Anna Bravo: Non credo ci sia sempre una convergenza. Cosa fare quando l'affermazione dei diritti di tutti gli esseri umani, a cominciare dal diritto alla vita, e' calpestata da regimi criminali, razzisti, odiatori delle donne e delle differenze? E' un dilemma su cui molti si sono autodilaniati.
- Giancarla Codrignani: Spero che sia cosi' evidente universalmente. Comunque metterei al primo posto la cultura delle donne, le creature piu' esperte in violenza, per averla subita in tutte le sue forme, a partire dalla guerra. Ma anche le donne sono soggette alle cultura dominante: per esempio fanno le soldate, un mestiere che prevede la morte, mentre loro sono produttrici di vita, almeno per ora. Comunque uomini e donne debbono capire che non si puo' non essere nonviolenti. Grandi figure della nonviolenza ci sono state - non tantissime - nella storia, ma dal XX secolo la stessa parola ha avuto un uso diffuso: pero' il mio computer la ritiene ancora scorretta.
- Monica Lanfranco: "Noi donne, in tutta la nostra vibrante e favolosa diversita', siamo testimoni della crescita delle aggressioni contro lo spirito, la mente e il corpo umano, e la continua invasione ed assalto contro la terra e le sue diverse specie. E siamo infuriate".
Questa era la frase di apertura del numero di "Marea" del marzo 2001, prima del G8 di Genova, quando a giugno la nostra rivista organizzo' "Punto G", appuntamento internazionale di donne sulla globalizzazione che apri' in anticipo i forum tematici per un'altra globalizzazione, contro il neoliberismo selvaggio e inumano. A dieci anni da allora i temi che ruotano intorno al rapporto umanita', stato della terra e delle risorse sono ancora al centro dei proclami delle enclave dei governi; ma la sensazione e' che poco stia cambiando. I movimenti ecologisti premono perche' soprattutto le nuove generazioni siano sensibilizzate e alfabetizzate verso un'idea e una pratica di consumo sostenibile, ma solo nicchie di mercato, di politica e di opinione pubblica vanno in quella direzione. Poco si fa per dare valore e impulso anche all'ecologia del quotidiano, facendo apparire come inefficace e quasi inutile l'impegno singolo, rimandando solo alle strutture forti (i governi) la possibilita' di incidere davvero. L'ecofemminismo ha, fin dalla sua nascita, ribaltato questa visione, dando grande valore anche al cambiamento individuale come motore di quello collettivo. E sostenendo che l'oppressione subita dalle donne e il deterioramento ambientale sono prodotti dai valori patriarcali, che generano entrambi le ingiustizie.
Oggi le donne, da vittime come lo e' la Terra, sono passate a prendere parola e a promuovere azioni per fermare la distruzione delle risorse, scongiurando la tragica ipotesi di un lascito di un pianeta devastato e infecondo. Come sempre, quando il movimento e il pensiero delle donne si connette con altre filosofie e pratiche di cambiamento, i risultati sono incoraggianti. In questo numero di "Marea" del marzo 2010 abbiamo cercato di dimostrare come l'ecofemminismo sia uno di questi.
Non sara' un caso che le parole e i corpi di chi ha dato vita allo straordinario e variegato movimento che si oppone alla globalizzazione neoliberista siano parole e corpi di donne, prima tra tutte l'ecofemminista indiana Vandana Shiva.
Il suo pensiero ci parla di diversita' ecologica come unica strada per fermare la fine del pianeta e delle sue risorse, e per farlo si serve di un piccolissimo esempio, quello del seme di senape, minacciato di essere completamente distrutto in India dalla monocultura della soia imposta dalla multinazionali. E spesso accosta la metafora del corpo violentato di una donna per descrivere cio' che l'incuria e l'arroganza umana sta causando alla terra.
"In questi tempi di 'pulizia etnica', spiega Shiva nel suo Monocolture della mente, mentre le monocolture si diffondono nella societa' e nella natura, riconciliarsi con la diversita' diventa un imperativo per la sopravvivenza. Le monocolture sono una componente essenziale della globalizzazione, che si basa sulla omogeneizzazione e la distruzione della biodiversita'.
Il controllo globale delle materie prime e dei mercati rende le monocolture necessarie. Questa guerra alla differenza non e' del tutto nuova. La diversita' e' stata messa in pericolo dovunque sia stata vista come un ostacolo. Le radici della guerra e della violenza stanno nel trattare la diversita' come una minaccia, una fonte di perturbazione e di disordine. La globalizzazione trasforma la diversita' in malattia e carenza, perche' non riesce a tenerla sotto controllo. Quello che succede in natura si ripresenta anche nella societa'. Quando l'omogeneizzazione viene imposta a differenti sistemi sociali, le parti iniziano a disintegrarsi l'una dopo l'altra. Perche' la violenza intrinseca all'integrazione globale centralizzata, a sua volta, crea violenza anche tra le vittime. La globalizzazione non e' solo l'interazione culturale tra le diverse societa', ma l'imposizione di una specifica cultura su tutte le altre. Vi e' una solo strada per contenere queste epidemie di violenza. Con sensibilita' e responsabilita' spetta a noi - chiunque siamo e dovunque ci troviamo - riconciliarci con la diversita'".
- Floriana Lipparini: Personalmente credo che questa convergenza possa trovare il punto d'incontro, diciamo la sintesi, nel rifiuto dell'attuale modello di sviluppo legato alla globalizzazione neoliberista, e nella costruzione di un modello alternativo ispirato a quella "democrazia della terra" di cui parla con tanta sapienza la scienziata indiana Vandana Shiva. Un modello che rispetta le persone, gli animali, l'ambiente, il pianeta. Un modello che non punta alla crescita ma alla distribuzione equa delle risorse, al rifiuto della guerra e della violenza, all'equilibrio fra i generi... Si tratta dunque di cambiare radicalmente il concetto stesso di economia, legandolo al diritto alla vita per ogni abitante della terra. Un rovesciamento di valori di cui le ecofemministe sono state anticipatrici e che spero possiamo riprendere a coltivare. Naturalmente non credo che si potra' mai giungere al paradiso in terra, ma almeno a moltiplicare esperienze di vita alternativa, in una perenne dinamica tra forze diverse.
- Daniele Lugli: Anche a me pare che questa saldatura sia evidente e possa dare uno straordinario contributo allo "stare bene" (benessere e' diventato impronunciabile) dell'umanita'. Ha alla sua basa l'apertura al vivente, alla sua esistenza multiforme, alla sua liberta', al suo sviluppo. Era questa del resto la definizione di nonviolenza che Capitini preferiva. Credo pero' che questa convergenza sia chiara solo a una minoranza delle stesse persone impegnate nei vari campi. Essi sono, a loro volta, ristretta minoranza in una societa' diversamente orientata. Giuliano Pontara, abituato a pesare le parole, ha scritto di un ritorno di pensiero nazista: Might is right (forza e' diritto) per dirlo nella lingua dell'Impero.
- Fulvio Cesare Manara: Tra le piste di ricerca che piu' coerentemente seguo in questi ultimi anni ce n'e' una che investe la chiara decostruzione della cosiddetta autoreferenzialita' della "cultura dei diritti umani". La "cultura dei diritti" si regge davvero su se stessa? I diritti sono davvero "universali" e "assoluti". O sono piuttosto "fondati" e "relativi"?
