da Effimera.org https://contropiano.org 10 Agosto 2020
Capitalismo, razzismo, guerra, e devastazione dell’ambiente di Angelo Baracca
Il bell’articolo di Bruno Gullì, «Le radici della rivolta attuale: la triplice pandemia di razzismo, Covid-19 e capitalismo dei disastri» [1], discute in termini molto efficaci “il disastroso presente, la vulnerabilità, il futuro soffocato” negli Stati Uniti di oggi, soffocati appunto dalla triplice pandemia di razzismo, Covid-19 e capitalismo dei disastri. Apprezzo molto, fra le altre cose, la caratterizzazione della figura e del ruolo di Obama rispetto all’amministrazione Bush che lo aveva preceduto, “la continuazione di una storia di disprezzo per la vita”: la cosa che immediatamente mi torna alla mente è dopo la pretestuosa ed efferata guerra all’Iraq del 2003, quando a fronte di mezzo milione di bambini morti (e circa tre volte vittime totali) il suo Segretario di Stato, Madeleine Albright, per la prima volta una donna, interrogata se riteneva che ne fosse valsa la pena rispose con un cinismo rivoltante “we think the price is worth it”. Proprio questo mi da l’occasione, nel mio giudizio positivo dell’articolo, per fare un appunto critico ma costruttivo, a mio avviso non di poco conto. Le “tre pandemie” discusse da Gullì costituiscono, con le conclusioni che trae, una buona base per inquadrare la situazione interna degli Stati Uniti: ma il paese si caratterizza in modo peculiare come la maggiore potenza militare del pianeta, e da qui trae la sua forza e la sua fisionomia, anche per molti aspetti della sua struttura interna, politica, sociale ed economica. I Democratici, come del resto Gullì argomenta, non hanno mai messo in discussione la politica imperiale di Washington: per le elezioni di novembre i candidati democratici che avrebbero potuto, pur tiepidamente, contrastare questa politica militare sono ormai fuori gioco, ma anche i più radicali non mettevano in discussione il ricorso alla guerra alla base della politica di dominio imperiale degli Stati Uniti. Del resto dubito fortemente che un candidato alla presidenza degli Stati Uniti abbia reali possibilità di venire eletto se non viene a patti con almeno un gruppo di potere del complesso militare-industriale! Il militarismo è radicato profondamente nella mentalità della popolazione, soprattutto bianca[2]: quando Trump proclama “Make America great again” tocca una corda profonda nell’anima di molta parte degli statunitensi, ma dubito che non si radichi anche nell’inconscio di tanti altri. Questa a mio parere è la carenza principale delle argomentazioni di Gullì. In questo articolo cercherò di analizzare esplicitamente questo aspetto, la quarta pandemia, degli Stati Uniti e del mondo, e la sua stretta ineliminabile correlazione con le altre tre, nonché con l’emergenza climatica ambientale. Allo stesso tempo questo articolo ha anche una seconda finalità. Nella mia esperienza politica mi sono formato coniugando i temi della guerra e del disarmo con l’impegno ambientalista. Ma con la sconfitta dei movimenti degli anni Settanta si è dissolta anche la visione ecopacifista, e si è divisa (operando una semplificazione brutale) in un fronte pacifista e uno ambientalista (“fronti”, purtroppo, molto frammentati al loro interno, e a volte anche litigiosi): da molto tempo i movimenti ambientalisti in buona sostanza non si occupano delle guerre, e quelli pacifisti non si curano molto dell’ambiente. Con l’aggravamento sempre più incalzante della crisi climatica sono sorti grandi movimenti globali per la difesa dell’ambiente, ma in larga misura hanno ignorato i rischi di guerra che si fanno sempre più gravi. Mi sembra opportuno ricordare che l’autorevole insieme di scienziati e specialisti raccolti nel Bulletin of the Atomic Scientists, nato nel 1945 sull’obiettivo del disarmo nucleare, si è allargato ad altri specialisti, e nelle previsioni del Doomsday Clock concepito dal 1947 per monitorare i rischi di una guerra nucleare ha poi incluso tutte le altre minacce al futuro dell’umanità, fra le quali in modo crescente il riscaldamento globale: è questa stretta sinergia di rischi ambientali e militari che ha portato il Bulletin negli ultimi anni ad avvicinare in modo sempre più allarmante le lancette del Doomsday Clock alla fatidica Mezzanotte della società umana, alla prossimità da brivido di appena 100 secondi! [3] La fine della società umana quale la conosciamo non dipende solo dallo sconsiderato saccheggio dell’Uomo sulla Natura e sui propri simili, con l’aggravante delle incombenti pandemie, ma le guerre a la possibile Apocalisse nucleare potrebbero essere una “scorciatoia”. Le pandemie da denunciare e a cui porre rimedio sono appunto quattro. Ma procediamo con ordine. Dapprima vorrei approfondire brevemente le considerazioni di Gullì sul ruolo costitutivo della guerra nella formazione e nella struttura del capitalismo (in particolare, ma non solo, come fattore fondativo della formazione degli Stati Uniti): non intendo certo fare “una lezione” a Gullì, che indubbiamente queste cose le conosce perfettamente, ma mi rivolgo soprattutto ai giovani. In una seconda parte discuterò i nessi fra guerre e ambiente, sul ruolo determinante dei militari e delle loro produzioni e azioni sulle devastazioni ambientali, che ritengo un aspetto trascurato nella cosiddetta ecologia politica. Parte 1 Guerre, depredazioni, stermini sono alla radice della formazione e dell’accumulazione capitalistica Gullì porta citazioni molto appropriate di Marx sulla violenza estrema che ha caratterizzato lo sviluppo del capitalismo in tutte le sue fasi, “l’estrema violenza insita nell’accumulazione e nell’espropriazione capitalistica [che] si basa sempre su una logica di distruzione e di disastro, e in questo senso costituisce una terribile pandemia a sé stante”: la guerra è stata e rimane sempre più lo strumento principale del dominio e dell’espropriazione capitalistica. Il dominio dell’Europa nel mondo è stato imposto storicamente esercitando una violenza estrema e disumana sugli altri popoli, depredando le loro risorse, spesso sterminandoli, e cercando di sradicare le loro fedi e il corpo delle loro conoscenze [4]. La depredazione implica