http://osservatorioglobalizzazione.it/ 12 maggio 2020
Il crocevia della globalizzazione: quale mondo dopo il coronavirus? by Andrea Muratore
Torna il nostro dossier “Coronavirus: sfide e scenari”, su cui oggi Andrea Muratore ci parla degli scenari a lungo termine aperti dalla pandemia e delle prospettive riguardanti le evoluzioni economiche, politiche e sociali indotte dalla pandemia in corso in tutto il mondo. L’epidemia di coronavirus e le sue conseguenze per le società del mondo globalizzato stanno, giorno dopo giorno, acquisendo tutte le caratteristiche di una svolta epocale. Di un contesto di catalizzazione di dinamiche, scenari e sviluppi già in atto, accelerati dall’incontro tra la pandemia originatasi in Cina e un mondo globalizzato di cui stavano, gradualmente, venendo in emersione spigolature e contraddizioni. Come ha dichiarato in un’intervista alla rivista francese Le Grand Continent la virologa Ilaria Capua, il virus e i suoi effetti corrono sfruttando la velocità e l’iperconnessione, fisica e non, del nostro sistema: “Attraverso le infrastrutture di comunicazione siamo riusciti ad accelerare (e quindi a trasformare qualitativamente) dei fenomeni che prima mettevano millenni ad accadere. Pensiamo al virus del morbillo: non era altro che una mutazione della peste bovina che si è trasmessa all’essere umano quando abbiamo iniziato ad addomesticare la mucca. Il morbillo ha invaso il mondo camminando, a piedi. Pensiamo all’influenza spagnola, che un secolo fa ci ha messo ben due anni per diffondersi. Questa volta invece sono bastate un paio di settimane”. Il coronavirus impatta come il temuto “cigno nero”, lo shock esogeno teorizzato nell’omonimo saggio di Nassim Nicholas Taleb e che in Italia è stata resa popolare dall’attuale presidente della Consob Paolo Savona. La tutt’altro che remota ipotesi di una malattia pandemica accelerata dai meccanismi della globalizzazione si trasforma in uno shock sistemico. Paradigmi consolidati sono saltati in poche settimane, dopo che le società occidentali si erano cullate nell’illusione che le strategie draconiane messe in campo dalla Cina di Xi Jinping fossero sufficienti a prevenire un’espansione del coronavirus oltre i confini dell’Impero di Mezzo. Le frontiere tornano ad essere limes, i commerci si bloccano, gli istituti di libero scambio e libera circolazione della globalizzazione si sospendono, la folle corsa delle borse dopate da un decennio di liquidità facile si trasforma in schianto sistemico, i governi tornano in campo. L’esponenzialità del contagio precede la capacità di coglierne gli scenari, le dinamiche, le conseguenze. Ma, per limitarci al contesto italiano ed occidentale, siamo certi che l’impatto della crisi del coronavirus sarà evidente su tre fronti importanti: quello economico-finanziario, quello politico e quello sociale. Non è il coronavirus a determinare i cambiamenti in atto: la somma di criticità in emersione nel nostro sistema, le vulnerabilità evidenti di un sistema, soprattutto economico-finanziario, poco resiliente agli shock di natura esogena, dal rischio geopolitico a quello epidemiologico, il clima di dinamica competizione tra potenze in atto e la magmatica emersione di un malessere sociale internazionale tra la fine del 2019 e l’inizio del 2020 prefiguravano l’avvicinamento di una fase di rottura. Il mondo dopo il coronavirus si evolverà in diversi scenari perché ciò che c’era prima era instabile e sotto certi punti di vista disfunzionale. I cambi di paradigma e gli scenari di discontinuità non nascono dal nulla ma da un precedente substrato sociale. Ma quali sono, dunque, i nodi venuti al pettine con l’attuale crisi? Quali direttrici di cambiamento determineranno lo sviluppo del mondo che verrà? Abbiamo voluto investigare per trovare le risposte a queste domande, indagando le tre aree precedentemente citate. Fine corsa per la finanza sregolata? Nel primo mese dell’emergenza coronavirus è ammontato, secondo quanto ricostruito da Vito Lops per Il Sole 24 Ore, a ben 25mila miliardi di dollari il conto delle perdite finanziarie dei mercati principali del pianeta. Wall Street ha bruciato circa un quinto della sua capitalizzazione. Ancora più pesante il conto europeo: il Ftse Mib si è quasi dimezzato in un mese arrivando a perdere il 44% del proprio valore. Il Dax 30 di Francoforte ha perso il 40%, in linea con gli altri listini continentali rappresentati dall’indice Eurostoxx 50 (-40%). In seguito, aprile ha mostrato un graduale riflusso della marea, ma oramai l’attestazione dell’inaffidabilità della scelta di sottoporre al “giudizio dei mercati” l’evoluzione del destino dei popoli e degli Stati è risultata conclamata anche al grande pubblico. Charles Kindleberger, nel mai dimenticato testo di storia finanziaria Manias, panic and crashes, ha ricostruito con dettaglio e capacità di analisi la traiettoria