Degli studenti si riparano dalla miscela di acqua e soda caustica con cui i carabinieri disperdono le manifestazioni contro il presidente Pinera a Plaza Italia, nel centro di Santiago, Cile, il 1 dicembre 2019
Foto di Goran Tomasevic per Reuters
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11 feb 2020
SANTIAGO
di Francesca Borri
Per strada, hanno tutti l’aria di un giorno qualsiasi. Lo zaino, la musica nelle cuffie. Un cane al guinzaglio. Poi, però, cammini, e tossisci: Santiago è densa di gas.
Così tanto, e così forte, che la pelle ti brucia.
E ti guardi intorno. E tanti hanno una spalla fratturata. Un occhio bendato.
Il 18 ottobre, il biglietto della metropolitana è aumentato di 30 pesos. Due centesimi, più o meno. Da 1,13 a 1,15 dollari. Ma da allora, il Cile è in rivolta. Il centro di Santiago, città in cui vive il 40 percento dei cileni, 7 milioni su 19, è tutto pietre, e fango, detriti, vetri in frantumi. Pozzanghere verdi di acqua e lacrimogeni. Nell’area di Plaza Italia, è tutto chiuso. Chiuso e sbarrato. Gli unici al lavoro sono gli operai che saldano serrande, avvitano lastre di metallo a difesa di negozi, uffici, hotel. Srotolano filo spinato. Come a Baghdad. Perché quella su cui ti fermi un momento, e che ti sembra una panchina, in realtà è un palo divelto. Quello che ti sembra un semaforo, è il rosso di un rogo. Il rosso di una linea del fronte: perché al tramonto, qui, è battaglia. Hanno vent’anni, trent’anni, e nessuna paura, perché sono nati dopo Pinochet: e a centinaia, a migliaia, sfidano i carabinieri armati di poco più che fionde. Di caschetti da ciclista e maschere da sub, parastinchi di scotch contro proiettili di gomma e piombo. E all’improvviso, ti ritrovi sotto una grandinata di manganellate, per scudo una parabola della televisione mentre dai blindati ti pompano addosso acqua e soda caustica, e uno, dietro di te, continua a spiegare Marx, un altro si beve tranquillo una Coca Cola - o ti ritrovi a terra, semplicemente. Strattonato via. Pestato a sangue, e trascinato su una camionetta. Chiunque tu sia.
E quarant’anni dopo, alcuni, qui, non sono ancora riapparsi.
Sono tanti, a Plaza Italia. E sono determinati. Ma come a Beirut, come a Parigi, a Hong Kong, non è facile dire cosa vogliano, di preciso. E soprattutto, come intendano ottenerlo. Perché non hanno un nome. Una struttura. Sono contro tutto e tutti. Anche se per Rolf Lüders, invece, è tutto chiaro: protestano perché si sbagliano.
Perché non hanno capito che sono ricchi.
E Rolf Lüders conosce il Cile di oggi come pochi: è uno dei suoi artefici. Ministro dell’Economia con Pinochet, classe 1935, è uno dei Chicago Boys. Gli allievi di Milton Friedman. Che negli anni Settanta, trasformarono il Cile in laboratorio delle sue teorie, convinti che il mercato abbia le sue regole, le sue dinamiche: e che funzioni al suo meglio senza interferenze. Mezzo secolo dopo, nel suo elegante studio in mattoni rossi dell’Universidad Católica, tutto silenzio e luce, Rolf Lüders ha lo stesso fisico asciutto di allora. E le stesse idee. Perché i numeri, dice, sono inequivoci. “Siamo i migliori”. Il Cile ha un PIL pro capite di 25.798 dollari. Il più alto dell’America Latina. E in questi anni, è diminuita non solo la povertà, dice, che ora è al 7,8 percento, ma anche la disuguaglianza. Il problema, dice, non è un problema di economia. Ma di percezione. “Il reddito del 10 percento più povero è aumentato del 145 percento. Da 20mila pesos a 50mila. Nello stesso periodo, dal 2000 al 2015, il reddito del 10 percento più ricco è aumentato molto meno. Del 30 percento. Che significa che la disuguaglianza è diminuita. Ma è aumentato da 800mila pesos a 1 milione. E l’errore è qui”, dice. “L’errore è guardare a questi 200mila pesos. E dire che sono più di 30mila. No. Quello che conta è che tu sei meno povero. Che 50mila è più di 20mila. Cioè, è una questione proprio di logica”, dice. “Di matematica”. Dice: Mi segui, vero?
