https://www.huffingtonpost.it/ 25/04/2020
"Il manuale di sopravvivenza contro il Covid-19 è la Costituzione". Intervista a Giovanni Maria Flick By Stefano Baldolini
"Stiamo rischiando di perdere le nostre città, preda di cinque grandi disuguaglianze”. Sullo sfondo, il rischio del “pettegolezzo normativo” e di un “federalismo differenziato”
“La Costituzione come manuale di sopravvivenza contro gli scossoni provocati dal Covid-19. Per non abbandonare le nostre città, la prima delle formazioni sociali, a cinque grandi disuguaglianze”. Sullo sfondo, il rischio del “pettegolezzo normativo” e di un “federalismo differenziato”. Questo il senso della conversazione con Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte costituzionale, già ministro della Giustizia, a partire da un convegno alla Treccani dello scorso gennaio (“in cui tuoni e bagliori di ciò che stava arrivando già si intravedevano”) e dal conseguente e-book, appena uscito, “Le città per l’uomo ai tempi del Covid-19” (La Nave di Teseo), testi di Salvatore Settis, Luca Bergamo, Margherita Petranzan, Franco Purini e Flick stesso. Per il presidente Flick, c’è un filo che lega il suo “Elogio della città?” ai suoi studi sulla Costituzione. Ne parla con HuffPost, oggi nel settantacinquesimo del 25 aprile, “quando si sta celebrando il momento fondamentale del nostro Paese, il rapporto tra Resistenza e nascita della Carta Costituzionale”. “Stiamo rischiando di perdere le nostre città. Le città muoiono per varie ragioni, muoiono come le persone. Muoiono perché vengono occupate da altri. Perché rimangono deserte, abbandonate da chi le abita. Muoiono perché perdono la memoria del loro passato, in una specie di Alzheimer collettivo. Muoiono per le epidemie. In questo contesto, di fronte agli scossoni, la Costituzione che prima pensavo fosse semplicemente un manuale di convivenza, diventa un manuale di sopravvivenza. Pensiamo alla bellezza della globalizzazione, alla meraviglia della scienza e della tecnologia, poi arriva la pandemia e si muore soli, dovendo rinunciare addirittura al conforto di una presenza e al culto dei morti. La Costituzione è profondamente attuale, ma va attuata.” In che senso non è attuata? Perché ci sono una serie di principi e di valori, soprattutto quelli segnati dagli articoli 1 a 12 - eguaglianza, solidarietà, pari dignità sociale, libertà in alcune forme essenziali, democrazia, lavoro... - che non sono realizzati pienamente. La politica ha cercato di difendersi dall’accusa di non aver attuato la Costituzione con l’accusa (non vera) ad essa di non essere più attuale. L’emergenza pandemia sta portando in evidenza in modo drammatico la crisi e la mancanza di queste realizzazioni della Carta in uno dei centri nevralgici del nostro modo di vivere: la città come formazione sociale. Uno degli esempi più lampanti è l’aumento delle diseguaglianze. Noi vivevamo la serie delle tre diseguaglianze emblematiche, che vanno contro l’articolo 2 e 3 della Costituzione: contro gli ebrei, contro la donna, contro i migranti. A queste tre diseguaglianze ora con la pandemia del coronavirus se ne sono aggiunte due particolarmente drammatiche: sto parlando dell’abolizione degli anziani e dell’abolizione dei detenuti. Il tema della mortalità nelle Rsa, l’abbandono e l’isolamento degli anziani c’era già, bastava scorrere le inchieste degli anni passati sulle cosiddetti case di riposo. Anche il sovraffollamento delle carceri non è stato scoperto con il Covid-19, c’erano già state due condanne della Corte europea dei diritti dell’uomo sul trattamento inumano in strutture troppo affollate. La pandemia ha esasperato e portato al massimo di risonanza e di percezione queste due situazioni preesistenti e di cui non ci si era né occupati né preoccupati prima. Si riferisce alla disinvoltura con cui si è detto: “Gli anziani escono per ultimi”. Una proposta che da tempo non esito a definire oscena, perché è in palese contrasto con la Costituzione: da quando, con una pessima battuta, qualcuno ha detto che i vecchi non devono più votare; e che come regola generale i giovani hanno la precedenza nelle cure che richiedono mezzi con disponibilità limitata. Pur in buona fede stiamo introducendo un parametro di distinzione fondata soltanto sul coefficiente anagrafico, che si collega con gli altri parametri di diversità, ma non è previsto dalla Costituzione come tale, perché c’è la discriminazione di chi è inutile, di chi non rende più, di chi non dà profitto. Una discriminazione che accantona tutti i valori di tradizione, di esperienza, di presenza, che l’anziano può dare. Addirittura la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha detto che gli anziani non possono uscire prima del 31 dicembre 2020. Io ho già detto altrove: e perché non nel 31 dicembre del 2030? Così il problema sarà ampliamente risolto in modo più drastico. L’altro