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3 aprile 2020
BERGAMO
di Francesca Borri
In un angolo, nove sacchi trasparenti che neppure noti, tra le attrezzature ancora imballate di questa terapia intensiva allargata d'urgenza. Ma poi, dentro, intravedi delle Nike da corsa, un Twix. Un orologio. Sono gli effetti personali dei dieci ricoverati: uno è stato appena consegnato alle pompe funebri. Perché ora che i funerali sono sospesi, questo è tutto quello che la tua famiglia rivedrà di te.
Muori solo, a Bergamo. E solo vai dritto al cimitero, con un prete che benedice la tua bara con un iPhone sopra perché a casa possano sentire.
Fino al 10 marzo, il Policlinico San Pietro era specializzato in tutt'altro. In fecondazione assistita. Come molti ospedali, non ha mai avuto un reparto Malattie Infettive. Ora, invece, i suoi 254 posti sono tutti Covid-19. E i quattro di terapia intensiva sono diventati dieci. Ma quella che un tempo era l'area dei malati più critici, adesso è riservata ai più sani: a quelli con più probabilità di sopravvivere. Perché la verità, è che per questo virus non c'è ancora alcuna cura: e ai fortunati che sono qui, in questa Italia che ha scoperto di avere 8,6 letti di terapia intensiva ogni 100mila abitanti, contro i 34 della Germania, non viene somministrato che ossigeno. E sedativi. Dei dieci pazienti, il solo sveglio è il primo, un povero cristo con la barba sfatta e lo sguardo sfinito, riverso leggermente di fianco con le braccia come in croce. Gli altri hanno gli occhi aperti: ma sono immobili. Sembra di stare in un'astronave, tra mille schermi, mille luci, ma persino qui che la tecnologia è al suo massimo, non è questione di scienza, ma di natura: al momento, più che farmaci più o meno efficaci, esistono solo sistemi immunitari più o meno forti.
L'unica differenza, è che in ospedale a un certo punto possono iniettarti morfina.
Mentre scrivo, in Italia siamo a 92.472 contagiati e 10.023 morti, e la Lombardia, con le sue 5.944 vittime, resta la zona più rossa. Tra i positivi, qui si ha un decesso ogni 3 minuti e 35 secondi. "E un po' è anche l'effetto dell'ordine di curarsi a casa il più a lungo possibile. Di telefonare al 118 solo quando proprio non si respira più", dice Bruno Balicco, il primario. Un ordine inevitabile, perché gli ospedali sono intasati. E le bare così tante, che è l'esercito a trasportarle via. O si avrebbe un'epidemia nell'epidemia. "Ma così, i malati arrivano qui allo stremo. Con i polmoni ormai compromessi", dice. Come il paziente 6, che nonostante i tubi, cerca aria. Disperatamente. Ha 67 anni, e nessuna altra patologia. Alla sua sinistra, un monitor indica la sua frequenza cardiaca, la pressione, la temperatura, e il livello di ossigeno nel sangue. Ora che ai parenti è vietato entrare, questo è tutto quello che si sa di una vita: cifre, diagrammi, percentuali. Su un ripiano, accanto a due boccette di medicine, non c'è che un foglio fitto di tabelle. Non c'è un nome, niente.
Non c'è tempo.
A un tratto, il corpo ha come un sussulto. E si accende una luce rossa. Un'infermiera si precipita, gli armeggia intorno. Fino a quando la luce si spegne.
Dopo un paio di minuti, inizia a lampeggiarne un'altra.
Aveva febbre da tre settimane. Ma gli ospedali, ora, spaventano quanto il virus: spesso sono i primi dei focolai. I medici morti sono già 51, i contagiati 6.025, e anche Bruno Balicco, in realtà, ha 69 anni, è in pensione, sostituisce il primario: che è a casa positivo.
Come circa il 20 percento del personale.
Molti, fortunatamente, guariranno. Come già tanti dei ricoverati. Ma in un certo senso, è un'epidemia complicata proprio per questo. I malati sono tutti uguali, dice Bruno Balicco, hanno tutti lo stesso virus: ma sono tutti diversi. "L'evoluzione varia. E quindi, varia l'effetto dei farmaci con cui tentiamo di trovare una cura. Per cui la mortalità non è alta, è vero, rispetto all'altissimo numero dei contagiati. Ma ti senti sopraffatto, perché dimesso uno, arriva un altro: e sostanzialmente, ricominci da zero", dice.
Polmoniti così, qui erano tipo cinque l'anno. Ora anche 50 al giorno.
Ha l'aria stravolta. Come tutti gli altri medici e infermieri. Da quando si sono imbattuti nelle prime polmoniti anomale, verso febbraio, è stato tutto rapido, un giorno era un malato, e il giorno dopo dieci: e da piccolo ospedale di provincia, si sono ritrovati al fronte. A sminuzzare pillole con il tritacarne di casa, perché il tritapillole sta chissà dove, tra le scatole ancora da aprire. Le attrezzature ancora da montare. Eppure, quando chiedo se alcuni si sono tirati indietro, Silvia Vanalli, 46 anni, a capo della squadra di infermieri, non capisce la domanda. E non una, ma tre volte. In fondo, dico, nessuno obbliga uno che nella vita ha scelto di fare l'oculista a stare in prima linea tra i contagiati. Ha il diritto, no?, di non venire, dico. "Non venire? In che senso?", dice.
