http://contropiano.org/ 26 Febbraio 2020
Sono malato di COVID-19 e sto bene
Pubblichiamo questa intervista, ripresa dal sito Esanum – del Network dei medici, cui possono accedere solo gli iscritti all’albo – per dare il nostro piccolo contributo alla riduzione della psicosi di massa sul coronavirus, indotta da una classe politica che guarda solo ai sondaggi (tutta; di governo e d’opposizione), da virologi “star” spernacchiati spesso da colleghi altrettanto preparati, e soprattutto da un universo mediatico mainstream che sa soltanto inseguire “il mostro in prima pagina”. E che dunque è quasi sempre costretto a inventarsene o “gonfiarne” uno. *****
Il Dr. Omar Alquati è un medico anestesista-rianimatore di 43 anni, dipendente della ASST di Lodi. Lavora nelle unità di terapia intensiva degli ospedali di Lodi e Codogno, dove era in servizio fino a sabato scorso. In questo momento si trova in ospedale, ma ricoverato in qualità di paziente, presso il reparto di Malattie Infettive del Policlinico San Matteo di Pavia. Lo abbiamo raggiunto al telefono, per farci raccontare come vive questi giorni da ammalato di COVID-19.
Ciao Omar, come stai? In questo momento bene, a parte qualche dolore osseo, ma niente di che. La febbre è già andata via, quindi direi che va bene.
Ci racconti cosa ti è successo in questi giorni? Sono ricoverato qui da domenica. Il giorno prima ero al lavoro, a Codogno. Durante il mio turno ho iniziato ad avere sintomi molto simili a quelli di una sindrome influenzale: dolori articolari, febbre, mal di gola, tosse. Per questo sono stato sottoposto al test con tampone faringeo e, nel frattempo, sono stato messo in isolamento, insieme ad altri colleghi. Il test ha avuto esito positivo, quindi ieri pomeriggio sono stato trasferito in ambulanza qui a Pavia, nell’unità di malattie infettive. Sto abbastanza bene, mi stanno solo monitorando. Non avendo sintomi respiratori importanti, non mi hanno prescritto alcuna terapia. Un collega infettivologo si è fatto scappare che secondo lui il ricovero per casi come il mio gli pare una misura eccessiva, ma questa è al momento la procedura da seguire. Il reparto è pieno di pazienti nelle mie stesse condizioni. Per fortuna, questa sindrome causa gravi problemi respiratori solo in un numero esiguo di casi, per i quali può anche servire il ricovero in terapia intensiva. Quasi sempre, finora, si sono manifestati sintomi simili a quelli della classica influenza. Dieci giorni fa, se mi fosse capitata la stessa cosa, sarei stato a casa un paio di giorni e poi sarei tornato tranquillamente al lavoro. Quanti tuoi colleghi si sono ammalati con te? Al momento siamo in tre. Noi copriamo turni in terapia intensiva sia a Lodi sia a Codogno. Nessuno di noi ha sintomi gravi. So che si sono ammalati anche altri colleghi che lavorano in clinica medica, ma non so esattamente quanti siano. Nessuno, che io sappia, ha una forma severa della sindrome. Ti sei fatto un’idea di dove e come potresti essere stato contagiato? Credo di essere stato infettato da un collega, anche lui adesso ammalato, col quale mi sono avvicendato in servizio la settimana scorsa. Eravamo entrambi al lavoro a Codogno proprio nei giorni in cui si è sospettato e poi diagnosticato il primo caso che ha fatto scattare l’allarme. Coi pazienti ho sempre usato tutte le protezioni. Quindi non credo di essere stato infettato da un paziente, è molto probabile che abbia contratto l’infezione dal collega, quando le protezioni non le avevo. Il periodo di incubazione è comunemente di circa 5 giorni secondo l’OMS, i conti tornano. Se non fosse andata così, allora son stato contagiato fuori, come son stati contagiati molti altri. Come ti sembra che si stia gestendo questa emergenza, dal punto di vista sanitario? Non nascondo che ci sono stati diversi momenti critici in questa prima fase. Secondo me, molti aspetti si sarebbero potuti gestire meglio. A bocce ferme si dovrà fare un’analisi precisa di alcuni passaggi, ma non è questo il momento di parlarne. Certamente le misure cautelative che si sono prese in queste ore sono quello che si dovevano prendere. Sono misure che hanno adottato anche in Cina. Bisogna contenere il contagio, quindi è giusto limitare le attività che comportano l’assembramento di persone. Se si vuole rallentare la diffusione del virus, non si può immaginare di fare qualcosa di diverso. Si deve limitare la