la logica del razzismo: il popolo, o il genere, depredati sono necessariamente considerati inferiori, bestiali, incivili: come avviene nella guerra. Il razzismo moderno è la sedimentazione dei processi storici di spoliazione, riduzione in schiavitù, ed eliminazione fisica. La società europea ha conquistato il mondo imponendo con violenza inaudita i modi di pensare, agire, vivere al resto dei popoli del mondo, cercando di eliminare fisicamente intere popolazioni (genocidio), e di sradicare e cancellare l’identità culturale, le conoscenze, le credenze (epistemocidio) diverse dalle proprie. Questo processo determinò l’imposizione di una visione del mondo, i “valori” dell’«uomo [maschio]-europeo-capitalista-militare-cristiano-patriarcale-bianco-eterosessuale»[5]: gli studi postcoloniali hanno introdotto il termine efficace di colonialità. Si trattò di una accumulazione per brutale espropriazione (delle ricchezze, della cultura, dei saperi, delle sensibilità), le cui fasi cruciali, e caratterizzanti, furono
Il mito della “scoperta” dell’America, poi della conversione dei “selvaggi”, mascherò quello reale della “conquista”, e poi della “espropriazione” e dello “sfruttamento” (questo si selvaggio). Grosfoguel distingue la seguente progressione (pp. 48, 51, 54) molto espressiva, basata sempre sull’imposizione e la violenza:
Aggiungerei semmai che … si è sparato lo stesso! Per impossessarsi delle ricchezze del continente americano fu compiuto il più efferato genocidio della storia moderna. Si valuta che tra i 50 e i 100 milioni di nativi [su una popolazione mondiale che nel XVI secolo si stima attorno a 500 milioni] morirono a causa dei colonizzatori, come conseguenza di guerre di conquista, perdita del loro ambiente, cambio dello stile di vita e soprattutto malattie contro cui i popoli nativi non avevano difese immunitarie (il problema ritorna drammaticamente per la pandemia del Covid-19 per il contagio delle popolazioni incontattate), mentre molti furono oggetto di deliberato sterminio poiché considerati barbari, addirittura “non umani”. Per secoli questa spietata conquista è stata celebrata come una storia di successo per l’intero pianeta! Parallelamente procedeva la colonizzazione del corpo delle donne: l’eliminazione della cultura e dell’autonomia delle donne europee culminò con la caccia e i roghi delle “streghe” dei secoli XVI e XVII [7]. Il patriarcato non è stato un’eredità del passato, ma è stato rifondato per intero dal capitalismo [8]. Ma dopo avere sterminato indiscriminatamente nelle Americhe le popolazioni indigene, quando si trattò di passare allo sviluppo intensivo delle piantagioni di canna da zucchero, il nuovo “oro bianco”, la mano d’opera locale si rivelò gravemente insufficiente: nessun problema, anzi una nuova occasione per fare lauti profitti, sviluppando la brutale tratta degli schiavi neri deportati dall’Africa. Per più di tre secoli, dal XVI alla fine del XIX, milioni di persone furono comprate in Africa e deportate come schiavi. Molti afroamericani e africani chiamano questo fenomeno black holocaust, o olocausto africano (o si riferiscono a questo olocausto con il nome maafa, in lingua swahili: “disastro”, o “avvenimento terribile”, “grande tragedia”, come la nakba per il popolo palestinese). Anche l’ambiente naturale divenne un mero mezzo di arricchimento e di profitto: le monocolture furono installate bruciando le foreste e le coltivazioni presenti prima dell’arrivo di Colombo. Penso che molti rimangano colpiti se transitano dalla Corsica lussureggiante al paesaggio arido della Sardegna: quest’unica lingua di terra aveva un paesaggio omogeneo prima che, sotto il regno sabaudo, nell’Ottocento le foreste sarde fossero decapitate per fornire le traversine alle ferrovie di mezza Europa [9]. E se volessimo risalire alle radici dell’ambientalismo italiano, Francesco Casula ci ricorda in un articolo di tre anni fa che fu “Gramsci, in un articolo sull’Avanti di 102 anni fa (23 ottobre 1918), censurato e riscoperto 60 anni dopo, a denunciare la devastazione ambientale e climatica, frutto della spoliazione e distruzione dei boschi” [10]. Guerra, genocidio, ecocidio, epistemicidio, sono stati anche i metodi fondativi degli Stati Uniti d’America, attraverso lo sterminio dei popoli indigeni, i cosiddetti “pellerossa”, mistificato con il mito della “Frontiera”, la “conquista del West” glorificata per decenni dall’epopea cinematografica del film western in cui venivano rappresentati gli “indiani” cattivi! Il razzismo è costitutivo della società statunitense (smettiamo di chiamarla “americana”, un oltraggio imperialista a tutte le popolazioni dell’intero continente riflesso nell’ideologia del “destino manifesto” che trovò forma nel 1823 nella “Dottrina Monroe”). Dopo la colonizzazione delle Americhe, il dominio coloniale fu il fondamento anche della fase successiva, la Prima Rivoluzione Industriale (senza dimenticare il lavoro riproduttivo e domestico come fattore dell’accumulazione primitiva). Il cotone costituì l’ossatura della nascente industria inglese. L’India rappresentò il prototipo del nuovo colonialismo d’insediamento, che trasformò le efferatezze e i genocidi della conquista del Nuovo Mondo in sfruttamento brutale e inumano. Fra le “pandemie” è il caso di ricordare che la droga è stata un fattore importantissimo della Rivoluzione Industriale: l’oppio, ricavato dal papavero, divenne una merce acquistabile a basso prezzo, promuovendone l’abuso di massa. Gli inglesi disponevano delle enormi piantagioni d’oppio dell’India, e sfruttavano la mano d’opera a costi irrisori. In Inghilterra, dove inizialmente l’oppio era riservato ad aristocratici e artisti, esso si diffuse tra le operaie e gli operai dei distretti industriali e dei villaggi agricoli vicini alle fabbriche, che lo usavano per sopportare meglio i ritmi della fabbrica. La droga dava un sostegno all’organismo attraverso l’oblio e dissimulando uno stato mentale e fisico efficiente, ma produceva una immediata dipendenza. Il suo spaccio non era clandestino ma era accessibile nelle drogherie, dove era l’articolo di più facile smercio: il suo costo era inferiore a quello dell’alcol. La disarticolazione delle