comparata delle diverse crisi finanziarie sottolineandone la ciclicità dell’andamento. In questa fase, sotto diversi punti di vista vengono al pettine i nodi del decennio seguito alla Grande Recessione del 2008: la risposta messa in campo dalle banche centrali, incentrata unicamente sull’espansione dell’offerta di moneta, ha letteralmente “dopato” le borse di tutto il mondo, fornendo risorse per quello che era creato un circolo virtuoso dagli operatori. La somma tra il denaro facile, i bassi tassi di sconto e l’elevata dilatazione dei listini ha creato uno scenario di vacche grasse per diversi operatori. Slegandosi completamente dall’economia reale in Europa e Stati Uniti, la folle corsa della finanza ha portato i listini a macinare record e gli operatori a cavalcare la redditività con massicci programmi di riacquisti di azioni proprie, piani di dilatazione dei dividendi e spericolate operazione di fusione e acquisizione guidate unicamente dal valore borsistico. Lo stop improvviso di catene logistiche, flussi economici e scambi per l’emergere del contagio ha bruscamente richiamato alla realtà: l’economia materiale serve e il suo brusco blocco ha precipitato i mercati finanziari di tutto il mondo in una profonda fase d’incertezza, sconosciuta negli ultimi anni, a cui ha fatto seguito un’accelerazione della volatilità al ribasso. Fine della fase di “euforia” e inizio della fase di “panico” delle tesi di Kindleberger. Per evitare lo schianto, le banche centrali di tutto il mondo sono state risolute nell’aumentare la potenza di fuoco dei propri “bazooka” e la Federal Reserve statunitense ha addirittura passato il Rubicone dell’acquisto dai mercati di titoli e obbligazioni delle società di Wall Street. Basterà? Difficile a dirsi. La crisi in corso vede la sovrapposizione di uno shock all’offerta legata alla sospensione delle attività di imprese e società produttrici di servizi a un potenziale e credibile shock di domanda per la dispersione di redditi e la distruzione di posti di lavoro nelle economie avanzate. Su cui si interseca la debolezza conclamata delle borse e la marea montante crisi petrolifera connessa alla sfida russo-saudita e al crollo della domana. I governi sono chiamati a intervenire in prima persona per tamponare l’emorragia: il ristabilimento di uno status quo creditizio, finanziario e monetario già sorpassato dagli eventi non potrà essere certamente risolutore. Va in frantumi il mito della fabbrica globale, l’economia del just-in-time che snobba l’accumulazione di scorte e riserve industriali (cruciali, come abbiamo visto, in ambito sanitario) predicando la frammentazione delle produzioni in tutto il mondo e riprende piede la prospettiva di vedere coperture e azioni dirette degli Stati in funzione anti-recessione. La Cina ha aperto la strada, poi con grado diverso Germania, Francia, Italia, Regno Unito, Spagna Stati Uniti, Australia e Giappone hanno imposto piani di stimolo da miliardi di dollari. Angela Merkel affossa sul fronte interno l’austerità predicata per anni e ancora ottusamente difesa in sede europea e chiede alla banca pubblica Kfw di promuovere un piano di prestiti alle imprese da 550 miliardi di euro, annunciando poi oltre 150 miliardi di deficit; Boris Johnson ha lanciato prima del suo ricovero ospedaliero l’idea della riconversione industriale all’economia di guerra per la produzione di respiratori e ha messo in campo, sull’unghia, 50 miliardi di sterline; negli Stati Uniti il fine settimana del 21-22 marzo ha portato con sé una dilatazione dello stimulus package proposto dai repubblicani da 500 a 2.000 miliardi di dollari, base dell’accordo tra amministrazione Trump e democratici. Hong Kong, Singapore e Macao varano la distribuzione di helicopter money a tappeto, e anche la superpotenza decide di seguirli, forse pregiudicando in questo modo le prospettive di una più spedita ripresa in nome di un maggiore equilibrio interno. Intendiamoci: tutto questo non potrà ricostituire esclusivamente un sistema disfunzionale o servire unicamente a ridare linfa a una finanza deregolamentata che, dagli Anni Novanta ad oggi, si è fatta anno dopo anno sempre più instabile. Si avoca, a causa della manifestazione delle problematiche dell’economia, un ritorno in auge del primato della politica. Chiamata a compiere l’opera interrotta dopo la risposta agli effetti travolgenti dell’ultima recessione. Il richiamo della politica Così come viene meno la considerazione della finanza come isola felice e centro di profitto si riduce anche lo spazio di manovra per la pulsione tecnocratica che è stata a lungo al centro della governance del sistema della globalizzazione neoliberista. Rappresentando l’altra faccia della medaglia del flusso crescente di commerci e interconnessioni. La politica, fatta di scelte discrezionali, capacità d’azione strategica e progettualità, reclama il proprio spazio: cresce la domanda, in tutto l’Occidente, di una classe dirigente all’altezza delle sfide del presente. Mentre il paradigma economicistico frana e la stessa comunità scientifica si deve adattare alla sfida del nuovo contagio, reagendo a livello internazionale con grande volontà ed energia, in tutto il mondo i decisori e i leader acquisiscono una centralità pienamente operativa e progettuale. Torna il primato della politica o, perlomeno, la sua esigenza. Assieme all’ammonimento di Marcel Proust, rivelatore di un’esigenza profonda della nostra epoca: ““Datemi una buona politica e vi darò una buona finanza!”