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15 maggio alle ore 01:53 ·
ALZANO E NEMBRO.
DUE MESI DOPO
di Francesca Borri
Il 7 gennaio, a 30 chilometri da qui, Pietro Poidomani riapre il suo ambulatorio di Cividate al Piano. E si ritrova in sala d'attesa più pazienti del solito. Molti, moltissimi, 12 su 50, hanno una strana polmonite. Prescrive a tutti una lastra al torace: e tutte evidenziano degli addensamenti interstiziali. Telefona ad altri medici: e tanti, in tante città della Lombardia, stanno prescrivendo lo stesso tipo di radiografie. La Cina è già sui giornali, Wuhan viene chiusa il 23 gennaio. E il 30 gennaio, l'Organizzazione Mondiale della Sanità avverte che l'epidemia è ormai internazionale. Tra medici non si parla d'altro. E negli archivi informatici dell'ATS di Bergamo, l'Agenzia di Tutela della Salute, le richieste di radiografie continuano ad accumularsi: ma nessuno nota niente. Nessuno monitora.
Nessuno sorveglia.
I controlli previsti sono solo contabili.
Il 2 marzo, Pietro Poidomani finirà sotto ossigeno. Positivo.
Nei libri di storia, tutto inizierà il 20 febbraio da Mattia Maestri di Codogno. E da Franco Orlandi, il primo morto. Qui, il 23 febbraio. E sarà il racconto di una tempesta improvvisa, come dice ora la Regione Lombardia nel suo spot sulla Fase 2. Anche se qui hanno visto piuttosto l'acqua salire, salire: e infine sfondare argini e paratie. Già a gennaio, nella RSA di Nembro si erano avuti 20 morti, contro i 7 dell'intero 2019, ricorda don Matteo, il prete: che ricorda i funerali, 18 contro gli 8 del gennaio precedente. Come i farmacisti che ricordano i tanti antibiotici venduti, e i volontari della Croce Rossa, i volontari delle ambulanze, che misurano i parametri vitali: e ricordano l'ossigeno nel sangue a livelli mai così bassi. Ma di tutto questo, non resterà traccia. Perché i morti sono morti, ormai, e chissà di cosa. E perché comunque, la storia si scrive altrove. In questi due mesi, qui non si è visto nessuno. Un ministro, un deputato. Un assessore. Manco il vescovo.
Il 27 aprile, nella sua prima visita in Lombardia, Conte ha detto: "Quei due piccoli comuni della Bergamasca". Alzano e Nembro. Si era dimenticato i nomi.
Eppure, a marzo Nembro ha avuto 154 morti, contro i 17 del marzo 2019. E ha 11mila abitanti. A marzo, ha perso l'1,3% della popolazione.
E così Alzano. 112 morti contro 10.
Come se a Roma i morti fossero stati 28mila.
Alessandra Raimondi fa il medico di base ad Alzano, e retrodata il suo primo caso di Covid-19 al 5 febbraio. Era una polmonite virale. Cosa già rara in sé, dice. E non migliorava. Ma in quel momento, l'unica indicazione era chiedere ai malati di eventuali legami con la Cina. "Era una maestra delle elementari. E infatti continuavo a chiederle dei suoi alunni stranieri. Niente, mi diceva. Dicevo: Ma sei proprio sicura?", dice. Alla fine, dopo oltre un mese, guarisce. E la diagnosi è: polmonite bilaterale interstiziale. "E ora, ovviamente, non avremo mai certezze. Potrebbe avere contratto il virus dopo", dice. "Ma se controllo l'agenda, per esempio, l'11 febbraio, i quattro pazienti che erano in sala d'attesa insieme, per ragioni diverse e nessuno per polmonite: dopo un paio di settimane, avranno tutti tosse e febbre. Tutti nello stesso momento. E risulteranno tutti positivi".
"Un indizio, diceva Agatha Christie, è solo un indizio, no? E due indizi solo una coincidenza. Ma tre sono una prova: e qui non erano tre, erano trecento", mi dice un altro medico di base. "Da gennaio, davvero, tra noi non parlavamo d'altro". Ma perché non avete chiamato l'ATS?, dico. "Perché non chiami uno che è inutile chiamare".
