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19 febbraio 2020

 

I due volti dell’amministrazione Trump

di Federico Giuliani

                       

È sempre complicato tenere un piede in due scarpe, a maggior ragione in politica estera, dove gli equilibri sono sottili e i confini labili. Prendiamo gli Stati Uniti e analizziamo la sua recente politica internazionale. Notiamo subito come i due fuochi attorno ai quali prende forma la narrazione di Washington riguardano il Medio Oriente e l’Asia.

Le issue che per mesi hanno riempito le prime pagine dei quotidiani statunitensi rispondono al nodo iraniano e al contenimento cinese. Iran e Cina, insomma: sono dunque questi i due temi fondamentali che guidano l’azione Usa nel mondo e polarizzano, allo stesso tempo, l’amministrazione di Donald Trump.

 

All’interno della Casa Bianca non tutti però marciano nella stessa direzione del presidente. Lo sappiamo da anni. E sappiamo anche che il cosiddetto Deep State non condivide numerose posizioni politiche incarnate dall’ex tycoon in politica estera. Scendendo nel dettaglio, due sono gli schieramenti più forti con i quali deve fare i conti The Donald: da una parte quelli che considerano l’Iran la minaccia principale; dall’altra coloro i quali preferirebbero incanalare ogni sforzo sul braccio di ferro con la Cina. Rimanere in mezzo al guado senza avere una strategia precisa rischia tuttavia di indebolire Washington oltre ogni misura.

 

Qual è la minaccia numero uno per gli Usa?

Le Monde Diplomatique parla espressamente di “dilemma della Casa Bianca” proprio per sottolineare le due opzioni sul tavolo degli Stati Uniti. Prima o poi, Trump – o chi per lui – dovrà prendere una decisione precisa e scegliere da quale parte schierarsi: se con i falchi anti-iraniani o se con i funzionari che ritengono il Medio Oriente un fronte secondario. Uno scenario, quest’ultimo, che distoglierebbe gli Stati Uniti dalla minaccia principale: la Cina.

Dunque, due sono le strade possibili. La prima: andare a testa bassa contro Teheran, relegando in secondo piano la crescita steroidea di Pechino. La seconda: fare l’esatto contrario, cioè mettere il Dragone nel mirino e infischiandosene delle sanzioni agli Ayatollah.

Dal primo giorno del suo mandato – era il 20 gennaio 2017 – Trump ha preso le distanze tanto dall’apparato diplomatico quanto da quello di sicurezza. Nonostante questo il presidente è circondato da funzionari e personaggi di rilievo, pronti a suggerirgli azioni specifiche, soprattutto in politica estera. Il problema, e qui torniamo alla polarizzazione, è che non esiste una strategia univoca da seguire: ognuno ha un’idea diversa su cosa è meglio fare e quando farlo.

 

Due fazioni contrapposte

I gruppi da prendere in considerazione sono due. Ed entrambi hanno libero accesso alla Casa Bianca. Gli “ideologi” pensano che la strategia internazionale americana debba basarsi sul Medio Oriente e che Washington debba farsi carico di una coalizione internazionale al fine di provocare il crollo del governo iraniano. Tra i personaggi che rientrano in questa fazione troviamo il segretario di Stato, Mike Pompeo, il vicepresidente Mike Pence, e l’alto consigliere del presidente Trump, nonché suo genero, Jared Kushner.

Sull’altro fronte troviamo i “geopolitici”, formati da quadri dell’esercito e dell’intelligence. Per loro il pericolo più grande si chiama Cina: è Pechino l’ostacolo principale alla strategia Usa. Certo, tanto gli ideologi quanto i geopolitici sono convinti che gli Stati Uniti siano la prima potenza mondiale e debbano esercitare una sorta di controllo sulle regioni strategiche. Il problema è trovare la quadra del cerchio con lo stanziamento delle risorse. Neppure Washington, infatti, è in grado di giocare contemporaneamente due partite complicate su altrettanti scenari irti di ostacoli.

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