Mi pongo alcune domande: se voglio difenderei i diritti, quali sono le forme di lotta che posso adottare? Se adotto forme violente di difesa dei diritti umani e' giusto e legittimo? E cosa vuol dire "rispetto" dei diritti umani? Non richiede questo "rispetto" il ricorso e il riferimento ad un principio "superiore" agli stessi diritti?
Per me questo "principio superiore" e' il principio di giustizia, cosi' come lo intende Simone Weil, ossia il principio nonviolenza. La vera domanda che fonda la giustizia non e' "perche' lui ha piu' di me", ma "perche' mi fai male"...
E' proprio il principio nonviolenza (neminem laedere - nuova innocenza) a fondare i diritti umani!
Che fare per educarci a questo modo di intendere-essere-agire? Non ho certo risposte preconfezionate, ne', forse, esistono...
- Arianna Marullo: Credo che la convergenza di tante tematiche diverse in un unico impegno sia naturale e la scelta della nonviolenza le prefigura tutte nella concezione fondamentale del rispetto dell'altro da se' e nel rifiuto della violenza come mezzo di risoluzione dei conflitti. Chi si occupa di diritti umani ad esempio non puo' ignorare quelli degli animali: Ovidio nel I secolo a.C. scriveva che la crudelta' verso gli animali e' tirocinio della crudelta' verso gli uomini, e Primo Levi ha descritto magistralmente il processo attraverso cui il potere "disumanizza" un gruppo di uomini e in virtu' di questa perdita dello status di uomo lo perseguita e distrugge. Mi sembra piu' che mai necessaria la coordinazione degli sforzi nei diversi campi, perche' ad ogni risultato positivo in uno corrispondera' un passo avanti in un altro.
- Lidia Menapace: Va aggiunto a questo nobile elenco il movimento per i diritti di chi lavora. Credo che bisognera' impegnarsi per trovare una teoria che connetta i soggetti cui sta a cuore il superamento del capitalismo e del patriarcato: senza una chiara coscienza anticapitalistica e antipatriarcale non e' possibile fondare una scienza dei diritti umani, della nonviolenza, dei beni comuni ecc.
- Sergio Paronetto: La nonviolenza e' una rete di fili multicolori. Un crocevia di cammini. Un cantiere aperto. Una fioritura operante come forza di liberazione, parte integrante della famiglia umana, variamente presente nella "compassione" orientale, nel "satyagraha" gandhiano, nella "misericordia" islamica, nell'"ubuntu" africano, nel "buen vivir" o "suma qamana" andino, nello "shalom" ebraico, nelle "beatitudini" evangeliche: principi operativi indicanti gratuita', pienezza di vita, interdipendenza, convivialita', convivenza di persone accolte e accoglienti, cooperanti al bene comune.
- Beppe Pavan: Intanto non e' cosi' scontata, questa convergenza. Non dimentico mai che al Social Forum di Porto Alegre erano stati denunciati episodi di stupri da parte di militanti eco-pacifisti... La convergenza e' evidente: l'ordine simbolico della madre e' nonviolenza nelle relazioni intime; questo insegna anche agli uomini la nonviolenza in tutte le relazioni, comprese quelle con la natura, gli animali, l'ambiente, i beni comuni... perche' la parzialita' ci accomuna: siamo creature tra creature e solo l'armonia di tutte le relazioni garantisce la vita contro la deriva autodistruttrice che il genere umano ha messo in cantiere. Piu' presto anche gli uomini delle religioni lo capiranno, piu' presto si invertira' questa tendenza necrofila.
- Nanni Salio: A mio modo di vedere la nonviolenza e' alla base di tutte le altre forme di impegno, ma storicamente molti movimenti e molte lotte si sono sviluppate a partire da temi specifici.
Da un lato assistiamo con piacere al fiorire di molteplici attivita', che Paul Hawken descrive in un suo libro (Una moltitudine inarrestabile, Edizioni Ambiente, Milano 2009) come "la seconda superpotenza mondiale", sorta "senza che nessuno se ne sia accorto", con centinaia di migliaia, addirittura milioni, di gruppi e iniziative sparse in tutto il mondo.
Dall'altra, ci sembra che l'enormita' dei problemi e delle crisi che stiamo vivendo richiedano un impegno coordinato e ancora maggiore.
Che cosa succedera' non lo sappiamo, ma di certo abbiamo bisogno di una nuova tappa evolutiva, e la nonviolenza costituisce il collante e la base di questa evoluzione futura dell'umanita'.
Occorre un impegno ancora maggiore di ricerca, educazione e azione per creare e diffondere una cultura della nonviolenza che ci permetta di vivere in modo piu' armonioso e ricco interiormente.
- Mao Valpiana: Questa saldatura fra pace-diritti umani-femminismo-ecologia e' la nonviolenza stessa. Se ritorniamo ai testi fondamentali di Gandhi vediamo che le quattro tematiche citate costituiscono il centro della sua riflessione e del suo agire. L'umanita' non potra' risolvere i drammatici nodi che si trova ad affrontare senza porsi il problema della nonviolenza. Prima o poi sara' ineludibile.
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- Giselle Dian: Quale puo' essere lo specifico contributo dell'arte all'impegno per la pace, l'ambiente, i diritti umani di tutti gli esseri umani?
- Valeria Ando': L'arte e' forma espressiva immediata che dagli occhi arriva al cuore e alle menti.
- Anna Bravo: Restare (o diventare) libera.
- Augusto Cavadi: Cercare la bellezza senza voler essere edificanti a tutti i costi. La bellezza merita di essere coltivata gratuitamente, pur sapendo che essa comporta effetti collaterali desiderabili.
- Giancarla Codrignani: L'arte sublima sempre, anche quando proviene da autori di vita o principi non coerenti. Tutti avremmo diritto ad essere creativi per capire di piu'. E capire le cose, anche una sola come misura da estendere a tutto il resto e' fondamentale.
- Andrea Cozzo: L'arte, per la sua dimensione piu' immediatamente interculturale, puo' contribuire notevolmente alla denuncia e alla critica della violenza e a far credere all'idea che "un altro mondo e' possibile". La sua creativita' e la sua ampia visibilita' pubblica possono avere un impatto notevole sulla societa', possono dare un messaggio di liberazione che arriva a tutti, combattendo la rassegnazione alla pretesa "razionalita' del reale" e facendo immaginare a tutti mondi possibili.
- Daniele Lugli: Hanno risposto i ragazzi di Lettera a una professoressa: "Cosi' abbiamo capito cos'e' l'arte. E' voler male a qualcuno o a qualche cosa. Ripensarci sopra a lungo. Farsi aiutare dagli amici in un paziente lavoro di squadra. Pian piano vien fuori quello che di vero c'e' sotto l'odio. Nasce l'opera d'arte: una mano al nemico perche' cambi".