emblema della discriminazione di cui parlava è il detenuto. Esatto. Si dice: ma di che si lamenta, è già chiuso! Il problema è che gli altri sono chiusi dentro casa, sotto sanzioni, per evitare il contagio. Loro sono ‘dentro’ per altre ragioni, e in condizioni di sovraffollamento che anziché evitare, amplificano la possibilità di contagio. E questo vale sia per il detenuto sia per chi lavora nel carcere. Il carcere è quanto di più chiuso ci sia verso l’esterno, ma chiuso non vuol dire che non sia poroso. La pandemia ha avuto questo tristissimo e drammatico merito: di evidenziare e di aggiungere elementi a contraddizioni che segnano la vita nella città come formazione sociale. Torniamo alla città. Sì, perché la città nasce come concentrazione di paura, con le mura che devono difenderla dalle aggressioni esterne, che nel tempo diventano anche interne. Le mura prima difendevano dall’esterno, poi hanno iniziato a costruirle all’interno, per separare i ghetti dei ricchi dai ghetti dei poveri. Che si fronteggiano. La città nasce con l’esigenza fondamentale del rapporto con l’altro, prima funzionale e materiale: lo scambio, il commercio; poi anche spirituale, culturale, l’apprendimento, l’esperienza reciproca. Abbiamo due modi per intendere la città, il primo come luogo che fornisce servizi contro corrispettivi: io ti do la sicurezza, la mobilità, la pulizia, la cultura, tu mi paghi le tasse. Pensiamo alle strutture e ai presupposti per garantire a ciascuno e a tutti la salute. A proposito, apro una parentesi. Prego. Stiamo riscoprendo il valore del diritto alla salute come espressione fondamentale dell’identità di ciascuno, ma anche di solidarietà. Quella formula della Costituzione: la salute è un diritto fondamentale del singolo ed è un interesse della collettività, sta a significare proprio questo, che il mio star bene in salute non può essere solo l’esaltazione libera da ogni confine del mio diritto all’autodeterminazione. Posso star bene, posso uccidermi, il fine vita. Ma io posso star bene e rifiutare i farmaci a cui son contrario a condizione che questo non danneggi gravemente le condizioni degli altri. Lei ricorderà la polemica e il dibattito anche costituzionale sulle vaccinazioni o sulla protezione dei più deboli nel fine vita. Tutto ciò discende dall’articolo 2 della Costituzione che non ricordiamo mai ma che dice che i diritti inviolabili devono coniugarsi con i doveri inderogabili di solidarietà politica, economica, e sociale. La solidarietà è essenziale come principio costituzionale per garantire l’equilibrio tra l’eguaglianza di tutti e la diversità di ciascuno. L’equilibrio tra la eguaglianza e la diversità che sono essenziali per l’identità e quindi per la dignità della persona, è assicurato dalla solidarietà che impedisce che l’uguaglianza si risolva in massificazione o al contrario la diversità si risolva in sopraffazione-discriminazione. A tal proposito, ‘solidarietà’ è stata una parola decisiva questa settimana. Angela Merkel l’ha pronunciata davanti al Bundestag a poche ore dall’Eurogruppo sui cosiddetti Recovery Bond e si dice, che almeno per ora, abbia salvato l’Europa. La cancelliera tedesca ha applicato alla lettera qualcosa che abbiamo anche nella nostra Carta? La differenza tra noi e i tedeschi in tema di Costituzione è che mentre noi abbiamo frammentato in modo esplicito o implicito il concetto di dignità in singole situazioni specifiche, concrete - la pari dignità sociale di tutti; o in riferimento alla retribuzione per una vita dignitosa; o in riferimento ai trattamenti sanitari per il rispetto della persona; o in riferimento alle pene dei detenuti... - i tedeschi invece, probabilmente alla luce di un’esperienza storica più drammatica della nostra (anche se noi - ricordiamolo oggi 25 aprile - abbiamo partecipato a quella esperienza, con le leggi razziste, con lo sterminio, con il campo di Fossoli e la risiera di San Saba) la misero come premessa di tutta la loro Costituzione. Dovevano fare i conti con la spianata di Auschwitz e col tema della dignità nel momento del crollo del nazismo. La dignità è la madre di tutti i diritti e va rispettata sempre e comunque; ciò vale anche seppure con una diversa formulazione per la nostra Costituzione. Ma chiudiamo la parentesi. Chiusa la parentesi, parlava di un’altra concezione di città. Assolutamente. Dicevamo che accanto alla città come realtà istituzionale deputata allo scambio di servizi, c’è un’altra dimensione di città come formazione sociale nella quale - art.2 della Costituzione - si svolge la personalità di ciascuno di noi e si fondano i diritti inviolabili e i doveri inderogabili di solidarietà. C’è il rischio che durante la pandemia la ripartizione delle competenze tra la città e altre realtà istituzionali come la Regione o lo Stato si risolva in una lotta sulla base dell’infelice formulazione