famiglie operaie e il super-sfruttamento del lavoro delle donne costringeva moltissime operaie a non poter prendere cura dei loro neonati e a stordirli con droghe per renderli inerti e controllabili [11]. Lo sviluppo del capitalismo vanta anche, un vero infanticidio di massa che fece crescere la mortalità infantile a livelli altissimi. L’oppio divenne la materia prima che finanziò l’impero britannico in India[12]: da solo forniva agli Inglesi tra il 17 e il 20% del totale delle entrate indiane (senza tenere conto degli altri profitti generati dal trasporto o le varie industrie dell’indotto). Una delle pagine nere del colonialismo britannico fu l’operazione di colmare un forte deficit interno imponendo con le cannoniere all’India e soprattutto all’immensa Cina di acquistare tonnellate di oppio, falcidiando un popolo per qualche generazione! Nel 1839, quando la Cina propose un trattato per la cessazione del traffico, scoppiò la Prima Guerra dell’Oppio (1839-1842): una flotta di ben quaranta navi partì dall’Inghilterra per assediare Canton, e la tecnologia degli inglesi fu determinante sulla superiorità numerica dei soldati cinesi. Ma per l’Impero Cinese il peggio doveva ancora venire. La Francia fiutato l’affare provocò un casus belli che diede inizio alla Seconda Guerra dell’Oppio (1856-1860), le forze Anglo-Francesi entrarono a Pechino, saccheggiandola. Il grande Impero del Sol Levante era finito e con esso la filosofia, e anche il più antico sistema medico conosciuto, ebbero quasi a scomparire: un tentato epistemicidio. Lo status di Hong Kong, oggi al centro delle cronache, ebbe origine allora, poiché con questa disfatta la Cina dovette cederlo al Regno Unito. Law and order fu la parola d’ ordine della penetrazione inglese in Cina. L’oppio fu il grimaldello di questa svolta della storia mondiale, la “pandemia” di allora. Lo schiavismo negli Stati Uniti venne introiettato nella formazione di un’identità culturale genuinamente statunitense. Nacque nella prima metà del XIX secolo la prima forma teatrale autoctona, il «blackface», spettacoli di artisti bianchi che si esibivano dipingendosi la faccia di nero, cioè una caricatura bianca dei neri e una fucina di orribili stereotipi: una tradizione folklorica in gran parte rimossa o perché ritenuta, a torto, innocua e marginale, o per la ragione opposta, perché parte di una storia razzista e imbarazzante. Questo passato innominabile caratterizzò le fondamenta dello spettacolo e della musica popolare statunitensi, basati su pregiudizi etnici e sociali. Fu uno squallido antecedente degli Zoo Umani, che richiamarono milioni di visitatori con lo sviluppo del colonialismo nel corso dell’Ottocento, mostrando intere comunità di “selvaggi” deportati dalle colonie da impresari affaristi che nulla avevano da invidiare ai “negrieri”, e costretti ad esibirsi in pubblico[13]. Fu un giro di affari colossale. Infatti nell’Ottocento lo sfruttamento coloniale conobbe una trasformazione epocale. La colonizzazione dell’Africa inaugurò la fase imperialista, volta al rafforzamento della potenza internazionale, all’estensione dei commerci, all’esportazione del surplus della produzione in patria, all’accaparramento delle grandi miniere d’oro e di diamanti, all’esportazione di capitali. La Gran Bretagna dominò le conquiste coloniali, proclamando nel 1876 l’Impero Britannico (che aggiungeva ai 244.000 kmq dell’isola un territorio 100 volte superiore “conquistato” nei cinque continenti, e sarebbe arrivato a 150 volte nel 1914). Una vera “gara” con ogni mezzo si sviluppò fra l’Inghilterra, la Francia (che nel 2014 raggiunse quasi un terzo dell’estensione dell’Impero Britannico), il Belgio, l’Olanda, la Germania, le Russia, e buon ultima l’Italia. Ricorderò solo alcune delle atrocità commesse dal colonialismo. Il Congo (che quando io ero bambino veniva ancora chiamato “Congo Belga”: ma quante persone sanno che nei secoli XIV-XV vi era stato un potente Regno del Congo [14]? Poi, da lì vennero deportati 4 milioni di schiavi verso l’America), dal 1895 possedimento personale del cattolicissimo re Leopoldo II del Belgio (che lo chiamò eufemisticamente “Stato Libero del Congo”), fu soggetto a un genocidio di quasi metà della popolazione, 10 milioni di vittime in 23 anni [15]. Anche i bambini di pochi anni erano costretti a lavorare per 10-12 ore nelle piantagioni di re Leopoldo, ma cosa è cambiato oggi quando nella Repubblica Democratica del Congo i bambini sono costretti a lavorare in condizioni estreme nelle miniere di coltan con cui sono fabbricati i nostri “telefonini”? (40.000 denuncia Amnesty International). La prima bomba atomica verrà realizzata nel 1945 con uranio congolese. L’Australia fu scoperta solo nel 1770 da James Cook. Vi vivevano probabilmente almeno 1 milione di “Aborigeni”, ma la dottrina giuridica della “terra nullius” (terra di nessuno) dichiarò che il quinto continente era disabitato! Questo perché nella cultura degli Aborigeni non era presente il concetto di proprietà terriera bensì quello di appartenenza dell’individuo alla terra d’origine. Cominciò la caccia per lo sterminio degli Aborigeni e la conquista delle loro terre. Nel 1930 sopravvivevano solo 80.000 aborigeni[16]. Solo nel 1992 la Suprema Corte australiana dichiarò l’invalidità della dottrina della “terra nullius”. Ricordo ancora il caso della Namibia, perché per molti storici preparò gli orrori del Nazismo, e dal punto di vista che ho assunto spiega bene i nesso fra razzismo e guerra. Nel 1884 il Cancelliere tedesco Bismarck la dichiarò “Africa Tedesca del Sud-Ovest”. Gli occupanti tedeschi si appropriarono con la violenza delle terre (molte ancora oggi in mano a discendenti dei colonizzatori) e misero in schiavitù gran parte della popolazione, nel 1904 effettuarono uno sterminio di immense proporzioni, che però è stato dimenticato fino a poco tempo fa. In seguito alla rivolta dei popoli Herero e Nama contro le violenze dei colonizzatori il governo di Berlino inviò il famigerato Lothar von Trotha, la cui strategia fu l’annientamento totale, ricorrendo anche all’avvelenamento dei pozzi d’acqua, decimando per fame e sete la popolazione civile. Le stime degli storici parlano di almeno 100.000 