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4 giu 2020
L'ITALIA E IL COVID-19
COSA NON HA FUNZIONATO
di Francesca Borri
Nella notte tra il 23 e il 24 febbraio Ernesto Revelli, 83 anni, muore. Muore al Pesenti Fenaroli di Alzano Lombardo, vicino Bergamo. E muore di COVID-19. In Italia, è il primo, e il 25 febbraio Giuseppe Marzulli, il direttore dell'ospedale, scrive allarmato ai suoi superiori: Qui ormai arrivano positivi e non positivi insieme, dice. Bisogna chiudere il Pronto Soccorso. Chiuderlo subito, dice. L'email è indirizzata a Roberto Cosentina. A gennaio, è stato condannato per avere coperto Leonardo Cazzaniga, un medico dell'ospedale di Saronno ora all'ergastolo: ha ucciso 12 pazienti con un mix tossico di farmaci. E anche il marito dell'amante. Era eutanasia, hanno detto gli avvocati della difesa.
Risparmiava ai malati sofferenze inutili.
Il Pesenti Fenaroli resterà aperto.
In realtà, già il 22 febbraio, già il giorno prima del primo morto, il responsabile del 118 di Bergamo, Angelo Giupponi, chiede alla Regione Lombardia di istituire ospedali COVID e non-COVID. Il 118 squilla sempre più spesso. Gli ospedali iniziano a intasarsi. E soprattutto, a diventare pericolosi: dentro, si infettano tutti. Ma da Milano, la risposta è netta: "Non abbiamo tempo per queste cazzate".
A marzo, Alzano Lombardo avrà 112 morti contro i 10 del marzo 2019. Su poco più di 13mila abitanti. A marzo, perderà l'1 percento della sua popolazione.
E dal Pesenti Fenaroli, il virus dilagherà ovunque.
Bergamo sarà la città con il più alto eccesso di mortalità al mondo: +568%.
Mentre scrivo, i morti in Italia sono 32.877. E la metà, 15.874, sono morti in Lombardia. E in fondo, si dice, era inevitabile. Perché la Lombardia, sì, è la Germania d'Italia, è la regione più avanzata, produce il 25 percento del PIL del paese: ma è stata la prima al mondo a essere colpita. E poi l'Italia, si sa, ha anche un'età media molto alta, seconda solo al Giappone: ha il 23 percento della popolazione sopra i 65 anni. E ha uno stile di vita che favorisce i contagi. Si sta molto insieme, la cena a casa spesso è anticipata da un aperitivo con gli amici, la colazione è colazione al bar, e le famiglie, complice il declino del welfare, sono famiglie allargate. Sono i nonni, qui, a occuparsi dei nipoti. E i figli dei genitori. E' stata una tempesta improvvisa, dice ora lo spot della Regione Lombardia sulla fine del lockdown, e il riavvio dell'economia: un virus così nuovo, e così feroce, da travolgere persino il migliore sistema sanitario d'Italia. Persino noi.
Eppure, nel vicino Veneto i morti a oggi sono 1.878.
A marzo, al picco dell'epidemia, la Lombardia ha avuto 7.593 morti, il Veneto 499. E cioè, 445 ogni 100mila abitanti contro 196.
Ed è la stessa Italia. Identica. La Lombardia e il Veneto hanno lo stesso tipo di economia, con gli stessi, stretti rapporti con la Cina: e tranne che una diversa densità di popolazione, hanno la stessa età media, la stessa spesa sanitaria pro capite, lo stesso numero di medici, lo stesso numero di posti di terapia intensiva. E naturalmente, lo stesso virus. Il primo caso è stato individuato il 20 febbraio. Lo stesso giorno. Ma la differenza è che negli ultimi anni, nonostante una stessa amministrazione di centrodestra, la Lombardia ha puntato sulla sanità privata, che a sua volta, ha puntato sui settori più remunerativi, come l'oncologia, la cardiologia, la chirurgia. Il Veneto, invece, ha puntato sulla sanità pubblica. Sul territorio. E con una rete di intervento domiciliare che serve 3,5 abitanti ogni 100mila, contro gli 1,4 della Lombardia, ha fronteggiato l'epidemia con tamponi a tappeto, isolamento dei malati e tracciamento dei contatti - Test, Treat, Track: le cosiddette 3T raccomandate dalla comunità scientifica. E il 21 maggio, ha registrato zero nuovi contagiati.