"Dall'ATS", dice, "le linee guida sui farmaci sono arrivate solo il 25 marzo".
Dopo 7.503 morti.
La tempesta improvvisa, si dice adesso. Un virus così feroce da travolgere persino la Lombardia: con il suo sistema sanitario migliore d'Italia. E che a tratti, però, si è rivelato il migliore alleato del COVID-19. Il 23 febbraio, dopo il primo morto, il Pesenti Fenaroli di Alzano, come è ormai noto, viene riaperto nel giro di due ore dopo una veloce disinfezione che la direzione assicura essere stata effettuata con le più avanzate tecnologie disponibili: e un'infermiera, con poco più che secchio e stracci. "Mia nonna era lì dal 16 febbraio", dice Lara Grasseni. "Aveva 90 anni. E proprio per questo eravamo lì notte e giorno, tutti, a turno, figli e nipoti, in 13: perché era il perno della nostra famiglia. E ormai era alla fine. Ma avevamo letto di Codogno, e ai medici che iniziavano ad avere la mascherina chiedevamo se era pericoloso. No, no, dicevano. E ci siamo ammalati tutti", dice.
Anche la madre di Sabry Bonetti entra il 18 febbraio per tutt'altro. Per una radioterapia. Ma non viene trasferita in un altro ospedale. Morirà il 15 marzo. Positiva. "Poi ora verranno a dirmi che aveva già contratto il virus. Ma nessuno di noi si è ammalato", dice. "Neppure sua madre, con cui viveva. E che ha 83 anni".
"E io che credevo fosse al sicuro", dice. "Fuori, ormai, era il panico. Tutti con la febbre, tutti in cerca di un medico. Di un'ambulanza. L'ultima volta, al telefono… Al telefono, ho detto: Per fortuna stai lì", dice. E con un filo di voce dice: "Non è colpa mia".
Luca Lorini, il direttore della Terapia Intensiva del Papa Giovanni di Bergamo, ha provato a spiegarlo persino nei giorni in cui aveva intubati, e giornalisti, ovunque: Il problema vero non è qui, diceva, è qui intorno. Perché intorno, intanto, era saltato tutto. E i morti morivano di virus, sì: ma non solo. A fine febbraio, l'ATS ha raccomandato ai medici di base di gestire i pazienti per telefono. Per evitare di contagiarsi e contagiare. "E quindi a mio padre, la prima volta è stato detto che era una semplice allergia. Che era sufficiente una pomata", dice Consuelo Locati. "Alla seconda chiamata, il medico ha aggiunto un antistaminico. Alla terza, è sparito, con mio padre che ormai aveva febbre, tosse. E questo che non rispondeva più. Fino a quando, in privato, abbiamo ottenuto una radiografia. E diceva: polmonite interstiziale", dice. Ma a quel punto, nessuno aveva tamponi, e quindi, tecnicamente, non si trattava che di un sospetto COVID. E ha continuato con la tachipirina. "Con la tachipirina e basta. Perché senza linee guida, era l'unico farmaco autorizzato".
"E la verità", dice, "è che non è morto di polmonite. Ma di polmonite e pomata".
Mentre il nuovo ospedale di Milano, costato 26 milioni di euro, non ha che tre pazienti, molti, qui, moltissimi, sono ancora vivi grazie a uno stetoscopio da cento euro. Quello di Riccardo Munda. Che quando ha letto la comunicazione dell'ATS, si è comprato di tasca sua 600 euro di camici e mascherine, e una Vaporella, e non solo ha continuato a visitare casa a casa, come sempre: ma ha iniziato a visitare anche i pazienti degli altri. E finora, ha avuto zero morti. E zero ricoverati. Come tutti, non ha una terapia. Non illude nessuno. "Ma proprio perché non c'è una cura, è fondamentale intervenire subito. E quindi non solo visitare il paziente, ma visitarlo spesso: per aiutare il fisico a reagire, calibrando e ricalibrando i farmaci a ogni suo minimo segnale", spiega. E cioè il contrario esatto di quanto veniva consigliato. Resistere: e cercare il medico solo quando proprio non si respirava più. "Quando i polmoni erano ormai compromessi", dice. "Ed era troppo tardi".