morti tra Herero, Nama e altre etnie tra il 1904 e il 1908. Per lo storico del colonialismo Jurgen Zimmerer: “La differenza della Namibia con gli altri colonialismi è anzitutto il genocidio come guerra dello Stato, e non come espressione di violenza privata. … una pulizia etnica sistematica e centralizzata”[17]. Scrive Hannah Arendt ne Le Origini del Totalitarismo: «La distruzione dei popoli coloniali fu una preparazione all’Olocausto, i campi di raccolta e le impiccagioni di massa degli Herero, un gigantesco e infernale addestramento ai campi di concentramento nazisti». Dietro gli atti atroci, inoltre, erano presenti ideologie razziali e pseudoscientifiche molto simili a quelle che informeranno lo sterminio degli ebrei, anche se era la “razza” nera a essere considerata inutile o nociva per gli interessi della popolazione tedesca. Alcune vittime diventarono cavie umane per gli esperimenti medici di Eugene Fischer, uno scienziato tedesco che condusse studi sulla “razza” e sperimentò la sterilizzazione e l’inoculazione di malattie come vaiolo, tifo e tubercolosi su donne e bambini. Tra gli allievi di Fischer, diventato poi rettore all’Università di Berlino, ci fu Josef Mengele, che in seguito condusse esperimenti genetici sui bambini prigionieri nel lager di Auschwitz. Solo pochi anni fa sono iniziati negoziati fra la Germania e la Namibia e sono in corso azioni legali per ottenere “compensazioni” per le popolazioni namibiane. Le richieste di risarcimento e riconoscimenti per l’orribile passato colonialista stanno ora fluendo dal Pakistan, dall’India e da altri paesi che sono stati devastati dal razzismo e dall’imperialismo europei. Il caso namibiano potrebbe mettere in moto l’intero pianeta, poiché è quasi il mondo intero che è stato devastato dal colonialismo europeo. Penso sia superfluo in questa sede soffermami sulle atrocità compiute dall’Italia nelle guerre coloniali in Africa. Mi soffermerò invece succintamente su quando l’Impero Britannico creò il caos in Medio Oriente per i propri biechi (e in prospettiva errati) calcoli, una politica che ha anticipato e preparato quella degli Stati Uniti. Questo schematico sunto rende solo una pallida idea dell’intrico delle vicende[18]. È fondamentale tenere presente che per tutto l’Ottocento il concetto di “frontiera” era sconosciuto e fu il colonialismo con la logica di rapina che cambiò radicalmente le cose. La furiosa competizione tra le potenze europee pose l’esigenza di demarcare le conquiste dei singoli Stati stabilendo le basi della “legalità” (coloniale) del possesso dei territori: un concetto del tutto strumentale di “legalità” che ha dato fondamento giuridico formale alla predazione delle terre dei popoli che vi vivevano da secoli, considerandole anche qui terre “di nessuno”. Fino alla Prima Guerra Mondiale tutto il Medio Oriente faceva parte dell’Impero Ottomano. L’evento epocale fu a fine Ottocento la comparsa del petrolio: la lotta per il controllo del petrolio divenne frenetica, rendendo sempre più inevitabile un conflitto mondiale. In vista della guerra la Gran Bretagna impostò uno spregiudicato doppio gioco nei confronti degli arabi, per assicurarsi l’appoggio contro la Turchia, fornendo a tutti garanzie inconciliabili fra loro di concessioni e diritti successivi al conflitto. Così nel giugno 1915 lo sceriffo Hussein che governava La Mecca proclamò la rivolta araba a fianco di Londra: gli inglesi lesinarono i mezzi perché non volevano trovarsi una nuova potenza araba una volta sconfitti i turchi. Intanto Londra e Parigi avviarono alle spalle degli arabi trattative segrete per decidere la spartizione del Medio Oriente dopo la guerra: il piano Sykes-Picot (dai nomi dei negoziatori) del 1917, per procurarsi l’appoggio militare della Russia le forniva garanzie che annullavano la prospettiva di uno stato per il popolo armeno (che nel 1915 aveva subito lo spaventoso genocidio da parte della Turchia), e giocava cinicamente la carta sionista sulla pelle degli arabi. A fine Ottocento Teodoro Herzl aveva posto l’obiettivo della creazione in Palestina – abitata da 600.000 arabi a fronte di 25.000 ebrei – di una sede nazionale per il popolo ebraico, e nel 1917 con la “Dichiarazione Balfour”, “Il governo di Sua Maestà considera[va] favorevolmente l’insediamento di un focolare nazionale in Palestina per gli ebrei”. La Rivoluzione Bolscevica guastò i calcoli, determinando il ritiro della Russia dal conflitto (gli accordi Sykes-Picot vennero allo scoperto perché una copia fu trovata negli archivi del ministero degli Esteri russo). Dopo la fine del conflitto gli accordi di spartizione furono difficilmente applicabili, e dopo travagliate trattative le brutali spartizioni, con linee tracciate nel deserto che non tenevano conto delle popolazioni che abitavano i territori, crearono i problemi drammatici che ancora oggi affliggono il mondo! I popoli curdo e armeno vennero cinicamente sacrificati. La Francia ottenne il protettorato della regione siriana che, per mettere sotto controllo le conflittualità, spezzò in 5 Stati. Gli inglesi lasciata la Siria si ritirarono in Palestina e in Iraq, dove proseguirono dopo la firma dell’armistizio con la Turchia l’offensiva militare per occupare i campi petroliferi di Mossul, incontrando una fiera opposizione popolare degli arabi. Il nazionalismo arabo si sviluppò irrimediabilmente e non poté più essere frenato, alimentato dai soprusi degli europei. Gli errori e i soprusi degli inglesi in Iraq e dei francesi in Siria produssero danni irreparabili nel futuro del Medio Oriente! La Gran Bretagna divise artificialmente la Transgiordania in Palestina e uno Stato inventato, che diventò più tardi la Giordania. Sulla Palestina impose un protettorato, di fatto un’occupazione militare, e praticò una sistematica politica di impoverimento e vessazione della popolazione araba. Nel 1936 esplose la grande rivolta araba che fu l’atto di nascita del nazionalismo palestinese. I sionisti svilupparono una campagna di terrorismo verso gli inglesi che assunse le caratteristiche di una vera guerra di logoramento: sabotaggi, attentati dinamitardi, rapimenti di militari, ecc. Questi furono i prodromi della formazione dello