“Il Cile ha avuto uno sviluppo straordinario. E ora che ha un po’ frenato, tutti protestano. Ma non ha difetti di impostazione. Il modello funziona. E alla perfezione. Richiede correzioni, è normale. Le tasse. Il credito. Ma sono dettagli. Il nostro obiettivo era creare ricchezza: e l’abbiamo creata”, dice. Perché quello che conta, dice, è la povertà. Non la disuguaglianza. “Anzi. La disuguaglianza stimola il confronto. E quindi stimola a migliorarsi. La sinistra vorrebbe che fossimo tutti uguali. Come a Cuba. In cui sono tutti uguali, sì: ma nel senso che stanno tutti alla fame”. Ma poi, dice, cosa ti importa se uno è più ricco di te? “L’importante è che tu sia più ricco di ieri”.
Ripeterebbe tutto. Pinochet incluso.
“Nel 1973, Allende lasciò un’inflazione al 508,1 percento. Il Cile era da ricostruire da zero. Era necessario uno forte”, dice. “Uno capace di decidere”.
L’indice di Gini, che misura la disuguaglianza su una scala da 0 a 1, con Pinochet toccò il suo massimo di sempre. 0,57. Mentre ora è 0,47. Ma nei paesi avanzati è 0,3, più o meno. E quando è così alto, la disuguaglianza, in effetti, anche se diminuisce in termini percentuali, aumenta in termini assoluti. I numeri sono quelli: ma è una questione matematica, e insieme, di punti di vista. La disuguaglianza è come se fosse minore e maggiore allo stesso tempo.
Per questo, per Plaza Italia, resta il tema centrale.
Ma è il tema centrale anche qui, mi assicurano gli studenti della facoltà di Economia. Una facoltà piuttosto singolare: le aule non sono intitolate ai professori più illustri, ma agli sponsor. Unilever, Xerox. Coca Cola. “Ma certo che si studia. Perché è parte della natura”, dice Valentina, nell’aula Nescafé. “Perché è alla base di tutto”, dice Camilla. “Ti massimizza gli incentivi all’efficienza”. I ricchi, dice, sono l’esempio. Indicano ai poveri la strada. Che ai poveri non è chiara: per questo sono poveri. “Dicevano che la metropolitana era cara? Ora che l’hanno incendiata, sarà ancora più cara. Perché dovremo ripararla”.
Si riferisce alla notte del 18 ottobre. Quando 80 stazioni della metropolitana su 136 sono state danneggiate, e 11 distrutte. E il conto, ora, è di oltre 300 milioni di dollari. “Se hai un problema, rompi tutto?”, dice. “Se hai un problema, trovi una soluzione”.
Sono la classe dirigente di domani. Perché per il Cile, i Chicago Boys vollero quella che fu definita “una democrazia protetta”: protetta dal popolo, e dalla sua incompetenza. E affidata agli esperti. Per questo la costituzione, approvata nel 1980, cumula nel presidente sia il potere esecutivo sia un ampio potere legislativo. E lascia il parlamento ai margini. Perché se l’economia è una scienza, il governo è la sua tecnica. Anche se non è detto che poi essere esperti basti. Per privatizzare le imprese statali, per esempio, Pinochet scelse Julio Ponce. Suo genero. Che finì per comprarsi a un terzo del suo valore la SQM. Prima produttrice globale di litio. Con un patrimonio di 3,3 miliardi di dollari, oggi è tra i mille più ricchi al mondo.
Nella privatizzazione dello zucchero, lo stato perse 47 milioni di dollari.
Nella privatizzazione dell’acciaio, 160.
Nella privatizzazione dell’elettricità, un miliardo.
Perché è vero che i ministri sono esperti. Ma in genere, oltre che economisti, sono imprenditori: il 69,5 percento ha avuto ruoli in imprese private. E spesso, nello stesso settore.
Sono conti dello UNDP. Che ha detto: c’è come una porta girevole.
