http://osservatorioglobalizzazione.it/ 13 marzo 2020
La guerra totale di Bernie Sanders di Stefano Graziosi
Con piacere vi presentiamo questa analisi di Stefano Graziosi, da noi recentemente consultato sul tema delle primarie democratiche, sulle motivazioni politiche che guidano il proseguimento della corsa di Bernie Sanders. Ha deciso di non ritirarsi. Nonostante le sconfitte subìte nel corso delle ultime tornate elettorali, Bernie Sanders prosegue la sua lotta nelle primarie democratiche. Quanti speravano in un suo passo indietro sono rimasti delusi, soprattutto dopo che – mercoledì scorso – in una conferenza stampa a Burlington il senatore del Vermont ha rimarcato la volontà di continuare a correre e – soprattutto – di confrontarsi con Joe Biden al dibattito televisivo del 15 marzo. Una doccia fredda per l’establishment dell’asinello, che sperava in suo passo indietro per garantire nei fatti all’ex vicepresidente la nomination già a marzo. Non a caso, l’apparato del partito ha iniziato a chiedere insistentemente il ritiro del senatore: un ritiro invocato anche da buona parte della stampa (statunitense e non), che sta accusando Sanders di spaccare l’asinello, favorendo indirettamente Donald Trump (Il Foglio lo ha definito non a caso un “cattivo perdente”). Eppure il candidato socialista è intenzionato a restare in corsa, per quanto oggettivamente la sua strada si riveli a dir poco in salita. Nonostante non possa ancora definirsi matematicamente sconfitto in termini di delegati, va infatti sottolineato che i prossimi appuntamenti elettorali risulteranno per lui particolarmente ostici: si pensi soltanto alle primarie in Ohio, Florida e Georgia. La Georgia è uno Stato meridionale e ricco di afroamericani: un’area, dove Sanders ha ben poche speranze (visti i risultati disastrosi già rimediati in territori, come Alabama e Tennessee). La Florida, dal canto suo, non nutre troppa simpatia per il senatore, date le sue posizioni piuttosto ambigue sul Venezuela di Nicolas Maduro. L’Ohio, poi, rappresenta un campo di battaglia stracolmo di incognite: non solo, già quattro anni fa, aveva voltato le spalle al socialista. Ma non è neppure escludibile che sceglierà di seguire l’esempio del Michigan: quel Michigan che, il 10 marzo, ha nettamente votato a favore di Biden. Tra l’altro, proprio la dura sconfitta nel cosiddetto Wolverine State ha costituito un colpo durissimo per Sanders, dal momento che – proprio in quell’area – sono presenti numerosi colletti blu impoveriti: quei colletti blu su cui il senatore ha sempre decisamente puntato. Insomma, sulla carta, Sanders sembra veramente spacciato. E allora per quale ragione si ostina a rimanere in gara? La spiegazione semplicistica che lo vorrebbe una sorta di hippie idealista e privo di contatto con la realtà non regge. Il senatore ha già dimostrato di essere un pragmatico e un machiavellico: non sarebbe altrimenti riuscito a mettere in piedi la poderosa campagna elettorale del 2016. Tra l’altro, anche oggi – nonostante le oggettive difficoltà – può comunque contare su un pacchetto di delegati non certo indifferente. Se quindi escludiamo l’idealismo fine sé stesso, per quale motivo Sanders allora non si ritira? Per cercare di rispondere a questa domanda, bisogna innanzitutto tornare alla conferenza stampa di Burlington. Nel suo discorso, il senatore – scuro in volto – ha iniziato con il consueto repertorio di critiche contro Trump. Tuttavia, esaurito il preambolo d’obbligo, ha messo nel mirino Biden, evidenziando in modo deciso (e polemico) le differenze tra sé e il rivale, annunciando – come accennato – di volerlo sfidare al prossimo dibattito televisivo. Si dirà: il fatto che se la prenda più con Biden che con Trump non deve stupire, visto che il contesto è – al momento – quello delle primarie democratiche e non della General Election. Eppure – come