Stato di Israele del 1948. Le manovre britanniche portarono anche alla proclamazione nel 1932 del regno dell’Arabia Saudita, cioè Arabia dei Saud, che si fondò sul wahabismo radicale come religione di stato[19]: i potenti Saud contano meno di un secolo. Gli inglesi sbarrarono però la strada al controllo saudita sul Kuwait, per i propri interessi imperiali, e privando allo stesso tempo l’Iraq dello sbocco al mare (e conosciamo le conseguenze nella Guerra del Golfo del 1991). Ingiustizia era fatta! La strategia del “caos creativo” perseguita oggi dai neocons statunitensi non è in fondo nulla di nuovo, l’aveva inaugurata l’Impero di Sua Maestà Britannica un secolo fa. Nel secondo dopoguerra iniziò una successione di colpi di stato e cambiamenti di regimi, iniziata dal golpe organizzato dalla CIA in Iran nel 1953 per deporre il primo ministro Muhammad Mossadeq, reo di avere proposto niente meno che di nazionalizzare la Compagnia anglo-iraniana del petrolio! La cosiddetta decolonizzazione successiva prenderebbe troppo spazio. I paesi coloniali prima di cedere compirono ovunque repressioni feroci, come quelle della Francia nella Guerra d’Algeria 1954-1962, ed hanno sistematicamente complottato per eliminare i leader progressisti “scomodi” che intendevano svincolarsi dal loro dominio (basti ricordare gli assassinii di Patrice Lumumba, Congo 1961; Thomas Sankara, Burkina Faso 1987) e insediare al potere regimi oscurantisti o dittatoriali molto più malleabili per i loro fini. Ma intanto in quei paesi e in quei popoli si è sviluppata una coscienza civile, e con essa la consapevolezza dei danni profondi subiti durante la dominazione coloniale: come possiamo stupirci del profondo risentimento verso i nostri Paesi?[20] Parte 2 La quarta pandemia, la guerra e il militarismo dei disastri Gli Stati Uniti sono stati in guerra 222 anni su 239 che esistono come stato: c’è chi si è chiesto se questa furia bellica rischi di diventare autodistruttiva[21]. Negli Stati Uniti (ma la tendenza è in atto in tutto il mondo) la polizia ha adottato in modo crescente metodi, strumenti repressivi ma anche armamenti prettamente militari: e oggi il collegamento fra le radici del razzismo e il militarismo è sempre più spinta con la gestione militare dell’ordine pubblico attuata brutalmente da Trump con l’utilizzo della Guardia nazionale e addirittura di agenti segreti e mezzi privi di qualsiasi contrassegno di riconoscimento. Insomma, l’ordine pubblico diviene un problema di “sicurezza nazionale”, pertanto militare, al pari della politica energetica e industriale [22]. Ma vorrei passare a discutere l’aspetto che vedo troppo spesso trascurato dai movimenti ambientalisti, anche da quello che è sorto a livello mondiale dopo le proteste di Greta Thunberg: il legame profondo fra la guerra e le attività e le produzioni militari, e le devastazioni ambientali, quello che Gullì chiama il capitalismo dei disastri. Il contrasto del riscaldamento globale punta a chiudere l’epoca dei combustibili fossili: ma se anche riconvertissimo per incanto tutte le produzioni con fonti energetiche rinnovabili rimarrebbe lo spaventoso consumo degli eserciti! Quanti sanno che il solo Pentagono è valutato il 35o consumatore di petrolio al mondo in una graduatoria che include 210 Stati?[23] «Secondo il 2010 Base Structure Report, l’impero globale del Pentagono include più di 539.000 strutture in 5.000 siti che coprono più di 28 milioni di acri, bruciando 350.000 barili di petrolio al giorno (solo 35 paesi nel mondo consumano più) senza contare l’olio bruciato da appaltatori e fornitori di armi. La fornitura di carburante riguarda più di 28.000 veicoli blindati, migliaia di elicotteri, centinaia di aerei da combattimento e bombardieri e vaste flotte di navi militari» (con l’eccezione di 80 sommergibili e portaerei che diffondono … inquinamento radioattivo). Forse pensiamo che la propulsione di portaerei, sommergibili, carri armati, ecc., venga convertita a energia solare?! Rossana de Simone commentando la conferenza “Salva la terra, abolisci la guerra” tenuta nel giugno 2019 a Londra dall’organizzazione Movement for the Abolition of War, [24] sintetizzava il problema con le parole: “E’ stato stimato che Il 20% di tutto il degrado ambientale nel mondo è dovuto agli eserciti e alle relative attività militari”. Nel libro The Green Zone. The Environmental Costs of Militarism (2009), l’ex docente di storia delle idee Barry Sanders riporta un calcolo impressionante: l’esercito USA, con tutti i mezzi e le operazioni, contribuirebbe da solo ad almeno il 5% delle emissioni di gas serra totali. Gli Stati Uniti hanno quasi metà delle colossali spese militari mondiali (nel 2019 più di 1.700 miliardi di $), se sommassimo l’impatto di tutti gli eserciti e le attività militari esso costituisce uno dei primissimi responsabili di emissioni di gas climalteranti del pianeta. Sarà arduo eliminare o riconvertire l’intero complesso dell’industria petrolifera, figuriamoci “debellare” l’istituzione militare. Dopo la conferenza sul clima di Copenhagen del 2008 Sara Flounders si chiedeva [25]: «Com’è possibile che il peggiore inquinatore di CO2 e di altre emissioni tossiche del pianeta non sia un punto centrale di discussione e delle restrizioni proposte in ogni conferenza? … il Pentagono è il maggiore utilizzatore istituzionale di prodotti ed energia dal petrolio. Eppure il Pentagono gode di un’esenzione generalizzata [potremmo dire ‘a prescindere’ con Totò] in tutti gli accordi internazionali sul clima». «Ai tempi dei negoziati per gli Accordi di Kyoto gli USA pretesero come clausola per firmare che tutte le loro operazioni militari nel mondo e tutte le operazioni alle quali partecipavano con l’ONU e/o la NATO fossero completamente esentate da rilevazioni o riduzioni. Dopo essersi assicurata questa gigantesca concessione, l’amministrazione Bush poi rifiutò di firmare gli accordi». «Nonostante gli USA avessero già ricevuto queste assicurazioni nei negoziati, il Congresso degli Stati Uniti ha approvato un’esplicita disposizione che garantisce l’esenzione dei militari. Inter Press Service riportò il 21 maggio 1998: “I legislatori USA, nell’ultimo colpo agli sforzi