- Arianna Marullo: L'arte ha sicuramente un ruolo importante. Incarna la cultura di un popolo, ricordandoci da dove veniamo ci indica la strada che possiamo percorrere o la deviazione necessaria. Comunica direttamente con l'emotivita' dell'individuo e in questo modo riesce a metterci in relazione con aspetti dimenticati o negati dalla razionalita'. Non a caso spesso alla conquista di un territorio corrisponde la distruzione del patrimonio artistico di quella regione, non a caso i vincitori hanno sempre trafugato e fatte proprie le opere d'arte degli sconfitti. Nonostante l'aspetto innocuo della creazione artistica il potere l'ha sempre temuta, censurata o piegata alle proprie finalita': pensiamo ai roghi dei libri (e si sa che chi inizia a bruciare libri finisce col bruciare gli uomini) o all'etichetta di arte degenerata affibbiata in epoca nazista a certa arte poco condiscendente con la dittatura, o ancora all'arte di regime fascista o sovietica. L'arte oggi, come e piu' che nel passato, ha l'importante ruolo di rendere manifesto lo spirito del tempo, di dare visibilita' ai problemi della societa' contemporanea. Dovremmo tutti prendere spunto dalla creativita' sottesa al fare artistico per trovare nuove soluzioni e risorse per l'impegno per la pace e i diritti.
- Lidia Menapace: L'arte e' una comunicazione, un linguaggio e il contributo che essa da', ma preferirei dire la presenza che essa ha, e' il segno che una politica e' una politica e cioe' che trova un modo di esprimersi, di comunicare: una politica che non ha linguaggio e' una finzione di politica, e' populismo, e' ideologia nel peggior senso del termine.
- Sergio Paronetto: L'esperienza artistica non e' un ornamento aggiuntivo della nonviolenza. Alcuni artisti (io conosco soprattutto poeti) sono amici della nonviolenza. Intendo la poesia come realta' intima e concreta dell'esistenza. Se la pace e' poesia, la poesia e' pace. Per me la pace e' creazione come la poesia. Eros e logos. Agape e caritas. Seme e frutto. Ulivo e colomba. "Cellule e rondini" (Mario Luzi). Tormento di un sogno. Potere di un segno. Giacomo Leopardi direbbe "canto nella notte" o "fiore del deserto". Il grande poeta di Recanati scriveva che la poesia e' "respiro dell'anima che aggiunge un filo alla tela brevissima della nostra vita", "ci rinfresca", "ci accresce la vitalita'". La sua ginestra, fiore gentile e profumato "che il deserto consola", indica la saggezza del vivere fraterno. Il suo appello e' simile a quello di Martin Luther King: "o nonviolenza o non esistenza. Se non impareremo a vivere assieme come fratelli periremo come stolti". La nonviolenza e' l'arte di vivere bene assieme. E' l'azione conviviale che salva la storia e ricrea la grazia del volto.
Nascita-rinascita. Parto di un mondo.
- Beppe Pavan: Non ne ho una competenza specifica, ma credo che l'arte, in tutte le sue manifestazioni, sia una potente energia culturale: ci insegna l'amore per la bellezza, per l'armonia, per la gioia... Ci aiuta a capire che e' conveniente cambiare rotta: e' meglio vivere che morire; e' meglio vivere bene che logorarsi in una perenne competizione, distruggendo tutto...
- Tiziana Plebani: Credo che l'arte possa alimentare l'empatia, la capacita' di commozione e di meraviglia che sanno farci stare al mondo con ricchezza e rispetto.
- Nanni Salio: Una nostra amica, Daniela Minerbi, una pittrice che vive alle Hawaii, ha lanciato un progetto, che abbiamo accolto e contribuito a realizzare in Italia, chiamato Papp (Portable Art Portable Peace). Sono una cinquantina di piccoli quadri, che si possono comodamente spedire e far circolare da una citta' all'altra, da un luogo all'altro, per organizzare iniziative sul tema del rapporto arte-pace, coinvolgendo bambini, studenti, gente comune nel realizzare in modo semplice e spontaneo opere artistiche sulla pace, senza l'ambizione di avere solo grandi artisti.
Abbiamo sperimentato questa proposta in alcune citta', in particolare ad Aosta, con buoni risultati.
C'e' tuttavia una difficolta' che occorre tenere presente: e' piu' facile intendere il rapporto arte-pace come occasione di denuncia della guerra (pace negativa) che come capacita' di rappresentazione di pace positiva e nonviolenza. Ne abbiamo parlato, anche in occasione di momenti seminariali, con la presenza di Johan Galtung che ha contribuito a sviluppare questo nesso problematico.
Le rappresentazioni artistiche invadono anche lo spazio esterno e non solo i musei. Abbiamo contribuito a realizzare un piccolo museo-laboratorio della pace a Collegno, una cittadina vicino a Torino, ma sarebbe molto bello riuscire man mano a trasformare lo spazio esterno in una sorta di museo diffuso che non ricordi solo gli eventi bellici, come oggi avviene con monumenti e altri simboli di guerra, ma diventi capace di veicolare immagini di pace positiva e di nonviolenza. C'e' tanto lavoro da fare e aspettiamo "nuovi artisti di pace".
- Mao Valpiana: Se è vero, e io lo credo, che la bellezza salvera' il mondo, allora il contributo dell'arte sara' decisivo per la salvezza dell'umanita'. Faccio solo un piccolo esempio (che i miei amici sanno starmi molto a cuore), quello di John Lennon che con la sua musica e le sue parole (veri e propri inni del movimento per la pace come "Give Peace a Chance" o "Imagine") ha dato forza e visione a immense manifestazioni. Sappiamo quanto la musica sia un collante e un linguaggio internazionale. Anche qui voglio spendere una parola per la necessita' di una scrittura della storia della musica per la nonviolenza.
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- Giselle Dian: Nella vicenda di Haring e' rilevante anche il suo impegno nella lotta contro l'Aids (la malattia di cui mori' a trentun anni di eta'). Da allora ad oggi cosa e' cambiato e cosa occorre fare sia sul tema specifico sia piu' in generale per affermare il diritto di tutti alla salute, all'assistenza e alla solidarieta'?
- Anna Bravo: Credo nel diritto alla salute e all'assistenza, dubito invece che la solidarietà possa esprimersi come diritto, non a tutti i bisogni corrisponde un diritto in senso proprio. La solidarieta' e' un obbligo morale che ci si deve assumere come scelta inderogabile. Lavorare per questo e' uno dei compiti piu' importanti dell'oggi. La mancanza di solidarieta' va stigmatizzata apertamente.
- Giancarla Codrignani: La Costituzione italiana prevede il diritto alla salute (da mantenere con la prevenzione) e all'assistenza (quando ci si ammala). L'educazione ha un grande bisogno di educare anche ai sentimenti, alle relazioni, alle pulsioni: Un tempo esaltare il Petrarca era un'ipocrisia. Oggi e' una responsabilita', perche' i giovani oggi vengono sollecitati (dalla tv) a fare consumo anche dei loro corpi e se restano ignari dei contesti corrono rischi. Anche se nei paesi occidentali l'Aids sembra meno pesante, in Africa non perdona.