Prima regione in Italia.
Poco dopo, comunque, il 23 maggio, anche l'assessore alla Sanità della Lombardia, Giulio Gallera, ha rassicurato tutti. Parlando dell'Indice R0, l'indice di contagiosità, e cioè il numero di nuovi infetti per ogni infetto, ha detto: Ormai, qui è 0,51. "Significa che mi contagio solo se ho vicino due infetti nello stesso momento".
"E non è facile", ha detto.
Ed è così che il 23 febbraio, mentre gli ospedali del Veneto sono già tutti off-limits agli esterni, e impegnati ad allestire reparti COVID-19, il Pesenti Fenaroli, dopo che un suo primo paziente risulta positivo, viene velocemente disinfettato, con tecnologie che la direzione assicura essere state le migliori esistenti: e un'infermiera, intervistata su La7, ricorda come poco più che secchio e stracci. In due ore, è tutto di nuovo a regime. Come se niente fosse. "Mia nonna era lì dal 16 febbraio", dice Lara Grasseni. "Aveva 90 anni. E proprio per questo, eravamo lì notte e giorno, tutti, a turno, figli e nipoti. In 13. Ma avevamo letto del virus, ovviamente: e ai medici che cominciavano ad avere la mascherina chiedevamo se era sicuro. Sì, sì, dicevano. E ci siamo ammalati tutti", dice.
Anche la madre di Sabry Bonetti entra il 18 febbraio per tutt'altro. Per una radioterapia. Ma non viene trasferita in un altro ospedale. Resta lì. E il 15 marzo, muore. Positiva. "Poi ora mi diranno che aveva già il virus. Non ho prove. Ma nessuno di noi si è ammalato", dice. "Neppure sua madre, con cui viveva. E che ha 83 anni".
E il Pesenti Fenaroli non è un'eccezione. In molti ospedali della Lombardia, il migliore sistema sanitario d'Italia si rivela in realtà uno dei migliori alleati del COVID-19. Alessandro Manzoni ha 71 anni, ed è stato appena operato all'anca. Il 20 febbraio inizia la riabilitazione al San Camillo di Brescia. Quattro giorni dopo, in città si ha il primo caso di COVID-19: ma tutto continua come prima. Anche se via via, sempre più pazienti hanno febbre e tosse. Il 6 marzo, temendo il contagio, firma per essere dimesso di propria volontà. E il 7 marzo scrive alla direzione, spiegando perché è andato via. La sera stessa ha già la febbre. Il 16 marzo sarà ricoverato d'urgenza, ma non verrà neppure intubato: gli ospedali sono al tracollo, e l'ossigeno, ormai, è riservato ai più giovani.
Morirà chiedendo aria.
Morirà lucido. E disperato.
E proprio per questo, proprio per avere più spazio possibile negli ospedali, l'8 marzo la Regione Lombardia approva la delibera XI/2906. E chiede alle RSA, le Residenze Sanitarie Assistite, di occuparsi dei positivi a bassa intensità. Il COVID-19 ha il più alto tasso di mortalità sopra gli 80 anni: che è l'età del 75 percento degli ospiti delle RSA. In quelle della Lombardia, che sono il 20 percento delle 4.629 RSA italiane, e in cui il 94 percento degli ospiti è in condizioni già così critiche da non essere autosufficiente, sarà un'ecatombe: è nelle RSA che morirà il 53,4 percento dei morti della Lombardia. Nella sola provincia di Bergamo, a marzo muoiono 600 ospiti su 6mila. Spesso, il personale non ha neppure le mascherine. E comunque, al Pio Albergo Trivulzio di Milano, la più blasonata delle RSA, il direttore Giuseppe Calicchio vieta di usarle. E sospende Luigi Bergamaschini, il geriatra che decide di disobbedirgli. E autorizzarle. Ai sindacati che gli scrivono, più e più volte, risponde: Sono regole dettate da allarmismo.