All’entrata, a un banco di noccioline, lavorano in tre. In tre, guadagnano 800 dollari al mese - e Santiago ha i prezzi di Tel Aviv. Dentro, dico, dicono che non c’è crisi. Che non importa se alcuni sono più poveri e altri più ricchi. Perché l’importante, è che rispetto a ieri siamo tutti più ricchi. “Ma non è che sono ricchi”, dicono. “Il problema è che sono ladri”.
Usano la terza persona plurale. Come tutti, qui. Colpisce. Quando ti parlano dei ricchi, i poveri non ti dicono “i ricchi”, ti dicono: Loro. E così i ricchi, quando ti parlano dei poveri. “Loro”. Come se fossero un’entità indefinita. E soprattutto, altro. Radicalmente altro. Perché Santiago, in realtà, è due città. Guardando la mappa, hai una specie di diagonale. Da sudovest a nordest. E il centro è Plaza Italia. Che è l’area degli uffici pubblici, ed è insieme il centro e l’estremo di Santiago, però, perché i ricchi non vanno più giù, né i poveri più su: è il solo punto di contatto.
E infatti, è un campo di battaglia.
Santiago inizia in basso a sinistra, dove viviamo noi, in un posto ribattezzato La Palude, perché è il regno dello spaccio: e quindi, entri, e non ne esci più - ma poi, via via, cambia. Providencia, El Golf, Las Condes, Vitacura, su, fino a La Dehesa. Fino ai più ricchi dei ricchi. Cambia fisicamente. Sempre meno sudamericana, e sempre più simile a Milano, piuttosto. A Bruxelles. A Francoforte. Tutta acciaio e vetro. Ma non cambia solo la fisionomia della città: cambia anche quella dei suoi abitanti. A un certo punto, sono tutti bianchi. A El Golf, più o meno. E non è una coincidenza. In Cile i 50 cognomi con la maggiore percentuale di avvocati, medici e ingegneri, le tre professioni più di prestigio, sono tutti cognomi stranieri. Edwards, Werner, Klein. Lyon. Sono tutti cognomi europei. Gli ultimi 50, invece, quelli per cui la percentuale è zero, sono tutti cognomi locali. Qui l’1 percento più ricco della popolazione ha il 33 percento del PIL. E lo 0,1 percento più ricco, il 19,5 percento. Fa più di 190mila dollari al mese. Perché con una disuguaglianza così, il PIL pro capite, che è il PIL diviso per il numero degli abitanti, è un dato che non significa niente, in realtà: è un dato falsato dagli estremi. Non corrisponde a nessuno. E infatti, esaminando il reddito, e cosa compri con quel reddito, viene fuori che nel paese con il PIL più alto dell’America Latina, il 76,4 percento dei cileni è in povertà o a rischio povertà. Hanno un reddito mediano di non più di 376.048 pesos al mese. Fa 500 dollari.
Quei 30 pesos di rincaro della metropolitana sono solo due centesimi, sì. Ma l’abbonamento ai mezzi, ai cileni costa quasi il 30 percento del reddito.
La crisi del Cile è la crisi della classe media. Che appunto, sta in mezzo. Con un reddito che è troppo alto per beneficiare dei sussidi, ma troppo basso per avere ancora credito. Perché in realtà, tutto quello che vedi, qui, e vedi un Cile che è come l’Europa, è vero, un Cile avanzato, Germania dell’America Latina, è stato comprato a rate. Perché secondo i Chicago Boys, il mercato fornisce servizi meglio dello stato: e quindi, si tratta solo di garantire a tutti l’accesso ai servizi privati. Con un po’ di sussidi, e molte carte di credito. Il welfare, qui, è minimo. E in fondo, neppure potrebbe esistere. Lo stato non saprebbe come finanziarlo. Perché il suo ruolo non è che creare le migliori condizioni possibili per le imprese. Che investono, producono: creano ricchezza. E lavoro. Creano e distribuiscono ricchezza. E quindi, non pagano tasse. Cioè, pagano il 25 percento di tasse, in teoria. Ma è un anticipo di imposta. Vengono poi scalate dalle tasse pagate dagli imprenditori. E quindi, di fatto, sono zero. In Cile solo il 21,1 percento del PIL arriva dalle tasse. La media OECD è il 34,3 percento. E solo il 10,9 percento del PIL è speso in in welfare. Contro una media OECD del 20 percento. Perché è tutto privato, qui. Letteralmente. L’istruzione, la sanità. Le pensioni. Tutto. Persino l’acqua. La nostra proprietaria di casa, Cecilia Arévalo, è laureata in pedagogia. E l’università costava 28mila dollari l’anno. Sua madre si è appena tolta un calcolo renale. 7mila dollari. “Poteva scegliere un ospedale pubblico, certo. E pagare meno”, dice. “Ma il primo posto libero era nel 2022”.