internazionali per arrestare il riscaldamento globale, oggi hanno esentato le operazioni militari americane dall’accordo di Kyoto … un emendamento alla military authorization bill del prossimo anno che ‘proibisce la limitazione delle forze armate ai sensi del protocollo di Kyoto’». Vediamo qualche dato quantitativo sull’impatto ambientale e disastri provocati dalle guerre. Secondo il rapporto A Climate of War del 2008 i primi quattro anni di pesantissime operazioni militari in Iraq dal 2003 hanno provocato l’emissione di oltre 140 milioni di tonnellate di gas serra (CO2 equivalente), più delle emissioni annuali di 139 paesi [26]: si stima che la guerra abbia generato per la sola movimentazione di sistemi d’arma (aerei, carri, autoblindo, tank, aerei etc.) più di tre milioni di tonnellate di CO2 al mese. Un rapporto del 2014 dell’International Peace Bureau (Ipb), “Demilitarization for Deep Decarbonization”, affermava recisamente: «Ridurre il complesso militar-industriale e ripudiare la guerra è una condizione necessaria per salvare il clima, destinando le risorse risparmiate all’economia post-estrattiva e alla creazione di comunità resilienti». Lo studio del giugno dello scorso anno “Pentagon Fuel Use, Climate Change, and the Costs of War” di Neta Crawford [27] della Boston University nell’ambito del progetto Cost of war, analizza il consumo di carburante nelle guerre USA “antiterrorismo” post-11 settembre. Dal 2011 al 2017 la stima al ribasso, per il solo consumo di combustibile, arriva all’emissione di 1,2 miliardi di tonnellate di gas serra (CO2 equivalente). Ma queste stime non comprendono la produzione di armi e il suo impatto ecologico e climatico, né l’impatto sul clima e sull’ambiente delle distruzioni massicce di infrastrutture, case, servizi, tutto da ricostruire. L’appello «Stop the Wars, stop the warming» lanciato da World Beyond War alla vigilia della Conferenza sul clima di Parigi (2015) affermava: «L’uso esorbitante di petrolio da parte del settore militare statunitense serve a condurre guerre per il petrolio e per il controllo delle risorse, guerre che rilasciano gas climalteranti e provocano il riscaldamento globale. È tempo di spezzare questo circolo: farla finita con le guerre per i combustibili fossili, e con l’uso dei combustibili fossili per fare le guerre». Ma l’impatto delle attività militari e delle guerre sull’ambiente e sul clima va ben oltre le emissioni di gas serra. Le attività militari sono responsabili di molte forme di inquinamento e danni alla salute delle popolazioni: dai metalli pesanti per finire all’uranio impoverito, e anche al torio per la sperimentazione di razzi nei poligoni di tiro. Basti ricordare il micidiale “agente Orange” smodatamente utilizzato dagli Stati Uniti nella guerra del Vietnam, il quale ancora oggi protrae i suoi effetti devastanti. Non meno grave è l’occupazione di territori sottratti a coltivazioni o altre attività umane utili, e che invece rimangono gravemente e permanentemente contaminati dalle attività militari: il militarismo dei disastri! Come esempio, sono noti (ma i procedimenti giudiziari sono insabbiati) i danni alla salute umana e degli animali, e ovviamente all’ambiente, dei poligoni di tiro in Sardegna, regione che detiene il record di servitù militari in Italia [28]. Ma a parte l’inquinamento e l’emissione di gas serra, che fine fanno gli armamenti non usati un guerra e diventati obsoleti? Non sono certo “riciclabili” o riutilizzabili in una futura economia circolare: le attività e le produzioni militari spezzano in un modo assolutamente irreversibile, e purtroppo inarrestabile, qualsiasi ciclo naturale. Un esempio eloquente sono i cimiteri di sommergibili nucleari ereditati dalla Guerra Fredda [29]. Ma la crescente produzione di armamenti sempre più sofisticati contenenti materiali tecnologici avanzati lascerà altre eredità ingestibili. Nell’articolo citato trattavo anche dell’uranio depleto, i cui effetti hanno colpito anche i soldati italiani che servirono all’estero: i decessi hanno superato i 300. Ovviamente poco si sa sull’aumento di tumori e malattie a danno delle popolazioni vittime degli indiscriminati attacchi militari, e che ovviamente non hanno canali per ricorrere alla giustizia o ottenere risarcimenti (il Tribunale per la ex Jugoslavia archiviò le denunce contro la NATO). Il problema è stato risollevato da un recentissimo articolo del Bulletin of the Atomic Scientists [30]: nella sola “Guerra del Golfo” del 1991 l’esercito USA esplose 300 tonnellate, disperdendo complessivamente fra 170 e 1.700 tonnellate del metallo tossico e radioattivo, e non ha mai dichiarato le località colpite. Le bonifiche sono praticamente impossibili. La contaminazione è valutata 50 volte maggiore che nei Balcani, ancora oggi i bambini giocano con i reperti (ricordiamo che l’uranio impiega 24.000 anni per dimezzarsi!) ed accusano l’insorgenza di tumori ed altre malattie, e gli effetti si proiettano sugli embrioni e su feti. Ovviamente, come per molti cancerogeni (si pensi ai tumori da amianto) il nesso causa-effetto non è deterministico e occorrerebbero controlli su decine di migliaia di abitanti per decine di anni, ma dopo le guerre devastanti i sistemi sanitari di questi paesi sono collassati. Com’è possibile cullarsi nell’illusione di poter arrestare ed invertire la crisi ambientale e il riscaldamento globale senza affrontare l’opposizione alle attività militari e alle guerre? Senza dubbi quest’ultimo è un problema ben più difficile da affrontare che non la riconversione dell’industria petrolifera, ma non è che lasciandolo da parte sarà più facile realizzare la transizione post-fossile! Last but not at all least, è singolare che chi denuncia l’incombere della minaccia climatica e si batte per questa transizione trascuri, o frequentemente ignori, un’altra minaccia che potrebbe spazzare via la società umana che conosciamo letteralmente … “in un baleno”: come ricordavo all’inizio, il Bulletin of the Atomic Scientists ci allerta che oggi il rischio di guerra nucleare è il più alto dal 1945! Le simulazioni più recenti conferano (dopo innumerevoli altre) che anche uno scambio limitato di bombe nucleari (per esempio 200 in