Ed è già fine marzo. Ha già avuto decine di morti per polmonite.
Il 6 maggio, Luigi Bergamaschini finirà sotto ossigeno.
Privi di mascherine, i medici diventano rapidamente vittime e vettori dell'epidemia. Ma, ancora, dei 150 morti al 1 maggio, 89 sono morti in Lombardia. In cui il tasso di infezione degli operatori sanitari è 19,1 volte più alto di quello medio: in Veneto, è solo 3,9 volte più alto. Perché è vero che i dispositivi di protezione mancano in tutta Italia, a causa della mancata attuazione del Piano Pandemia approvato nel 2009. E rimasto carta. Ma in Veneto, i medici dei reparti COVID sono sottoposti a tampone ogni 10 giorni, e quelli degli altri reparti, ogni 20 giorni. E se ti ammali, torni in servizio solo dopo due tamponi negativi. A Bergamo, invece, al Papa Giovanni, l'ospedale più in prima linea d'Italia, se hai sintomi resti a casa. E dopo 14 giorni, se stai meglio, torni in servizio.
Senza tampone né niente.
Non è colpa nostra, sostiene la Regione Lombardia. Mancano i reagenti.
E infatti, il Veneto inizia subito a produrli.
"Un sistema centrato sul paziente non è adatto a un'epidemia: è necessario un sistema centrato sulle comunità", avevano avvertito il 21 marzo 13 primari del Papa Giovanni dalle pagine del New England Journal of Medicine. E Luca Lorini, il direttore della Terapia Intensiva, l'ha ripetuto e ripetuto persino nei giorni in cui aveva intubati, e giornalisti, ovunque: Il problema vero non è qui, diceva, non è negli ospedali, è qui intorno. Perché intorno, intanto, era saltato tutto. Non c'era più un medico. E i morti morivano di virus, sì: ma non solo. A fine febbraio l'ATS, l'Agenzia di Tutela della Salute, raccomanda ai medici di base di gestire i pazienti per telefono. Per evitare di contagiarsi e contagiare. "E quindi a mio padre, la prima volta è stato detto che era una semplice allergia. Che era sufficiente una pomata", dice Consuelo Locati. "Alla seconda chiamata, il medico gli ha aggiunto un antistaminico. Alla terza, è sparito, con mio padre che ormai aveva febbre, tosse. E questo che non rispondeva più. Fino a quando, in privato, abbiamo ottenuto una radiografia. E diceva: polmonite interstiziale", dice. Ma a quel punto, tecnicamente, senza un tampone, il padre era solo un sospetto COVID. E quindi, ha continuato con la tachipirina. "La tachipirina e basta. Perché senza linee guida, era l'unico farmaco autorizzato".
E a Bergamo, le linee guida sono arrivate solo il 25 marzo.
Dopo 7.503 morti.
"La verità", dice, "è che non è morto di polmonite. Ma di polmonite e pomata".