Perché lo stato, dice, ti offre tutto. In teoria. “Poi, però, se scegli l’istruzione pubblica, impari a stento a scrivere. Se scegli la sanità pubblica, muori”.
A fine turno, la psicologa della scuola in cui insegna apre il bagagliaio dell’auto. Per arrotondare, vende sandali e ciabatte. Qui tutti hanno un secondo lavoro.
Non sono 30 pesos, ti dicono. Sono trent’anni. Trent’anni che Pinochet è andato via: e però non è cambiato niente. Perché, poi, appunto: è la costituzione a impedirlo.
Non prevede diritti economici e sociali.
E attribuisce ogni potere al presidente. Sebastián Pinera. Che con un patrimonio di 2,8 miliardi di dollari, è tra i 5 cileni più ricchi. Che guadagnano quanto i 5 milioni più poveri.
Le case, qui, a guardarle, sono case normali. Ma in realtà, sono di lamiere e truciolato compresso. Di pezzi di imballaggi inchiodati gli uni agli altri, i dati delle spedizioni ancora impressi su. Per pavimento, teli di plastica. La Pintana ha 178mila abitanti. E basta. Non ha un bar, un negozio, niente. Per strada, è tutta un mercato dell’usato. In cui ognuno vende tutto quello che gli capita. Una felpa, un trapano, un paio di pattini. Così, alla rinfusa. Una Playstation dei tempi migliori. Santiago, da qui, è un altro mondo. E la sera, da Plaza Italia, arriva un sociologo, un giurista, uno che ha studiato: a spiegare il Cile, e tutto quello che non funziona, in assemblee improvvisate nei cortili alla luce di un lampione, le sedie spaiate. Ed è di nuovo il Cile di Allende. Il Cile di Neruda. Con questi ragazzi magri e malconci che a incrociarli di giorno, avresti paura, probabilmente, in questa che è l’area più povera e pericolosa di Santiago: e invece ascoltano attenti: con la penna, e il blocco degli appunti, e perché erano tutti studenti, in realtà, e hanno tutti lasciato l’università perché costava troppo, e ora ti citano Weber, Orwell, Foucault. Piketty.
Si passano delle patatine. E per molti è la cena.
Paulina Barria e il suo compagno hanno 21 e 24 anni, e sono finiti a vivere in una buca a ridosso della strada, in un campo di sterpaglie e spazzatura. E ti colpiscono: sono identici a te. Le Nike. I tatuaggi. Perché poi, il Cile non è stato solo il laboratorio, ma l’avanguardia del neoliberalismo: che con Reagan e la Thatcher, si è imposto ovunque. E ora questa è la nostra stessa crisi. Lei viene da una storia di abusi, e non intende tornare dai suoi, lui è un elettricista, e si è infortunato a una mano: perdi il lavoro, qui, e in un mese, perdi la casa. “Perché la verità”, dice, “è che sei solo. Solo e senza rete. In Cile va tutto bene solo fino a quando va tutto bene”, dice. Perché guadagni così poco, qui, stai sempre così sul filo, che non hai neppure un conto in banca. E al primo imprevisto, la prima difficoltà, ti ritrovi ad accenderti un fuoco su quattro pietre in croce, la sera, a montarti tra i tossici la tenda da campeggio di quando dormivi sotto le stelle ed era una notte romantica. Invece che fredda e feroce.
Ed era solo ieri.