abbiamo visto – le reali speranze che Sanders ha di conquistare la nomination sono ormai ridotte al lumicino. Ed è inverosimile che una vecchia volpe come lui non se ne renda conto. E allora? Allora probabilmente il discorso di Burlington va letto in una dimensione che va al di là delle sole primarie democratiche: quel discorso potrebbe essere difatti inteso come una dichiarazione di guerra totale a Biden e all’establishment di cui costui è rappresentante. E si punti l’attenzione sull’aggettivo “totale”: non più, cioè, una classica disfida per la conquista della nomination ma uno scontro assoluto e senza esclusione di colpi. Sanders, insomma, potrebbe voler tessere una vendetta politica in piena regola, scatenando un conflitto insanabile all’interno del Partito Democratico: quel partito che – nelle ultime settimane – lo ha ostracizzato, serrando i ranghi attorno a Biden e dipingendo il senatore come un radiale da isolare. Del resto, la manifestazione plastica di questa strategia è esplicitata dalla quantità di endorsement che numerosi ex candidati hanno dato a Biden: si pensi a Cory Booker, Pete Buttigieg, Kamala Harris ed Amy Klobuchar. Tutte figure che, nel corso del 2019, avevano rivolto critiche pesantissime all’ex vicepresidente (la Harris – che è afroamericana – era addirittura arrivata ad accusarlo di connivenza con il segregazionismo razziale). Senza poi dimenticare il caso di Elizabeth Warren che – teoricamente rappresentante della sinistra – si è rifiutata di dare il suo endorsement a Sanders. Alla luce di tutto questo, la strategia dell’apparato democratico è chiara. Nulla di illecito, certo. Ma qualcosa di politicamente pesantissimo. Qualcosa che il senatore del Vermont non ha alcuna intenzione di digerire. E pianifica per questo probabilmente una guerra intestina di logoramento. Viene alla mente, in tal senso, quanto Carl Schmitt scriveva sulla figura del “partigiano”. Una figura che, mutatis mutandis, si attaglia non poco a quella di Sanders e alla sua situazione. Secondo il giurista tedesco, sono quattro le caratteristiche che definiscono il “partigiano”: l’irregolarità, l’intensità dell’impegno politico, l’agilità e il carattere difensivo. Per quanto riguarda il primo tratto, non è un mistero che Sanders si possa chiaramente definire un “irregolare”: ricordiamo innanzitutto che il senatore non sia un “democratico” ma un “indipendente” e che – anzi – si sia ripetutamente trovato in conflitto con l’apparato dell’asinello. Il fatto stesso che ami definirsi “socialista” non ha tanto a che fare con la volontà di rifarsi al socialismo europeo, quanto – semmai – con quella di distanziarsi dalle alte sfere del Partito Democratico. E’ in tal senso che si spiegano del resto le “eresie” ideologiche, che lo hanno portato ad abbracciare talvolta battaglie trasversali. Nonostante venga infatti spesso definito “di estrema sinistra”, Sanders mostra alcuni punti di contatto interessanti con alcune aree politiche molto distanti dalla sua: si pensi soltanto alla linea di avversione contro la filosofia migratoria “open borders”, che – già nel 2015 – il senatore aveva bollato come “di destra”. In secondo luogo, anche l’intensità dell’impegno politico è fuori discussione. Nelle sue proposte programmatiche, Sanders ha sempre rivendicato misure nette, mostrandosi decisamente contrario a forme di annacquamento o compromesso con l’establishment democratico. Si pensi solo a Medicare for All o al suo duro progetto di imposta patrimoniale. Questa fattore lo ha del resto sempre differenziato da altri suoi concorrenti delle attuali primarie: se – per intenderci – Kamala Harris aveva finito con l’annacquare decisamente Medicare for All, Elizabeth Warren aveva invece optato per una patrimoniale particolarmente blanda (rafforzando così il sospetto che la senatrice del Massachusetts fosse molto più vicina