Ogni risorsa è stata concentrata sull'aumento dei posti di terapia intensiva. Ma mentre il nuovo ospedale di Milano, costato 26 milioni di euro, non ha che tre pazienti, molti, qui, moltissimi, sono ancora vivi grazie a uno stetoscopio da cento euro. Lo stetoscopio di Riccardo Munda. Che quando ha letto la comunicazione dell'ATS, si è comprato di tasca sua 600 euro di camici e mascherine, e una Vaporella, e non solo ha continuato a visitare casa a casa, come sempre: ma ha iniziato a visitare anche i pazienti degli altri. E finora, ha avuto zero morti. E zero ricoverati. Come tutti, non ha una terapia. Non illude nessuno. "Ma proprio perché non c'è una cura, è fondamentale intervenire subito. E quindi non solo visitare il paziente, ma visitarlo spesso: per aiutare il fisico a reagire, calibrando e ricalibrando i farmaci a ogni suo minimo segnale", dice. E cioè il contrario esatto di quanto viene consigliato. Resistere: e cercare il medico solo quando proprio non si respira più. "Quando i polmoni sono ormai compromessi", dice. "Ed è troppo tardi".
"Non giudico nessuno. Non sono Dio. Ma visitare per telefono non significa niente", dice. "Conosci il giuramento di Ippocrate, no? Dice: Presterai la tua opera in scienza e coscienza. E per ora la scienza, è vero, non c'è. Ma la coscienza, quella sì".
Eppure da Milano, da Roma, dagli uffici responsabili dell'emergenza COVID-19, e della strategia per fronteggiarla, nessuno ha mai chiamato Riccardo Munda. Racconti la sua storia, e ti ribattono: Solo fortuna. Dal 4 maggio, il governo ha iniziato ad allentare le restrizioni del lockdown: ma la cosiddetta Fase 2 è identica alla Fase 1. Niente tamponi, niente test, niente tracciamento dei contagi. Niente rafforzamento dell'intervento sul territorio. Nessun criterio scientifico, dice il virologo Andrea Crisanti - l'ideatore della strategia del Veneto. "Abbiamo chiuso l'Italia con 1.797 nuovi casi al giorno, e abbiamo riaperto tutto, tutto insieme, con 2.200. L'unica speranza", dice, "è che il virus sparisca con l'estate".
In quest'ultima settimana, dal 18 al 25 maggio, in Lombardia i medici di base hanno segnalato 3.157 casi di sospetto COVID: solo 25 sono stati sottoposti a tampone.
A Milano, solo 9 su 603.
Con un crollo del PIL del 9,1 percento, per l'Italia la priorità, ora, è l'economia. Ora e ancora. Perché il 2 marzo, quando il focolaio di Vo' Euganeo, in Veneto, è sigillato già da giorni, l'Istituto Superiore di Sanità consiglia di isolare Alzano Lombardo, e l'intera Val Seriana. In base alla legge 833/1978, sia il governo che la Regione Lombardia hanno il potere di istituire una zona rossa, come anche i sindaci: ma nessuno interviene. Sono in gioco 376 aziende. E 4mila dipendenti. E gli imprenditori lanciano la campagna: 'Bergamo non si ferma'. Oltre 30mila morti dopo, e anzi, 50mila, secondo i dati dell'Anagrafe, che confrontano il 2020 con il 2019, includendo quindi anche i decessi in casa, non hanno cambiato idea. Affatto. Fortuna che non abbiamo chiuso, ha detto il presidente di Confindustria Lombardia, Marco Bonometti. Altrimenti, ha detto, chi avrebbe prodotto le bombole di ossigeno?
La 376 aziende della Val Seriana fatturano 700 milioni di euro l'anno.
La crisi COVID costa all'Italia 47 miliardi di euro al mese.
Il 27 febbraio il padre di Sara Gargantini arriva al Pronto Soccorso del Pesenti Fenaroli. Ha 81 anni, e febbre da dodici giorni. Viene dimesso alle 3.28 del mattino. O meglio, viene lasciato fuori, al freddo, in mezzo alla strada: gli prescrivono degli antibiotici, e gli dicono di chiamarsi un taxi. Capisce perfettamente di cosa si tratta davvero. Ormai, è su tutti i giornali. Entrerà in casa, e per non contagiare la figlia, che abita di sotto, le lancerà dalla finestra il referto, dicendo solo: Fammi giustizia.
Poche ore dopo, verrà a prenderlo un'ambulanza.
E non lo vedranno mai più.