della riforma del 2001. La domanda oggi è: in materia di sanità chi decide? Chi è responsabile? Solo in questi giorni si segnala un profondo disagio: c’è una regione che apre, un’altra che chiude... lo Stato che non si capisce se si limita ad appoggiare le fughe in avanti, o fughe all’indietro dei singoli governatori; o se è lui stesso a dare il là a una serie di trattamenti differenziati. Insomma, il rischio è di vedere la città soltanto come centro di potere che deve gareggiare con altri centri di potere, anziché come momento di realtà e luogo di realizzazione delle relazioni umane. Luogo dove si favorisce o si ostacola la convivenza, dove possono regnare i conflitti o i confronti: la città “di tutti”, la città “giusta”, la città come “bene comune”; o al contrario quella dei più forti e dei più ricchi. Qui entra in gioco anche il concetto di distanziamento sociale. Esatto, e la mia preoccupazione è che al contatto sociale umano si finisca per illudersi che sia sufficiente sostituirsi il contatto digitale. Cito il caso del Parlamento. Che non può restare a casa, anzi, deve stare sempre in piazza, non può limitarsi a votare telematicamente, non può essere delegittimato. In questi giorni, di fronte al caso della app Immuni sui tracciamenti sanitari, e delle sue limitazioni, finalmente si è detto: “ma vogliamo sentire anche il Parlamento?”. Ma dico: stiamo scherzando? Cito anche il caso dei processi, che non si possono fare sempre e soltanto a distanza. Le videoconferenze in sede giudiziaria sono state introdotte quando molto tempo fa ero ministro della Giustizia, ma in casi eccezionali e molto limitati. Che diventino un modo abituale per celebrare un processo nel quale uno degli elementi fondanti è la pubblicità del dibattimento è sbagliato. Ma poi si apre un altro problema. Quale? Un metro di distanza? Due metri? Quando usare la mascherina? Si può fare la grigliata in terrazza? Non scendo nei dettagli tecnici, che quasi scadono nel pettegolezzo normativo. Pettegolezzo normativo non è male. Senta, noi abbiamo un volume di quasi trecento pagine sul materiale normativo che si è accumulato per regolare le minuzie della lotta al virus nello spazio di un mese o due. E’ inconcepibile pensarci. E' vero che siamo in un Paese - come diceva Giolitti - in cui le leggi per gli amici si interpretano e per gli altri si applicano, il che vuol dire che più leggi ci sono sullo stesso argomento, più si offrono elementi e alternative per il lavoro dei giudici e per gli avvocati. Ma la legge andrebbe letta e interpretata con un atteggiamento di buona fede, e forse in un certo periodo bisognerebbe evitare l’emanazione di nuove norme. Addirittura? La sequenza dei decreti del Presidente del Consiglio che si sono susseguiti è discutibile, e porta a un problema di fondo: come possono nascere queste limitazioni? I vincoli alla libertà della persona devono trovare riferimenti nella Costituzione. In quest’ultima si dice che per limitare la libertà personale occorrono due tipi di garanzie, la legge e l’intervento del giudice. Per limitare la libertà di circolazione per ragioni di sanità è sufficiente la garanzia della legge; ecco l’importanza del Parlamento come presidio fondamentale della democrazia. Il resto verrebbe di conseguenza: il Governo e in certi casi i presidenti di regione possono intervenire con provvedimenti di urgenza, da limitare al massimo, previsti dalla legge sulla Protezione Civile del 2018. E soprattutto, occorre che gli interventi di carattere emergenziale che comportano dei limiti alla libertà di circolazione siano proporzionati, adeguati, ragionevoli e non discriminatori, temporanei e non destinati a sopravvivere quando viene meno l’emergenza. A tal proposito la cosiddetta fase 2 dovrebbe aprire agli spostamenti, ma non tra regioni. In questo momento è legittimo. Se c’è una regione che deve essere dichiarata zona rossa, si faccia pure. Ma lo deve fare il Governo, ovviamente di intesa e “in leale collaborazione con la Regione”. Non vorrei che il tentativo di trovare un punto di raccordo tra le esigenze di un’uniformità di trattamento su tutto il territorio nazionale e le esigenze di guardare alla situazione di singole zone in emergenza diventi la chiave per poter introdurre una specie di federalismo differenziato. Per arrivare di fatto a creare un nuovo equilibrio istituzionale tra il centro e le autonomie che non è quello che la Costituzione vuole, con il sistema introdotto dalla infelice ma tutt’ora operante sua riforma del 2001. Lo ribadisco oggi, 25 aprile, in cui è diritto-dovere per tutti ricordare come è nata la nostra Costituzione perché “chi dimentica il passato è condannato a ripeterlo” come sta scritto all’ingresso del campo di concentramento di Dachau e come ci ammonisce tra i tanti inascoltati Primo Levi.
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