"Non giudico nessuno. Non sono Dio. Ma visitare per telefono non significa niente", dice. "Conosci il giuramento di Ippocrate, no? Dice: Presterai la tua opera in scienza e coscienza. E per ora la scienza, è vero, non c'è. Ma la coscienza, quella sì".
Eppure da Milano, da Roma, dagli uffici responsabili dell'emergenza COVID-19, e della strategia per fronteggiarla, nessuno ha mai chiamato Riccardo Munda. Racconti la sua storia, e ti ribattono: Solo fortuna. Né nessuno ha mai chiamato Camillo Bertocchi e Claudio Cancelli. Il sindaco di Alzano e il sindaco di Nembro. Che mentre la Protezione Civile si impaludava tra gli speculatori, importando dalla Cina mascherine bollate dai medici come carta straccia, telefonavano ai dentisti, i tatuatori, i verniciatori della zona: e recuperavano mascherine. Compravano saturimetri e ossigeno. E sostenevano i medici di base in ogni modo possibile. Perché basta guardare i numeri, dicono. Ambulatorio a ambulatorio. Sono i medici di base, dicono, a fare la differenza. E quindi è lì, adesso, che bisogna investire. Non sugli ospedali: ma su tutto quello che ti evita di finirci.
Perché non é questione di fortuna, dicono. Ma di logica.
Di logica e organizzazione.
La Lombardia ha avuto 11 morti ogni 10mila abitanti: il Veneto, due.
Ma inizia la Fase 2, oggi. Ed è identica alla Fase 1. Niente tamponi, niente test, niente tracciamento dei contagi. Niente rafforzamento dell'intervento sul territorio. Nessun criterio scientifico, ha detto il virologo Andrea Crisanti, dell'università di Padova. "Abbiamo chiuso l'Italia con 1.797 nuovi casi al giorno, e ora riapriamo con 2.200. L'unica speranza", ha detto, "è che il virus sparisca con il caldo".
E qui, è quello che più ferisce. Perché per il resto d'Italia, è come se tutto questo non fosse mai esistito. Per il resto d'Italia, sono stati due mesi di Netflix, lievito madre. Orti in giardino. E invece a Alzano e Nembro è ancora tutto chiuso: non le saracinesche dei negozi, ma le persiane, le persiane delle case ora vuote. E quando da dietro un muro, ancora, senti tossire, tossire di quella tosse inconfondibile, ti sta tutto di nuovo davanti, all'improvviso: la casa vicino la chiesa, quella da cui un uomo è rotolato giù dalle scale, rantolando, prima ancora che arrivasse l'ambulanza, ed è morto così, per strada, e quella in cui un altro ha avuto una crisi d'aria, ed erano le due di notte, e ci siamo svegliati tutti, Salvami!, diceva, Salvami!, stretto al collo del medico, Salvami!, con un bambino, vitreo, a un metro di distanza, la casa in cui hanno consegnato un sacco rosso, una mattina, ed erano gli effetti personali di una madre, di una vita, era tutto quello che restava, e la casa all'angolo, quella in cui una figlia ripeteva: Che dici, sbaglio? Sbaglio? Che dici? prima di decidere di non ricoverare il padre, e lasciarlo spegnersi, e svenire, sfinita - qui dove i congiunti da cui andare non sono gli affetti stabili, ora, ma i morti in cimitero: e alle lapidi, sono ancora fissate le girandole sbiadite dal sole di quando, dopo le bare, sono finiti anche i fiori.
E non si è visto nessuno.
Un ministro, un deputato. Un assessore. In due mesi. Nessuno.
Manco il vescovo.
Il 27 febbraio il padre di Sara Gargantini arriva al pronto soccorso del Pesenti Fenaroli. Ha 81 anni, e febbre da dodici giorni. Viene dimesso alle 3.28 del mattino. O meglio, viene lasciato fuori, al freddo, in mezzo alla strada: gli prescrivono degli antibiotici, e gli dicono di chiamarsi un taxi. Capisce perfettamente di cosa si tratta davvero. Ormai, è su tutti i giornali. Entrerà in casa, e per non contagiare la figlia, che abita di sotto, le lancerà dalla finestra il referto, dicendo solo: Fammi giustizia.
Poche ore dopo, verrà a prenderlo un'ambulanza.
E non lo vedranno mai più.