un’eventuale guerra fra India e Pakistan, le cui tensioni sono da sempre sull’orlo di un conflitto) genererebbe, altre alle vittime dirette, un “inverno nucleare” il cui protrarsi potrebbe causare la morte di 2 miliardi di esseri umani. Fra l’altro, è stato autorevolmente denunciato anche un possibile nesso diretto con la crisi climatica, la quale potrebbe aggravare i rischi di una guerra nucleare [31]: uno scenario particolarmente preoccupante è che l’aumento delle temperature globali causino devastazioni dell’agricoltura in Pakistan, scatenando proteste sociali che potrebbero portare gli elementi islamisti allineati con le forze armate a impadronirsi delle circa 150 testate nucleari; tanto che il US Joint Special Operations Command sta conducendo esercitazioni per infiltrare agenti nel paese. Ma dopo questa serie di denunce vorrei finire con una dose di ottimismo. Per fortuna una luce si è accesa 3 anni fa, quando la campagna internazionale ICAN (International Campaign to Abolish Nuclear Weapons) coinvolse le Nazioni Unite, che il 7 luglio 2017 approvarono il nuovo Trattato di Proibizione delle Armi Nucleari (TPAN, inglese TPNW), il quale vieta il possesso, l’uso ed anche la minaccia delle armi nucleari. In Italia purtroppo questo trattato ha subìto un vergognoso oscuramento da parte dei principali media e partiti, sottomessi al Washington consensus e alla NATO. Il TPAN necessita per entrare in vigore come parte integrante del diritto internazionale di venire ratificato da 50 Stati: ma siamo probabilmente in dirittura d’arrivo, le ratifiche sono 40. È chiaro che il TPAN sarà vincolante solo per gli Stati che lo firmano, ma una volta in vigore diverrà un deterrente per dissuadere dal ricorso alle armi nucleari: come è avvenuto per altri trattati che vietano armi di distruzione di massa o inumane (batteriologiche, 1972; chimiche, 1993; mine antiuomo, 1997), il principio sarà stabilito e il TPAN estenderà inesorabilmente la sua funzione, perché la popolazione mondiale pretenderà su una base giuridica l’eliminazione delle armi nucleari, e un crescente numero di Stati lo riconoscerà, diventerà un obbligo. È solo questione di tempo.
Note 1[1]. Bruno Gullì, «USA. Le radici della rivolta attuale: la triplice pandemia di razzismo, Covid-19 e capitalismo dei disastri», Effimera, 19 luglio 2020, http://effimera.org/usa-le-radici-della-rivolta-attuale-la-triplice-pandemia-di-razzismo-co-vid-19-e-capitalismo-dei-disastri-di-bruno-gulli/. 2[1]. Le referenze sono tante, e ne conosco solo qualcuna, ma eloquenti: A. J. Bacevich, The New American Militarism: How Americans Are Seduced By War, 2013; W. J. Astore, “American militarism is not a fairly tale”, The Nation, 14 giugno 2011, https://www.thenation.com/article/archi-ve/american-militarism-not-fairy-tale/; P. Anderson, “Militarism in America”, Reader, 30 maggio 2019, http://duluthreader.com/articles/20-19/05/30/17068_militarism_in_america; D. Niose, “You’ve Been Conditioned for War”, Psychology Today, 11 gennaio 2020, https://www.psychologytoday.com/us/bl-og/our-humanity-naturally/202001/youve-been-conditioned-war. 3[1].”Closer than ever, It is 100 seconds to midnight”, 2020 Doomsday Clock Statement, Science and Security Board, Bulletin of the Atomic Scientists, 23 gennaio 2020, https://thebulletin.org/doomsday-clock/current-time/?utm_source=Newsletter&utm_medium=Email&utm_campaign=Newsletter01232020&ut-m_content=DoomsdayClock_2020Statement. 4[1]. Ho sviluppato più compiutamente queste considerazioni nell’articolo “Il capitalismo-colonialismo-imperialismo ha creato il caos del mondo in cui viviamo!”, Contropiano, 2 febbraio 2020, https://contropiano.org/documenti/-2020/02/02/il-capitalismo-colonialismo-imperialismo-ha-creato-il-caos-del-mondo-in-cui-viviam-o-0123631. 5[1]. Assumo queste categorie da Ramon Grosfoguel, Rompere la colonialità. Razzismo, islamofobia, migrazioni nella prospettiva decoloniale, Mimesis, 2017, p. 32. 6[1]. Le mie conoscenze storiche non sono sufficienti per formulare un giudizio, ma mi sembra di potere per lo meno ipotizzare che per molti aspetti, o per lo meno per alcuni periodi, la dominazione araba nella Spagna mussulmana – a parte il suo grande apporto civile, culturale, medico, scientifico – abbia praticato forme di notevole tolleranza verso cristiani ed ebrei. Scrive ad esempio Roberto Rutter: «Cordova è certamente la città più ricca dell’Europa alla fine del primo millennio. Vi si coltivano le scienze, la matematica e la geometria, le lettere e la musica. … La maggioranza della popolazione è cristiana, ma ci sono anche molti ebrei e qualche berbero. Il potere però è saldamente in mani musulmane. … [Dopo la conquista Araba, 711-716] con l’arrivo degli Omayyadi diventa possibile la creazione di un nuovo Stato, iberico e islamico: l’emirato e poi il califfato di Cordova. Per governare uno stato multietnico in cui il potere è in mano ad una minoranza, seppure forte delle armi, la tolleranza non è un’opzione secondaria accolta per magnanimità dei dominatori, ma l’unica scelta possibile. È così che nella Spagna moresca del decimo secolo si avvia un primo interessante esperimento di stato multietnico e multiculturale basato sulla convivenza di cristiani, musulmani, ebrei e berberi. … Certo, non esistono convivenze senza attriti. Anche nel califfato si verificano sommosse e ribellioni soffocate nel sangue. Ma non sono questi a porre termine all’esperimento multiculturale.» [Roberto Ruegger, “Un esperimento di tolleranza: la Spagna musulmana”, Area, 16 novembre 2001, https://www.areaonline.ch/Un-e-sperienza-di-tolleranza-la-Spagna-musulmana-b13a3900]. Si trovano ovviamente anche contestazioni di questa idea. Meno controversa sembra l’idea di un islam tollerante verso gli ebrei: ad esempio Bernard Lewis, Gli ebrei nel mondo islamico, Sansoni, 1991. 7[1]. Oltre al citato Grosfoguel, un riferimento obbligato è Silvia Federici, Calibano e la strega. Le donne il corpo e l’accumulazione originaria, Mimesis, 2015 (Calibano è un personaggio teatrale di William Shakespeare nella commedia La Tempesta, un mostro ripugnante amico di Prospero). 8[1]. Intervista a Silvia Federici, “Su capitalismo, colonialismo, donne e politica alimentare”, 17 luglio 2010, http://www.sagarana.net/anteprimal.php?quale=32. 