- Daniele Lugli: Praticamente c'e' da fare (rifare) tutto. Mentre Obama ha strappato una riforma sanitaria limitata, ma orientata verso diritti e doveri che la domanda ricorda, da noi si stanno distruggendo le migliori conquiste in campo sanitario e assistenziale. L'Organizzazione mondiale della sanita' definisce la salute "stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non semplice assenza di malattia". E' questo il diritto alla salute di cui parliamo. E' una prospettiva che si allontana per la generalita' dei cittadini e conferma e accentua le distanze sociali anche sotto questo profilo.
- Arianna Marullo: L'Aids negli anni Ottanta era una malattia sconosciuta, con una storia clinica brevissima. Chi si ammalava veniva stigmatizzato e giudicato dal punto di vista morale; tanto piu' meritorio fu dunque l'impegno dello stesso Haring e di quanti si sono adoperati per combattere non solo la malattia, ma anche il pregiudizio che la accompagnava. Oggi la situazione, perlomeno nei Paesi ricchi, e' molto migliorata sia dal punto di vista delle cure mediche e della prevenzione, sia da quello della percezione che abbiamo della malattia. La situazione invece e' drammatica nelle aree piu' povere del mondo, soprattutto nel continente africano. Oggi appare chiaro come la lotta all'Aids sia la lotta per il diritto al cibo e ad uno stile di vita piu' umano per tutti, nonche' una battaglia contro la logica del profitto delle case farmaceutiche.
- Lidia Menapace: Per affrontare l'Aids e' evidente che, sia una libera sessualita', che un libero accesso a cure e farmaci, e' una strada ragionevole. Essa e' ostacolata dall'assetto vigente (ad esempio dalle multInazionali del farmaco, che brevettano e cercano medicinali costosissimi): se dunque non si progetta una critica reale e agita al capitale e al patriarcato, non si esce dal sogno vago, quello che i tedeschi in un loro motto dicono: i sogni sono schiuma (scritto come si pronuncia: troime sind scioime). Non un sogno agito come quello di Martin Luther King, ma quel sonno della ragione durante il quale vengono generati i mostri.
- Beppe Pavan: Bisogna avviare una campagna planetaria permanente di educazione della parte maschile dell'umanita' alla convivenza serena con il proprio corpo, perche' impari il rispetto dei corpi di ogni donna e ogni uomo e, in particolare, che la sessualita' e' relazione. Il corpo non puo' mai essere usato come un'arma ne' considerato una macchina che deve ogni tanto aprire le valvole di sfogo, pena l'implosione.
Al centro delle reti di relazione ci stanno le persone, non il denaro: il denaro deve tornare ad essere considerato mero strumento per garantire a tutti e tutte una qualita' di vita dignitosa e questo e' possibile solo attraverso la cooperazione, unica strada per la garanzia di tutti i diritti, a partire da quelli citati nella domanda.
- Nanni Salio: Come noto, la questione Aids prese alla sprovvista proprio quelle comunita' e gruppi, in particolare omosessuali ma non solo, che avevano avviato esperienze di vita all'insegna della liberta' sessuale. Queste sono anche le comunita' che hanno saputo reagire piu' prontamente, pur se con molte sofferenze, perche' piu' benestanti e colte.
Altra cosa e' l'epidemia di Aids tuttora diffusa nelle regioni piu' povere, in particolare l'Africa.
Testimonianze e impegno come quelli di Alex Zanotelli a Korogocho o in altre baraccopoli, favelas e slum nelle grandi periferie di Rio, Mumbai, Kolkata, ecc. sono particolarmente significative.
Ma fame, malattie, miseria estrema sino al degrado caratterizzano ancora una parte consistente dell'umanita' nell'indifferenza quasi totale e nell'incapacita' di prendere alla lettera quel "talismano di Gandhi" che ci dice di "partire dagli ultimi", dai piu' bisognosi, secondo quell'insegnamento evangelico tanto disatteso nella nostra folle civilta' che osa dichiararsi "cristiana".
Nella forma piu' incisiva il programma di cio' che dovremmo fare e' contenuto nelle parole che Gandhi ci ha lasciato pochi giorni prima di essere ucciso.
Vale la pena di ricordarle e di farne un piccolo poster da tenere sempre con noi: Il talismano di Gandhi.
"Ti daro' un talismano.
Ogni volta che sei nel dubbio
o quando il tuo 'io' ti sovrasta,
fa questa prova:
richiama il viso dell'uomo piu' povero e piu' debole
che puoi aver visto
e domandati se il passo che hai in mente di fare
sara' di qualche utilita' per lui.
Ne otterra' qualcosa?
Gli restituira' il controllo
sulla sua vita e sul suo destino?
In altre parole,
condurra' all'autogoverno
milioni di persone
affamate nel corpo e nello spirito?
Allora vedrai i tuoi dubbi
e il tuo 'io' dissolversi".
- Mao Valpiana: C'è chi ha detto che una societa' la si puo' giudicare da come tratta gli animali. Altri da come sono le sue prigioni. Forse oggi noi possiamo dire che una metro di giudizio per un sistema sociale e' il livello di offerta socio-sanitaria. Su questo piano stiamo assistendo in Italia ad un arretramento preoccupante. La sanita' pubblica subisce continui colpi e tagli, a vantaggio di quella privata. I capitoli della ricerca medica e quello farmaceutico (e la vicenda Aids su questo la dice lunga) sono notoriamente luoghi di appetiti inconfessabili. Il modello veneto che negli anni Settanta ha fatto della nostra Regione un momento di eccellenza mondiale per l'offerta sanitaria pubblica, oggi e' un pallido ricordo, crollato sotto i colpi di chi sta smantellando un servizio che era per tutti, in un sistema clientelare.
Negli Stati Uniti Obama sta faticosamente cercando di percorrere la strada inversa, passando da un sistema a pagamento ad una sanita' per tutti, e nonostante i limiti e i tentennamenti, merita in questo il nostro appoggio.
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5.3. Il contesto sociale e culturale
E' impossibile tratteggiare in poche parole uno scenario tanto vasto come quello del contesto socio-culturale in cui Haring ha operato; basti qui elencare schematicamente alcuni elementi caratterizzanti.
New York come scena artistica e melting pot: ovviamente nella vicenda esistenziale ed artistica di Keith Haring la citta' di New York ha un ruolo cruciale: in essa emergono alcune delle tendenze piu' innovative nel campo dell'arte, della musica, dello spettacolo, dei mass-media e dello show-biz; New York era gia' in quel tempo una sorta di capitale del villaggio globale, citta' globalizzata ed interculturale.
Il contesto storico-culturale specificamente artistico, mediatico e filosofico: sara' necessario al riguardo almeno accennare alla tradizione dell'arte nordamericana e al suo intrecciarsi con le forme della cultura di massa (cinema, fumetti, musica, tv, pubblicita'...); agli intrecci ed ibridazioni tra arte, industria, media, tecnologie e funzione dell'opera d'arte tra serialita', riciclaggio e critica dell'alienazione (la condizione postmoderna); alla collocazione in una societa' frantumata e della "tolleranza repressiva"; per dirla con formule odierne del linguaggio sociologico: "societa' liquida" e "vite di scarto"; e cogliere la dialettica e il conflitto tra consumismo e conformismo da un lato, contro la ricerca di autenticita' e senso dall'altro.