A nessuno è mai passato per la testa.
"Non importa quale sia la tua specializzazione", dice. "Sei prima di tutto un medico. E prima di tutto, fai tutto il possibile".
Anche se ora, il possibile non è che un po' di ossigeno. Il paziente 6 cerca aria, ancora, boccheggia, si agita. Scosso da fremiti. E a ogni fremito, reclina un po' il capo, schiude gli occhi, questi occhi rovesciati. Bianchi. Un'infermiera gli aspira la saliva, mentre sullo schermo il numero blu del livello dell'ossigeno nel sangue, che dovrebbe essere 100, scende a 93, poi a 90. Poi risale, 91. Scende di nuovo. Tubi e tutto, sembra non assorbire l'ossigeno. Si avvicina un'altra infermiera. "Chiamo il dottore", dice.
"Chiama la famiglia".
La terapia intensiva è da sempre il più duro dei reparti. Quello da cui già in condizioni normali, il 25 percento dei pazienti non torna. E in cui, quindi, il rapporto con la famiglia è cruciale: perché bisogna provare a salvare anche chi resta vivo. Ma se prima di tutto questo, si avevano due visite al giorno, ora tutto si riduce a due telefonate. E a volte, non al giorno, ma due e basta: quella in cui avvisi della morfina, e quella in cui avvisi di avvisare le pompe funebri. E ammesso di avere risposta. Hanno rintracciato solo ora la figlia della signora di 70 anni morta ieri. Continuavano a chiamare il marito: che intanto, è finito in ospedale anche lui. "Arrivo subito", dice la figlia. E Silvia Vanalli resta un momento in silenzio. "No, in realtà… No, non può", dice. "Neppure adesso". E la voce si schianta in frantumi. "Abbiamo tentato di tutto. Di tutto. Fino all'ultimo", dice. "Con la sua mano nella mia. Come… Come fosse stata la sua, giuro. La sua", dice, e a ogni parola, sembra sparire un po' di più nella sua tuta bianca tipo Chernobyl, con il nome scritto a pennarello per distinguersi dagli altri, perché questo virus ci ha reso tutti uguali, qui, tutti soli, tutti a un metro gli uni dagli altri - E ora?, ripete la figlia, E ora?
"E ora… E ora bisogna organizzarsi con le pompe funebri", dice.
E resta così, a singhiozzare con il telefono a mezz'aria.
Medici e infermieri sono i nuovi eroi dell'Italia. Sono ogni giorno in ogni prima pagina. Ma in realtà, tutto questo è come se fosse un altro mondo. Perché fuori, intanto, il 30 percento delle industrie della Lombardia è ancora attivo, e complessivamente, lavora ancora circa il 70 percento dei lavoratori. Per tanti, la priorità è l'economia. In teoria, il blocco esclude solo la produzione dei beni essenziali, e dei beni necessari alla filiera dei beni essenziali: in pratica, sono aperti anche i cantieri della Marina Militare di Taranto, addetti alla manutenzione delle portaerei. L'Istituto Superiore della Sanità aveva segnalato già il 2 marzo l'urgenza di una zona rossa per Bergamo e provincia. Ma in quei giorni, il sindaco, Giorgio Gori, era impegnato nella campagna "Bergamo non si ferma".
E in effetti, non si è fermata: oggi macina circa 50 morti al giorno.
E Armani va a pieno ritmo, sì. Come sempre. Ma ora fa solo camici monouso.
Mentre il resto del paese si scambia ricette di torte e consigli contro la noia, qui è trincea. Con il rimorso con cui convivono tutti i veterani: il rimorso di avere la guerra addosso, e trascinarci dentro anche chi si ama. E non l'ha scelta. "A casa, parlo con il mio compagno da dietro una porta", dice un'infermiera. "Ma onestamente, se posso non parlo proprio. Perché sono qui, pronta a rischiare tutto per degli sconosciuti: ma poi lascio solo chi non mi ha mai lasciato sola", dice, e fa per dirmi altro: ma poi mi fissa, un attimo, e non dice niente, e prepara una siringa. E torna dal paziente 6. Che ancora cerca aria. Ancora si agita. "Tranquillo", gli dice, ma le luci rosse continuano ad accendersi, e il numero blu continua a scendere: e a ogni fremito, sembra quasi volersi liberare dai tubi. Come se non fossero abbastanza. Da un angolo, sembra avere lacrime. O è solo un riflesso? Chi è? Di dov'è? E cosa fa, nella vita? Quale sarà il suo sacco, all'ingresso? Quello con le Nike da corsa? Chi lascia? E quanto comprende, di tutto questo? Quanto sente?
Quanto vedono, questi occhi che sembrano guardarti?
"Tranquillo. Tranquillo", gli ripete, con la voce che si fa un sussurro, sempre più, mentre gli asciuga via le lacrime, e lo accarezza, piano. E fermo, lo accompagna via.