E né va meglio a chi ha ancora una casa. Come Cindy Cerda, 25 anni. Che abita di fronte. Sono in 13 in tre stanze, hanno un letto in quattro, e tra l’altro, sono 14, in realtà: la madre di sua madre vive per strada. In cucina, una cucina di muri marci dietro teli di finti mattoni, non hanno che patate. Entrano solo due stipendi. Uno da meccanico, l’altro da idraulico, per un totale di 200mila pesos. Meno di un salario minimo. Delle manifestazioni, di Plaza Italia, ti dice: “Andrei, se potessi permettermi di arrivarci”.
I ricchi sono così pochi, qui, che all’estremo opposto della mappa, rispetto alla Pintana, in alto a destra, la via Montenapoleone di Santiago, la Avenida De Córdova, è lunga poco più di un paio di isolati. Anche se per il resto, è identica a tutte le vie Montenapoleone del mondo. Tutta lucida. Tutta tappeti persiani e design scandinavo. Vini francesi. E qui, nessuno si aspettava una rivolta. “Non abbiamo idea di chi siano, questi. E cosa vogliano”, dice Xaviera, la proprietaria di “The Dog Room”, accessori per cani. Giochi, biscotti. Shampoo per un pelo più brillante. “Fino al 18 ottobre, era tutto perfetto. Perché Santiago, l’hai vista?, è come l’Europa. Non avevamo problemi”. Tutto è stato così improvviso, dice. E non è strano?, dice. “Questi sono manovrati. Manovrati da Cuba. Se fossero cileni, non distruggerebbero il Cile”. Anche secondo Carolina, la proprietaria di “Loden Haus”, cashmere inglese, non si tratta che di comunisti. Di sbandati che vogliono essere mantenuti dallo stato. Vogliono il reddito di cittadinanza. E però, si trascinano dietro quelli come sua figlia. Che sta in piazza. Perché è come tutti i ventenni, dice: protesta per protestare. “Ma non ha mai manco letto questa costituzione che tanto contesta. Ma cosa sa dei poveri?”, dice. “Torna, e va a comprarsi un’altra giacca con la mia carta di credito. Ma perché non lasciano che i poveri decidano da soli? La nostra domestica è un mese che non viene. Per via della metropolitana. Ed è un mese che sta senza stipendio. E magari, che dici?, preferirebbe lavorare”. “Ma perché poi, cosa credono? Che incendiando la metropolitana, mi creano dei problemi? E mi forzano a cambiare la costituzione?”, dice Yuniko, da Hermès. “Io uso l’auto”.
Temono un assalto. Anche se finora, con 29 morti e circa 2500 feriti, Amnesty International ha criticato piuttosto la violenza dei carabinieri. Perché è vero che sparano solo proiettili di gomma: ma i proiettili di gomma, che poi, in realtà, sono 20 percento gomma e 80 percento piombo, da meno di 25 metri possono essere letali. E i carabineri giurano di sparare da più di 45: ma hanno fucili senza telemetro. E comunque, sono criticati anche qui. “Gomma?”, dicono da “Milaires”, una libreria bellissima. Tutta in legno. Cioè. Una Boutique del Libro. “Ma cos’è, un gioco? Ma questa è una guerra. Ma sparassero davvero”.
Comunque, è vero che in rete gira voce di un assalto. Ma al Costanera. Il simbolo di Santiago. Il grattacielo più alto dell’America Latina. Che è un centro commerciale. Anche se dentro, poi, in realtà, in un assalto quasi ci sperano: come una liberazione. Perché la crisi è anche e soprattutto generazionale, qui. E tra gli H&M, gli Zara, i Diesel, non trovi i proprietari: trovi i commessi. Tutti trentenni. E tutti a salario minimo. 300mila pesos, 380 dollari. Più una percentuale sulle vendite. “Siamo tutti in piazza perché siamo nati dopo Pinochet. E siamo i primi a non avere paura. Ma anche perché siamo i primi a non avere niente. A vivere in questa precarietà totale che è l’esito, inevitabile, del neoliberalismo: e cioè di sindacati sempre più deboli e imprese sempre più forti”, dicono da Oakley. Pinochet abolì i sindacati. E ora solo il 6 percento dei lavoratori ha un contratto collettivo. L’unica cosa che abbiamo, dicono, sono i debiti. I debiti dell’università. “Perché è vero che è facile avere prestiti, qui. Ma a tassi di usura”. Il Cile ha l’istruzione più costosa al mondo. Assorbe il 22,7 percento del reddito delle famiglie. In Francia, lo 0,6 percento. “E fino a quando non ripaghi tutto, non puoi avere altri prestiti”, spiegano da Starbucks. “Manco per comprarti un telefono”. Per la sua laurea in sociologia, il barista ha pagato 6 milioni di pesos l’anno, lievitati a 45. Sono più di 58mila dollari.