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Alcuni contributi di riflessione
- Giselle Dian: L'opera di Keith Haring, e piu' in generale il linguaggio dei "graffiti", pone in evidenza il rapporto tra opera d'arte e dimensione urbana, tra performance estetica e vissuto della strada, tra "nonluoghi" e impegno civile, tra forme della cultura di massa e lotta contro l'alienazione e l'emarginazione, tra strutture della vita quotidiana e nuove modalita' di risignificazione dei luoghi e delle esperienze esistenziali. Quali riflessioni le suscita questa prassi?
- Anna Bravo: Mi fa pensare a Edward Hopper, il pittore della solitudine nella società di massa.
- Augusto Cavadi: Confesso di essere molto piu' disturbato dagli abusi dei "graffittari" che ammirato della loro opera. Sarei felice se quanti praticano questa forma d'arte rispettassero tempi e luoghi; anzi, quando vedo che i graffiti abbelliscono squarci squallidi, sono gia' adesso felice.
- Giancarla Codrignani: I linguaggi possono essere tanti, anche il graffito. Tuttavia mi piace molto il richiamo alla citta': non "viviamo" abbastanza la citta'. Lo dimostra il disordine urbanistico, la chiusura degli edifici, la mancanza di bellezza (al massimo un giardinetto). Sarebbe pero' essenziale che il linguaggio "comunicasse" sempre ai cittadini e non li lasciasse soli e muti.
- Elena Liotta: Credo che oltre a valorizzare le esperienze di protesta e di intervento attivo sulla cultura metropolitana - riconoscendo a Haring tutti i suoi meriti soprattutto quando ha cominciato a sostenere iniziative e strutture sociali per le fasce deboli e a fare della sua malattia una denuncia a favore di altri malati - si debba anche mettere piu' in crisi, altrove che nell'arte, il modello unico della vita cittadina. Cosa che nessuno sembra voler fare. Chi si allontana dalla citta' e' ancora un "alternativo", eccentrico, idealista retro', oppure un pendolare che non regge i costi delle case di citta', nelle quali si immagina che chiunque vorrebbe vivere. Si dimentica quanto siano recenti i processi di migrazione interna dalla campagna alla citta' e quanto la popolazione italiana sia tuttora diffusa in cittadine o paesi di piccolo taglio in cui i non-luoghi scarseggiano. Non c'e' metropolitana e a volte neanche autobus. Non arriva l'adsl ne' il digitale. Ma gli outlets crescono... La grande citta' e' in realta' fragile e basta un vero black-out a trasformarla in una trappola per topi. Scenari di fantascienza? Come nel dopoguerra? Se continuiamo a pensare che la grande citta' e' il modello di vita assoluto del futuro crolla il discorso di ridimensionamento, mutamento di stili di vita e tutto il resto. Allora davvero ci vorranno le centrali nucleari per tenerle in piedi.
L'arte pubblica, i graffiti, murales, i loft e le gallerie improvvisate, le istallazioni, le performances e altri modi di comunicazione sorti nelle metropoli e nei veri non-luoghi sono un tentato rimedio alla disperazione, il filo d'erba nato nel cemento. Continuo a pensare che ci sia abbastanza terra e natura nel mondo per fioriture piu' libere e gioiose. Poi c'e' il mercato dell'arte, delle mode e tutta una cultura che esporta ovunque i suoi prodotti con chiari risvolti economici (marchi, gadgets, stampe, oggetti, giocattoli, ecc.). New York, la metropoli per antonomasia, patria dell'arte contemporanea, non mi ha mai sedotta. Mi appare caratterizzata da un forte intellettualismo a tratti anche cinico: uno sguardo che osserva, critica, oppure simpatizza, sostiene, a volte distrugge, ma sempre con distanza, e sempre celebrando in qualche modo se stesso. I bisogni sociali, il diritto alla vita e alla condivisione delle risorse del pianeta nonche' lo stato di emarginazione nel resto del mondo di oggi mi appaiono altra cosa. Se poi un artista, un fotografo, un attore, un danzatore o pubblicitario famoso me lo ritraggono o mi ci fanno pensare va bene, ma non e' questa la cura. Non per me.
- Daniele Lugli: Mi fa pensare che ho molte cose da capire e di quanto poco comprenda in generale (e dei giovani in particolare) pur applicandomi. Vero e' che i giovani, con i quali ho frequenti contatti, sono pazienti nel darmi spiegazioni. L'incisivita' delle opere di Haring, la sua tensione a rappresentare e migliorare la realta', a partire dalla strada, riesco ad avvertirla. L'onnipresenza di ben diversi "graffiti", ai quali e' arduo riconoscere qualita' estetica, non mi disturba pero', applicati come sono a un contesto urbano generalmente brutto e degradato.
- Arianna Marullo: Il fenomeno del graffitismo e' una reazione all'omologazione cui ci costringe la vita in un tessuto urbano disumanizzante, alla negazione della valenza dell'individuo obbligato a vivere in case e quartieri tutti uguali, non pensati per il benessere, fisico e sociale, di chi vi deve abitare. Negli esempi piu' alti (senza arrivare a citare grandi artisti come Keith Haring o Jean Michel Basquiat, penso anche a tanti ignoti writer) oltre alla comunicazione di un disagio avvertiamo la forza e la vitalita' della creazione, motore primo di tanti cambiamenti. Questo tipo di espressione creativa, se non artistica, credo dovrebbe avere piu' spazi "istituzionali" in cui esprimersi, delle aree destinate a luoghi di aggregazione e socialita' che potrebbero divenire dei veri e propri laboratori culturali, luoghi di confronto tra l'arte e la cultura tradizionali e underground.
- Lidia Menapace: Sono una lettrice appassionata di questa forma di comunicazione politica che mi pare interpreti prima e meglio di qualsiasi altra la forma del nostro vivere esteso a un possibile futuro.
- Beppe Pavan: Conosco superficialmente l'opera di Haring, ma sono tra coloro che apprezzano i graffiti stradali, in particolare quelli che danno luce e vivibilita' agli angoli bui e tristi delle citta', quelli che parlano il linguaggio dei giovani e sanno dare voce ai desideri delle persone emarginate.
- Tiziana Plebani: Credo che sia giusto che esistano piu' linguaggi e diverse estetiche nella citta', luogo per eccellenza della mescolanza. La questione cruciale sta nel come far convivere insieme - e non solo accostando stili diversi - forme giovanili di comunicazione, avanguardia e culture classiche.
- Nanni Salio: Su Keith Haring e' appena stato pubblicato da Feltrinelli un cofanetto (libro + dvd) nella bella collana di Real Cinema, che contiene molti titoli di grande interesse per chi lavora sui temi di pace, ambiente, sostenibilita'.
Non occorrono molte parole per evidenziare la bruttezza che caratterizza gran parte, con poche eccezioni, delle strutture architettoniche delle citta' in cui viviamo. Nulla a che vedere con l'armonia di alcuni piccoli borghi, villaggi, luoghi ancora non distrutti dalla furia del capitalismo.