potenziale esposizione al virus. Limitare, perché impedire ormai è un termine che non ha più senso. Sarebbe come andare a chiudere la stalla dopo l’uscita dei buoi. I buoi son scappati, bisogna limitare i danni. Il primo caso che noi ci siamo trovati fra le mani a Codogno, probabilmente è stato contagiato diversi giorni prima. E come lui tanti altri, che a loro volta chissà quanti altri ne hanno infettati. Un recente report dell’Imperial College London stima che, al di fuori della Cina, circa due terzi dei casi di infezione da SARS-CoV-2 non siano stati rilevati. Dobbiamo immaginare che questa emergenza duri diverso tempo. Cosa ti aspetti di trovare in ospedale, quando tornerai al lavoro? Secondo gli infettivologi con cui ho parlato, il virus è diffuso quasi certamente anche in altre zone d’Italia. I numeri stanno crescendo rapidamente in Lombardia e Veneto perché qui si sta cercando il virus, io non so se in altre regioni lo stanno cercando. Probabilmente molte sindromi da coronavirus sono state scambiate per sindromi influenzali. Se si riuscirà a rallentare la diffusione del virus, non mi aspetto di lavorare in scenari apocalittici. L’allarmismo che si è diffuso in questi giorni ti sembra motivato? No, per nulla. Sulla base dei dati che abbiamo, la quasi totalità dei contagiati svilupperà una sintomatologia lieve. Molti degli infettati non svilupperà nemmeno la malattia. Certamente una piccola quota potrà complicarsi e finire in terapia intensiva, ma si tratterà di una piccola quota. Anche l’influenza stagionale porta alcuni casi in terapia intensiva. La mortalità è alta tra i pazienti più anziani, vero, ma questo non deve stupire. Per i pazienti più anziani, che spesso sono i più debilitati e che hanno diverse comorbilità, è infatti molto difficile superare la terapia intensiva. Qualunque sia il motivo per cui ci entrano. Parlavo di questo proprio poco fa con alcuni colleghi che lavorano in rianimazione a Bergamo. Secondo te perché, allora, soprattutto sui giornali e in televisione, questa epidemia viene raccontata in modo da far crescere la paura, anziché in modo da rassicurare la popolazione? Tanto allarmismo, è vero, soprattutto nei titoli dei giornali. Ricordo che anni fa successe la stessa cosa con l’HIV/AIDS. Se ne parlava in termini terroristici, poi si è arrivati addirittura a non parlarne più, oggi sembra quasi che la malattia sia sparita dalla realtà. Probabilmente, lo spero, succederà la stessa cosa anche per la COVID-19. Oggi se ne parla come se fosse Ebola, tra qualche tempo si cambieranno i toni e si riuscirà a far comprenderà meglio che l’infezione da coronavirus non è una condanna a morte. Purtroppo le informazioni sono poche, non sono definitive e questo non aiuta. Questo coronavirus è certamente aggressivo e il fatto di non avere un vaccino pronto rende la situazione seria. Bisogna evitare che si infetti e si ammali tutta la popolazione tutta insieme, questo farebbe collassare il sistema sanitario e porterebbe a un disastro economico. L’allarmismo, comunque, non c’è solo sui giornali. Anche in ambito sanitario si è iniziato con il massimo livello di cautela e adesso, dopo pochi giorni, si sta facendo qualche passo indietro. Giovedì scorso i colleghi che erano entrati in contatto coi pazienti infetti erano stati messi in quarantena; oggi quegli stessi colleghi sono stati fatti rientrare al lavoro, muniti di protezioni, a contatto con i pazienti. Io sono ammalato, ricoverato, ma nessuno si avvicina a me bardato con tute e caschi di protezione. Mascherina, altri presidi quando serve, solo questo. Sei dunque tranquillo, questo ci fa piacere. Siamo autorizzati a stare tranquilli anche noi? Anche in caso di sindrome severa, i medici sapranno cosa fare. Questo nuovo coronavirus non causa nulla che un rianimatore con un minimo di esperienza non abbia già visto nella sua carriera. L’ARDS è una situazione che tutte le terapie intensive sanno gestire. Sono condizioni cliniche che noi che lavoriamo in terapia intensiva vediamo spesso. Il coronavirus, da questo punto di vista, non cambia nulla nella nostra pratica clinica. Un paziente critico può poi complicarsi in modo irreversibile, ma è davvero improbabile che queste situazioni possano costituire la maggioranza dei casi. Se si riuscirà a limitare la diffusione del virus, potremo stare tranquilli.
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