Da ripagare ora con 350 dollari al mese.
E se sono in piazza adesso, è anche perché adesso non hanno più il sostegno dei genitori: che sono ormai in pensione. E il 72 percento dei pensionati, qui, ha la pensione minima.
100mila pesos al mese. 130 dollari.
Nel 1990, Pinochet lasciò la povertà al 45,1 percento. Perché il cosiddetto ‘miracolo cileno’ per cui i Chicago Boys sono studiati ovunque, fu un lungo periodo di alta crescita e bassa inflazione: ma anche alta disoccupazione. E quindi, appunto: ricchezza, ma per pochi. Perché l’economia del Cile, più che a quella della Germania, somiglia a quella del Venezuela, che dipende dal petrolio: dipende dalle miniere. Il Cile è il primo produttore al mondo di rame e litio. Ma il rame, per esempio, che genera il 10 percento del PIL, occupa il 2 percento dei lavoratori: le miniere sono un settore a bassa manodopera. E esposto alle oscillazioni dei prezzi delle materie prime. “Amartya Sen ha scritto che se esamini tutti i numeri dell’economia di Pinochet, e non solo quelli che ti sono più comodi, il suo tratto principale è l’instabilità. Nel 1982, il PIL crollò del 14,3 percento”, dice il sociologo di Starbucks. E molte banche fallirono. Come poi da noi nel 2008. “E come poi da voi nel 2008, lo stato ripagò tutti i debiti”, dice. “Perché quando vogliono, lo stato c’è. Sono capitalisti con i profitti, e comunisti con i debiti”.
Ma poco oltre, a El Golf, Gonzalo Greg ha 31 anni, e fa l’avvocato. E quindi, più che all’economia pensa alla legge. “Descrivete le manifestazioni come una forma di democrazia. Ma sono l’opposto: sono il tentativo di bypassare la democrazia. Sono un milione, a Plaza Italia? E nel resto del Cile siamo 18 milioni”, dice. Se non vogliono Pinera, la prossima volta votassero un altro. Ma fino a prova contraria, la maggioranza, qui, è con Pinera. “Con Allende fu lo stesso”, dice. “Parlate di Allende come un eroe. Ma è uno che pretendeva di cambiare il Cile con il 36 percento dei voti”. Anche se l’affluenza fu dell’83 percento, a dirla tutta. Mentre Pinera ha avuto il 54 percento dei voti, ma con una affluenza del 49 percento. E cioè è stato votato dal 26 percento dei cileni. Contro il 30 percento di Allende. “Ma comunque, ha già annunciato una serie di riforme”, dice. “Cosa altro vogliono? Ha aumentato del 20 percento la pensione minima. E ha tagliato del 50 percento gli stipendi dei deputati”, dice. Che in effetti, non avranno più 11.600 dollari al mese, ma 5.800. Mentre i pensionati avranno 155 dollari invece di 130.
Ma per Eduardo Steffens, 45 anni, imprenditore, i numeri non contano. In fondo, dice, è facile truccarli. Quella che conta, è la realtà. E guardati intorno, dice. Guarda quanto è bella Santiago. “E poi”, dice, “nessuno cita mai le responsabilità dei poveri nella povertà. Comprano, comprano. E si indebitano. Hai la pensione minima? A Cuba non avresti manco quella. E comunque, sono formule matematiche. Significa che nella tua vita, non hai lavorato abbastanza. Oggi questi a 25 anni credono di avere diritto a un lavoro e a uno stipendio solo perché hanno una laurea. Poi provi a parlarci, e non capiscono niente. Vogliono tutto e subito”.
“E comunque, se credono di condizionarmi”, dice Gonzalo Greg, “sì, lo studio ora per due mesi chiude. In Cile è tutto fermo. Ma che mi importa? Me ne andrò in vacanza”.