Si capisce allora che si sia sviluppata soprattutto nelle fasce giovanili una certa attrazione per i graffiti urbani. Ma occorre anche dire che spesso ci si limita a forme di protesta che non riescono a realizzare e veicolare espressioni artistiche autenticamente alternative, creative e positive. E' una ricerca in atto che va coltivata con cura, e forse proprio riscoprire l'opera di alcuni grandi artisti e conoscere forme artistiche presenti in altre parti del mondo, potrebbe aiutarci in questo compito.
Occorre tuttavia non cadere nella trappola del "successo", ottenuto con ingenti capitali e opere faraoniche che riproducono, senza esserne coscienti, le forme dominanti di sfruttamento e potere.
- Mao Valpiana: Conosco troppo poco di questo linguaggio e rischierei di dire qualche sciocchezza. Mia figlia di 19 anni se ne sta interessando, e so che che ha degli amici graffittari di notevoli capacita': potrebbe rispondere molto meglio di me a questa domanda...
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- Giselle Dian: Come si riflette la storia e la societa' statunitense nelle esperienze artistiche che dal pop di Andy Warhol giungono fino alle forme piu' recenti di espressione e ricerca estetica?
- Anna Bravo: Forse conta il fatto che negli Usa c'e' stata la realta' (e la leggenda) della frontiera, una dimensione aperta dello spazio e quindi del tempo e delle idee.
- Daniele Lugli: Confesso piena ignoranza al riguardo. Non ho una diretta conoscenza e mi manca la guida per questo tipo di riflessione che, in tempi lontani, ha rappresentato per me la lettura di Adorno.
- Arianna Marullo: Data l'inscindibilita' dell'arte dalla societa' che la produce, troviamo moltissimo della storia americana nelle esperienze artistiche contemporanee, innanzitutto i temi che sono al centro dello sviluppo economico degli Stati Uniti: dalla celebrazione alla critica della societa' capitalista e del consumismo (una per tutte l'opera di Barbara Kruger I shop therefore I am) all'esaltazione della tecnologia (adoperata in tanta parte della creazione contemporanea, dai nuovi polimeri in pittura e in scultura alla video arte e ai new media).
- Lidia Menapace: Credo ne sia una riflessione anticipata come sempre capita all'arte di essere.
- Mao Valpiana: Posso parlare della mia esperienza personale. La pop art di Andy Warhol si sviluppa e fiorisce contemporaneamente alla musica dei Beatles, le cui copertine dei long playing (ah, quanta nostalgia per il vinile...) hanno rappresentato una inesauribile fonte di ispirazione pacifista (cito solo la copertina del disco "Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band" e il film di animazione Yellow Submarine) anche estetica: la lotta fra i colori e la musica dei Fab Four contro le armi dei Biechi Blu per salvare Pepperlandia, e' davvero una capolavoro artistico per illustrare la difesa popolare nonviolenta.
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- Giselle Dian: Nella formazione culturale e nella pratica artistica di Keith Haring hanno avuto un'influenza non solo gli artisti cui era piu' affine, ma anche personalita' di altri campi creativi, dalla musica alla letteratura. Specificamente nel campo letterario, con riferimento sia alla scrittura creativa che a quella saggistica, quali personalita' sembrano essere state piu' rilevanti?
- Annibale B. Scarpari: Farei una distinzione tra scrittori con cui ha avuto rapporti di amicizia e di collaborazione, come William S. Burroughs, Brion Gysin e Allen Ginsberg; autori classici della tradizione americana della cui influenza un intellettuale statunitense non puo' non risentire, come Whitman; teorici e saggisti che hanno influito sulla sua formazione, come Roland Barthes e Umberto Eco; artisti la cui riflessione teorica - depositata in scritti che hanno anche una rilevanza letteraria - e' stata oggetto di studio e di riferimento da parte di Haring, come Jean Dubuffet e Paul Klee.
Nel caso di Burroughs vi e' stata sia una importante influenza nella sua formazione esplicitamente dichiarata dall'artista, che una successiva feconda ripetuta collaborazione creativa. Cosi' anche per Gysin.
Anche nel caso di Ginsberg i diari di Haring documentano una concreta, quantunque estemporanea, collaborazione creativa.
E' del resto evidente che l'esperienza della poesia americana del secondo Novecento, ed in particolare del movimento che prende le mosse dalla peculiare prosa di Kerouac e dalla poesia di Ginsberg (e dalle esperienze e per cosi' dire dal "magistero" sui generis di Burroughs), ha influenzato non solo l'intera cultura letteraria, artistica e musicale, ma anche il costume e le scelte esistenziali delle generazioni cresciute tra gli anni Cinquanta ed oggi, e si veda ad esempio il libro di Fernanda Pivano, Beat, hippie, yippie, che ne da' ampiamente conto.
Sempre nei diari di Haring vi sono tracce significative di letture di Walt Whitman, e Whitman e' forse uno dei riferimenti cruciali per tutti i creatori di poesia (anche nel linguaggio delle arti visive ed in quello musicale) venuti dopo di lui, non solo in America. Si pensi ad esempio a quei componimenti di Pound e di Ginsberg a lui esplicitamente dedicati, in cui e' riconosciuto a Whitman un ruolo di riferimento ineludibile; ed effettivamente Whitman e' ineludibile, tanto sul piano dello stile: la poesia dai lunghi versi in lunghe lasse, ad un tempo oratoria e conversazionale; quanto sul piano dell'ideologia: essendo uno dei monumenti dell'ideologia democratica americana.
Quanto alle letture di Barthes ed Eco documentate dai diari e dalle dichiarazioni di Haring, esse sono particolarmente interessanti poiche' mettono in relazione l'artista americano con la riflessione semiologica europea (e poi semiotica internazionale) e con alcune delle figure piu' rilevanti del rinnovamento degli studi letterari, estetici e filosofici del secondo Novecento.
La riflessione di Dubuffet - e l'opera, ovviamente, ancor piu' - e' evidentemente cruciale per Haring e la sua prassi artistica. E rilevante ci sembra anche lo studio del Klee teorico cui Haring si dedico'.
Ovviamente vi e' poi la frequentazione di Warhol e del suo entourage, che certo ha costituito un'occasione fondamentale di contatto con molte altre personalita' ed esperienze estetiche multimediali ed anche specificamente grafiche e letterarie lato sensu in forme certo polimorfe.
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- Giselle Dian: E sul versante della musica?
- Annibale B. Scarpari: Trovandosi al cuore della scena artistica newyorkese degli anni Ottanta, ed avendo avuto l'intenso rapporto che ebbe con Warhol e la sua Factory, Haring ebbe rapporti di amicizia - e talvolta di vera e propria collaborazione - con varie figure della musica pop dell'epoca: dai suoi diari e dalle sue interviste emergono ad esempio incontri estemporanei o prolungati rapporti di amicizia e collaborazione con vere e proprie icone della musica di maggior successo anche commerciale, come Grace Jones, David Bowie, Iggy Pop, Michael Jackson, Madonna. Del resto nell'opera di Warhol l'intreccio con la musica di consumo di massa era palese (ad esempio nella serie degli Elvis), ed il rapporto con la musica ad un tempo pop e di ricerca lo indusse a farsi mentore e produttore di Lou Reed e dei Velvet Undergroud (e di Nico, naturalmente).