all’apparato del partito di quanto non sembrasse). In terzo luogo, Sanders si è sempre contraddistinto per una certa “agilità” sul piano organizzativo, basando la propria campagna elettorale su strutture tutto sommato abbastanza snelle e finanziandosi attraverso le micro-donazioni. Elementi che gli hanno consentito di evitare la creazione di una macchina elefantiaca e di consolidare – in tal senso – la sua polemica contro l’establishment (e i suoi munifici finanziatori). Se vogliamo, il tratto “difensivo” sembrerebbe essere quello meno attinente a Sanders che – in quanto candidato – si presenta ovviamente come proattivamente proteso verso la conquista della nomination. Questo elemento non tiene tuttavia conto della situazione concreta. E, cioè, del fatto che il senatore – come nel 2016 – si senta anche oggi defraudato da un establishment democratico che ha remato contro di lui. La “guerra” difensiva è quindi, dal suo punto di vista, contro quei Clinton e quegli Obama che – detentori della macchina partitica – hanno efficacemente puntellato una candidatura – quella di Biden – che, se fosse stata lasciata a sé stessa, sarebbe assai probabilmente naufragata entro aprile. Tra l’altro, non bisogna dimenticare che – secondo Schmitt – sarebbe stato Lenin a imprimere una netta svolta alla figura del “partigiano”, inserendolo nel processo rivoluzionario e portandolo così a quella “guerra dell’inimicizia assoluta [che] non conosce alcuna limitazione”. In tal senso, ricordiamo che la necessità di una “rivoluzione politica” costituisca da sempre un caposaldo della retorica sandersiana. In tutto questo, non trascuriamo che – secondo Schmitt – l’essenza del “partigiano” sia racchiusa nell’espressione “Acheronta movere”: scatenare l’inferno. Ed è proprio l’inferno che il senatore del Vermont vuole adesso far esplodere nel Partito Democratico, in uno scontro senza esclusione di colpi con l’ex vicepresidente. Attenzione: questo non vorrà necessariamente dire che Sanders resterà in corsa fino in fondo. Potrebbe anche teoricamente ritirarsi a breve e finanche dare alla fine formalmente il proprio endorsement a Biden (del resto, anche Reagan diede il proprio endorsement a Gerald Ford nel 1976, salvo poi non dargli concretamente una mano, per farlo così astutamente naufragare alle presidenziali di quell’anno). No: quello a cui il senatore punta è far sì che una parte consistente dei suoi elettori – a novembre – non voti per l’ex vicepresidente, boicottando così la sua candidatura e – con essa – le strategie stesse dell’apparato democratico. Va da sé che una simile linea andrebbe evidentemente a favore di Trump. E, proprio per questo, qualcuno forse potrebbe ritenerla una prospettiva assurda. Ma non è così. In primo luogo, ricordiamo che – al netto delle ovvie differenze – tra Sanders e l’attuale presidente si scorgano numerose analogie: dalla critica dell’immigrazione clandestina al commercio internazionale, passando per una comune carica antisistema. In secondo luogo, non dimentichiamo che, alla General Election del 2016, svariati elettori di Sanders – pur di non votare Hillary Clinton – convogliarono alla fine su Trump in aree decisive come la Pennsylvania (il 16%), il Michigan (l’8%) e il Wisconsin (il 9%). Insomma, il senatore del Vermont non ha intenzione di scendere a patti con l’establishment democratico, nell’ottica di una pacificazione interna. Una pacificazione che – ai suoi occhi – si risolverebbe in qualche misero contentino programmatico e in una ulteriore cristallizzazione dei rapporti di forza in seno all’apparato del Partito Democratico. La guerra totale di Sanders è cominciata. E il suo nemico numero uno non è Donald Trump.
“Sapere chi era il proprio nemico fu il segreto dell’eccezionale forza d’urto di Lenin” (Carl Schmitt, Teoria del Partigiano)
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