9[1]. Fiorenzo Canterini, Colpi di scure e sensi di colpa. Storia del disboscamento della Sardegna dalle origini a oggi, Delfino Editore, 2013. 10[1]. F. Casula, “Quando i tiranni sabaudi rasero al suolo la Sardegna”, Il Manifesto, 1 febbraio 2017, https://www.manifestosardo.org/quan-do-i-tiranni-sabaudi-rasero-al-suolo-la-sardegna/. 11[1]. Lucio Villari, “I bambini drogati ai tempi di Dickens, Il lato oscuro della rivoluzione industriale nei rapporti dei medici inglesi”, La Repubblica, 16 marzo 2013, http://illuminations-edu.blogspot.com/2013/03/i-bambini-drogati-ai-tempi-di-dickens.html. 12[1]. Amitav Ghosh, Mare di Papaveri, Neri Pozza, 2009. 13[1]. Un bel documentario di ARTE TV in italiano, Selvaggi, La storia degli zoo umani, https://www.arte.tv/it/videos/067797-00-0-A/selvaggi-la-storia-degli-zoo-umani/ (visibile fino al 30 agosto 2020). “Uomini in gabbia, gli zoo umani nell’Europa bianca”, Info Out, 27 gennaio 2017, https://www.infoaut.org/culture/uomini--in-gabbia-gli-zoo-umani-nelleuropa-bianca. 14[1]. William G. Randles, L’antico Regno del Congo, Jaca Book, 1983. 15[1]. Si veda ad esempio B. Bellesi, Congo, il genocidio dimenticato. Dalla seconda metà dell’Ottocento al 1960, Peacelink, 26 marzo 2005, https://www.peacelink.it/kimbau/a/10354.html. Se oggi l’opinione pubblica ignora questa, e altre orribili carneficine compiute ai tempi della colonizzazione europea in Africa, lo si deve anche al fatto che gli autori dell’eccidio fecero in modo da nascondere le proporzioni e le prove dei loro scempi: quando nel 1908 Leopoldo cedette ufficialmente la propria colonia al governo del Belgio, fece bruciare per otto giorni consecutivi gli archivi dei suoi possedimenti congolesi, e ridusse al silenzio i testimoni scomodi. A riportare alla luce l’ecatombe congolese sono stati i pochi documenti amministrativi rinvenuti dagli storici, e soprattutto le centinaia di impressionanti fotografie scattate da reporter indipendenti o da missionari ai tempi dei massacri, come quelle di Alice Seeler, htt-ps://www.vice.com/it/article/vd58dm/alice-seeley-harris-foto-colonialismo-congo-432. 16[1]. Un fenomeno obbrobrioso è stato quello delle Stolen generations (Generazioni rubate), che si è protratto dal 1870 a ben il 1970! I bambini venivano strappati alle loro famiglie per privarli della loro identità culturale, rieducati ai costumi britannici per impiegarli come servi per le famiglie dei colonizzatori. Tra il 1910 e il 1970, almeno 100.000 bambini furono allontanati dalle loro famiglie. Tra il 1995 e il 1997 fu condotta un’inchiesta sull’allontanamento di bambini australiani aborigeni dalle loro famiglie, e nel 1998 fu istituito il National Sorry Day. Solo il 13 febbraio 2008 il neo-primo ministro australiano Kevin Rudd si è scusato ufficialmente con le popolazioni e con i sopravvissuti delle Stolen Generations. Secondo la Convenzione dell’ONU per la Prevenzione e Repressione del Genocidio del 1948 il “trasferimento violento dei minori da un gruppo all’altro” integra gli estremi del genocidio. 17[1]. T. Mastrobuoni, “Namibia, 1904; quando i tedeschi fecero le prove della Shoah”, La Repubblica, 30 maggio 2017, https://www.repubblica.it/venerdi/articoli/20-17/05/30/news/namibia_genocidio_tedeschi_herero-166817547/. 18[1]. Devo suggerire vivamente per capire le vicende, gli interessi, le manovre, gli inganni che hanno portato al Medio Oriente di oggi il libro purtroppo esaurito di Filippo Gaja, Le Frontiere Maledette del Medio Oriente, Maquis Edizioni, 1991. Suggerisco anche: R. Paternoster, Medio Oriente, mina vagante fabbricata in Europa nel 900, http://win.storiain.net/arret/num120/artic2.asp). 19[1]. Si veda ad esempio E. Bertini, Arabia Saudita e wahhabismo, 24 aprile 2017, https://[limesclubpisa.wordpress.com/2017/04-/24/arabia-saudita-e-wahhabismo/. 20[1]. Paolo Barnard, Perché Ci Odiano, BUR, 2006. 21[1]. Tom Engelhardt, A Nation Unmade by War, Haymarket Books, 2018. 22[1]. Giorgio Ferrari, “Quarta rivoluzione industriale e transizione energetica: le aspettative mal riposte del New Green Deal”, in corso di pubblicazione su Effimera. 23[1]. Mario Agostinelli, “Cop 21: per combattere l’inquinamento il Pentagono è militesente”, Il Fatto Quotidiano, 1 dicembre 2015, https://ww-w.energiafelice.it/cop21-per-combattere-linquinamento-il-pentagono-e-militesente/. 24[1]. Rossana De Simone, “Militarismo e cambiamenti climatici, The Elephant in the Room”, Peacelink, 31 ottobre 2019, https://www.peacelink.it/disarmo/a/46982.html. 25[1]. Sara Flounders, “Pentagon’s Role in Global Catastrophe: Add Climate Havoc to War Crimes”, Global Research, 18 dicembre 2009, https://www.globalresearch.ca/pentagon-s-role-in-global-catastrophe-add-climate-havoc-t-o-war-crimes/16609. 26[1]. A. Bast, “A Climate of War. The war in Iraq and global warming”, Oilchange, 1 marzo 2008, http://priceofoil.org/2008/03/01/a-climate-of-war/. 27[1]. Neta Crawford, “Pentagon Fuel Use, Climate Change, and the Costs of War”, Boston University, 12 giugno 2019, https://watson.brown.edu/costsofwar/fil-es/cow/imce/papers/2019/Pentagon%20Fuel%20Use,%20Climate%20Change%20and%20the%20Costs%20of%20War%20Final.pdf. 28[1]. Walter Falgio, “Sardegna: l’invasione militare e chi si oppone”, Bottega del Barbieri, 11 maggio 2020, http://www.labottegadelbarbieri.or-g/sardegna-linvasione-militare-e-chi-si-oppone/. 29[1]. A. Baracca, “Antropocene-Capitalocene-Nucleocene: l’eredità dell’Era Nucleare è incompatibil con l’ambiente terrestre (e umano)”e, Effimera, 11 settembre 2018, http://effimera.org/antropocene-capitalocene-nucleocene-leredita-dell-era-nucleare-incompatibile-lambiente-terrestre-umano-angelo-baracca/. 30[1]. Elena Bruess e Joe Snell, “War and the environment: The disturbing and under-researched legacy of depleted uranium weapons”, Bulletin of the Atomic Scientists, https://thebulletin.org/2020/07/war-and-the-environment/. 31[1]. Michael T. Klare, “How Rising Temperatures Increase the Likelihood of Nuclear War”, The Nation, 13 gennaio 2020, https://www.-thenation.com/article/archive/nuclear-defense-climate-change/.
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