Ma oltre al rapporto con Warhol e con il pop, oltre all'inserimento nella scena newyorkese (e alla frequentazione assidua dei locali) negli anni dell'esplosione del punk-rock, Haring e' stato figura di riferimento per la cultura hip-hop.
Ed e' stato in contatto anche con un'artista multimediale come Yoko Ono, con tutto cio' che questo implica.
Ne' va dimenticato il suo interesse per il balletto, il rapporto col coreografo Bill T. Jones, la scenografia realizzata nel 1985 per il Ballet National de Marseille...
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- Giselle Dian: Una pratica artistica come quella di Keith Haring si incontra necessariamente anche con la fotografia: basti pensare alla sua attivita' di graffitista con i gessetti nella metropolitana di New York, in cui opera e performance si legano strettamente, ed in cui l'opera e' ad un tempo concreta e labilissima, venendo agevolmente cancellata in breve tempo. In questo caso la documentazione fotografica ha un ruolo rilevante. Su Haring e la fotografia forse si e' indagato ancora poco...
- Annibale B. Scarpari: A lume di naso proporrei tre percorsi di ricerca: il primo, la scuola di Warhol; il secondo: la tradizione della fotografia nella pratica artistica - segnatamente americana - novecentesca; il terzo: l'opera dei fotografi che con Haring hanno avuto rapporti di amicizia, di collaborazione, di affinita'.
Quanto al primo ambito e' fin troppo banale evidenziare come nell'attivita' di Warhol il trattamento di materiali fotografici preesistenti sia decisivo, e costituisca una delle chiavi di accesso alla sua metaproduzione artistico-critica sulle forme e le figure della mitologia contemporanea creata dal sistema dei mass-media, dallo show-business, dallo star-system.
Nel secondo campo credo che potrebbe essere interessante una ricognizione della tradizione che partendo da Man Ray si dipana lungo tutto il Novecento a cavallo tra sperimentazione artistica, testimonianza della contemporaneita', rapporto col mercato (e non solo dell'arte, ovviamente; pensiamo all'opera di Helmut Newton, ad esempio).
Quanto ad alcuni fotografi che hanno collaborato con Haring, e' noto ad esempio che Tseng Kwong Chi ha realizzato migliaia di scatti delle opere e dell'operare di Keith Haring, e che Robert Mapplethorpe, la cui vicenda ha molti punti di tangenza con quella haringhiana, ha realizzato ad esempio un cruciale servizio fotografico di Grace Jones dipinta da Haring, contribuendo cosi' ad una performance la cui ermeneutica sarebbe assai affascinante svolgere.
Meno soddisfacente fu un'estemporanea collaborazione con Richard Avedon.
Un cenno va fatto anche all'amico Yves Arman, in occasione della cui morte Haring ha scritto pagine commoventi nel suo diario.
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- Giselle Dian: E per quanto riguarda specificamente il campo artistico?
- Annibale B. Scarpari: Descrivere, sia pure per minimi accenni, il complesso contesto artistico (e mediatico) in cui si svolge l'operare di Haring e' ovviamente problematico.
Evidenzierei innanzitutto la tradizione dell'arte nordamericana e il suo intrecciarsi con le forme della cultura di massa (cinema, fumetti, musica, tv, pubblicita'...).
Volendo indicare alcuni momenti ed alcune figure della tradizione artistica nordamericana novecentesca darei rilevanza al magistero di Robert Henri (al cui The Art Spirit Keith Haring attribuiva un ruolo importante nella sua formazione), e poi ovviamente da un lato Edward Hopper (che di Robert Henri fu allievo) e dall'altro l'impatto delle avanguardie artistiche europee; proseguendo poi con l'espressionismo astratto, e particolarmente l'opera di Mark Rothko che molto impressiono' Haring, fino all'action painting di Jackson Pollock; poi la vasta e complessa vicenda della pop art, ed al suo cuore Andy Warhol.
Ma naturalmente occorrerebbe sottolineare anche il ruolo di galleristi e mecenati, del collezionismo e dei musei... E svolgere una riflessione sul mercato dell'arte, sull'industria culturale, sul sistema della moda e sullo show-business...
Se invece volessimo indicare le principali puntuali e documentate influenze artistiche sull'opera di Haring ovviamente si deve far riferimento innanzitutto a Jean Dubuffet e alla sua proposta dell'Art brut, oltre che - per altri versi - al citato manifesto di Robert Henri; al gia' ricordato Mark Rothko; a Matisse e Leger; a Klee e Kandinsky; a Mark Tobey e Pierre Alechinsky; a Christo. Un ruolo di mentore e maestro per Haring ebbe Andy Warhol.
Amici e compagni d'avventura furono Jean-Michel Basquiat, Kenny Scharf, Fab 5 Freddy (Fred Brathwaite), LA 2 (Angel Ortz), Niki de Saint-Phalle...
E rapporti e tangenze - e amicizie, ovviamente - vi sono con altre figure cospicue dell'arte contemporanea, da Roy Lichtenstein a Robert Rauschenberg, a Francesco Clemente...
E mi piacerebbe suggerire di esplorare le assonanze con l'opera di Joan Miro', con quella di Alexander Calder...
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- Giselle Dian: Sul rapporto tra l'opera di Keith Haring e le forme della cultura di massa e sul suo peculiare modo di relazionarsi con il mercato dell'arte sono stati gia' versati fiumi d'inchiostro. Cosa si potrebbe aggiungere di non scontato?
- Annibale B. Scarpari: Forse piu' che aggiungere qualcosa varrebbe la pena di svolgere una nuova ricognizione delle riflessioni ormai classiche in materia di cultura di massa e societa' consumista e manipolata, sistema dei mass-media e ragione strumentale, societa' dello spettacolo e funzione dell'arte dinanzi all'alienazione e alla reificazione (anche nella forma della "tolleranza repressiva").
Magari muovendo dalle analisi di Guenther Anders, di Hannah Arendt e dei francofortesi (penso ovviamente soprattutto ai Minima moralia di Theodor W. Adorno), e dalle riflessioni sull'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilita' tecnica di Walter Benjamin.
Ed ovviamente bisognerebbe altresi' riprendere la trama di riflessioni che Umberto Eco veniva svolgendo negli anni '60 in Opera aperta, Apocalittici e integrati ed altri testi ancora.
E naturalmente sugli strumenti del comunicare occorrerebbe tornare alla riflessione di Marshall McLuhan, incrociandola magari con l'antropologia di Levi-Strauss (e con le meditazioni consegnate ad esempio a Il pensiero selvaggio) e con quel che resta di decisivo dello strutturalismo (e nel lascito di Foucault in particolare).
Un'autrice (e newyorchese) che su questo campi di questioni - arte e cultura di massa, linguaggi e societa', alienazione e disvelamento, etc. - ha scritto cose acute ed essenziali e' stata Susan Sontag.
Ma sono questioni complesse che richiederebbero un lungo discorso.
Forse qui sara' sufficiente accennare alla poliedricita' della produzione di Haring ed al suo intrecciarsi con variegate forme dell'abitare e del produrre, dell'industria dello spettacolo e finanche della pubblicita'.
E sarebbe interessante rileggere con adeguata attenzione le sue riflessioni sul mercato e sul pubblico dell'arte, e le ragioni della sua scelta di realizzare un'esperienza innovativa come quella del Pop Shop...
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5.4. Haring in Italia
Tra Keith Haring e l'Italia vi e' stata una relazione significativa, e non solo per l'ovvio motivo che ogni artista figurativo reca nel suo background implicito le esperienze dell'arte italiana, e neppure solo perche' nel circuito artistico newyorchese la presenta di personalita' italoamericane e' ovviamente rilevante; ma anche perche' Haring ha ripetutamente visitato l'Italia ed in Italia ha realizzato allestimenti ed opere rilevanti, ed al suo lavoro sono state dedicate importanti mostre. Nel suo operare artistico in Italia merita ovviamente una menzione particolare il murale realizzato a Pisa sulla parete esterna della chiesa di Sant'Antonio.
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Un contributo di riflessione
- Giselle Dian: Haring e l'Italia, un tema affascinante...
- Annibale B. Scarpari: Si', e da articolare nelle varie sue dimensioni.
Una prima: l''influenza della cultura italiana su Haring; il suo studio di autori, opere ed esperienze italiane.
Una seconda: la sua attivita' artistica in Italia; cosi' variegata: dalla mostra personale a Napoli nel 1983 alla decorazione del negozio di Fiorucci a Milano nello stesso anno; dalla mostra personale a Milano nel 1984 - e nello stesso anno la partecipazione a collettive a Bologna e Venezia - al murale "Tuttomondo" su una parete esterna della chiesa di Sant'Antonio a Pisa nel 1989; ai graffiti romani successivamente cancellati.
Una terza: le riflessioni sull'Italia e sulle esperienze italiane consegnate ai diari, agli interventi, alle interviste.
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- Giselle Dian: Nella cultura italiana novecentesca la cultura (e l'industria culturale e dello spettacolo) statunitense ha ovviamente molto influito, soprattutto attraverso il cinema, la musica, i mass-media, che hanno massicciamente veicolato - ed anche imposto, particolarmente negli ultimi decenni - mode, linguaggi e stili di vita. Nel campo specificamente letterario e' possibile individuare alcuni momenti ed alcuni autori particolarmente rilevanti?
- Annibale B. Scarpari: Sicuramente si'.
Un ruolo significativo lo ha avuto Cesare Pavese che con la sua traduzione pubblicata nel 1932 del capolavoro di Melville, Moby Dick, le sue altre traduzioni, i suoi saggi su autori americani, l'utilizzo di moduli espressivi della letteratura americana e di riferimenti a quel paese ed a quella cultura nella sua stessa opera creativa (da Paesi tuoi a La luna e i falo'), la sua attivita' di operatore culturale (ed in particolare il suo ruolo nella casa editrice Einaudi) ha costituito un punto di riferimento nella ricezione della letteratura statunitense in Italia. Per Pavese la scoperta della letteratura americana negli anni cupi della dittatura fascista fu l'apertura ad una tradizione democratica e libertaria. I suoi saggi sono ora raccolti in Cesare Pavese, La letteratura americana e altri saggi, Einaudi, Torino 1962, con una densa prefazione di Italo Calvino che ne ricostruisce gli elementi essenziali. E fu su proposta di Pavese che la sua allieva Fernanda Pivano tradusse l'Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters che lo stesso Pavese fece pubblicare da Einaudi, e Fernanda Pivano e' poi divenuta una delle piu' importanti figure dell'americanistica nel nostro paese. Su Pavese la Pivano ha scritto molte acute e commosse pagine; si veda ad esempio il testo su Cesare Pavese e l'Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters apparso sul "Corriere della sera" del 29 novembre 2007 col titolo "Amare Spoon River". Sull'amore per la letteratura americana di Pavese, ma anche di Giaime Pintor e di Elio Vittorini, si veda anche il saggio di Umberto Eco, "Il mito americano di tre generazioni antiamericane", nato come intervento a un convegno alla Columbia University nel 1980, ed ora in Idem, Sulla letteratura, Bompiani, Milano 2002.
Insieme a Cesare Pavese un ruolo fondamentale lo ha avuto Elio Vittorini con la sua poliedrica attivita', ma soprattutto avendo curato un'antologia di narratori statunitensi che fece epoca: Americana, pubblicata da Bompiani nel 1941 (e sequestrata dalla censura fascista). Vittorini, oltre che importante narratore, fu anche rilevante traduttore di autori statunitensi, e straordinario consulente editorale ed operatore culturale (basti ricordare la rivista "Il Politecnico").
Della generazione immediatamente successiva a quella di Pavese e di Vittorini ovviamente va ricordata Fernanda Pivano, che e' forse l'autrice italiana che ha piu' intensamente vissuto le esperienze della letteratura americana contemporanea, in un profondo rapporto personale con pressoche' tutte le figure piu' importanti di essa, da Ernest Hemingway ad Allen Ginsberg fino agli autori piu' giovani. I libri di Fernanda Pivano sulla cultura e sulla societa' statunitense sono un viatico indispensabile per qualunque studioso.
Tralasciando molti altri autori, vorrei ricordare anche almeno Umberto Eco, la cui opera teorica piu' rilevante, il Trattato di semiotica generale, e' stata scritta direttamente in inglese e pubblicata in prima edizione negli Stati Uniti, e solo successivamente tradotta in italiano. La sua opera di studioso e' assai influente nel dibattito filosofico americano (e del resto nelle universita' americane ha spesso insegnato) molto prima che divenisse anche autore di romanzi di successo internazionale.
Sarebbe opportuno sottolineare anche che vari scrittori americani hanno avuto un rapporto significativo con l'Italia, non solo con la cultura e con la letteratura italiana, ma anche con il nostro paese e la gente che ci vive. In questo agganciandosi anche a una tradizione europea e finanche specificamente anglosassone (si pensi a taluni poeti romantici inglesi). Alcuni autori americani hanno avuto con l'Italia un rapporto assolutamente peculiare e privilegiato; bastera' ricordare alcuni casi emblematici: Ernest Hemingway, che in Italia partecipo' alla prima guerra mondiale (e su cui cfr. ad esempio la monografia di Fernanda Pivano, Hemingway, Rusconi, Milano 1985); Ezra Pound, che con l'Italia ebbe un rapporto intenso - e che commise il tragico errore di lasciarsi affascinare e ingannare dal dittatore fascista con le note drammatiche conseguenze (una buona introduzione a Pound e' il libro a cura della figlia Mary de Rachewiltz, Per conoscere Pound, Mondadori, Milano 1989); Gregory Corso, di famiglia di origini italiane, tra i poeti americani del secondo Novecento appartenenti all'esperienza (o forse si potrebbe dire al movimento) beat uno dei piu' interessanti: di cui va ricordata particolarmente la poesia Bomb apparsa come volantino nel 1958 (e pubblicata in Italia come foglio staccato inserito nel volume a cura di Fernanda Pivano, Poesia degli ultimi americani, Feltrinelli, Milano 1964, poi 1973; ma cfr. anche due suoi volumetti: Gregory Corso, Benzina, Guanda, Parma 1969; e Idem, Poesie, Lato side, Roma 1981 - con un saggio introduttivo della Pivano).
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