. Assieme al primato della politica si va alla ricerca del tempo perduto pensando che ogni auspicio dell’attuale globalizzazione si sarebbe materializzato. Relegando dunque nell’angolo la politica, la dialettica, il confronto d’idee. Nel suo saggio capitale La grande trasformazione (1944) il sociologo austriaco Karl Polanyi teorizzò la necessità del superamento delle vincolanti maglie del dominio dell’economia sula società, del mito dei mercati quali sovrani giudici degli avvenimenti e dell’ideologia dell’homo oeconomicus riferendosi all’incapacità delle società liberali degli Anni Trenta di cogliere i sintomi della Grande Crisi del 1929. In una fase storica da tempo caratterizzata da un profondo ritorno del “momento Polanyi”, ovvero da un deciso rilancio del dibattito sul primato della politica sull’economia e sui migliori modi di portare quest’ultima al servizio della vasta massa dei cittadini, la crisi del coronavirus altro non fa che enfatizzare la rilevanza su tali punti. Portando a un esteso ampliamento delle sfere in cui la politica è chiamata a esercitare i suoi doveri e a porsi come ordinatore: si riscopre la validità dei sistemi sanitari nazionali come creazione di una politica di compromesso sociale, si apre il dibattito sugli “Stati strateghi” capace di porre un freno alla marea montante della crisi del neoliberismo, si assiste al richiamo di una classe dirigente finalmente all’altezza delle sfide della globalizzazione. “La nostra tesi è che l’idea di un mercato autoregolato implicasse una grossa utopia. Un’istituzione del genere non poteva esistere per un qualunque periodo di tempo senza annullare la sostanza della società”, scriveva Polanyi nel 1944. “Era inevitabile che la società prendesse delle misure per difendersi, ma qualunque misura avesse preso essa ostacolava l’autoregolazione del mercato“. Un memento che vale anche come tracciato per il superamento della crisi attuale. Non a caso che ad annaspare in acque agitate sia proprio quell’Unione Europea che nella sua evoluzione ha volutamente espunto il discorso del primato della politica sulle austere logiche della finanza e interiorizzato il mito della “fine della Storia” nel suo percorso storico. Il rigore dei falchi del Nord sulle forme di solidarietà da attuare, sulla necessità di uno shock politico come premessa a una risposta economica comune e una debolezza sostanziale delle strutture comunitarie. Mario Draghi è sceso in campo a favore del rilancio di una vigorosa azione degli Stati e di una svolta politica comunitaria, ma le élite di Bruxelles si sono mostrate sino ad ora sorde alla necessità di una svolta radicale. Anche nell’ora più buia per l’Unione il mito economicista non viene scalfito. Quella che rimane, per citare Pierluigi Fagan, “l’ultima Thule dell’utopia antipolitica”, anche di fronte al rischio di una crisi interna senza precedenti, non riesce a venire a patti con la realtà. Anche di fronte al pacchetto approvato dal più recente Consiglio Europeo l’Unione non ha sciolto la riserva sulla priorità politica da garantire alla sua azione: iniziative di tamponamento ai danni della crisi come la misura anti-disoccupazione Sure si sono unite a programmi di maggior razionalità strategica come il coinvolgimento della Banca Europea degli Investimenti e al sempre problematico punto interrogativo del Meccanismo Europeo di Stabilità. L’impatto sulla coscienza sociale “Siamo in guerra”, è questo il mantra ripetuto nel pieno dell’emergenza del coronavirus di fronte alle immagini dei reparti ospedalieri in ginocchio, dei medici e degli infermieri stremati, dei feretri portati fuori dalle città da cortei funebri, di fronte al traumatico impatto dell’uomo occidentale con un tipo di morte che si riteneva espulso dalla società del benessere. Il coronavirus è una battaglia quotidiana, una svolta epocale per modi di vita e costumi, una guerra la cui portata si rivelerà appieno al termine, essendo la maggior parte della popolazione costretta a combatterla nel silenzio dell’isolamento domiciliare, del distanziamento sociale. In Italia, in Europa, nel resto del mondo. Il Financial Times ha fatto un paragone con il più recente caso di compattamento bellico dell’intero corpo sociale nazionale vissuto dal Regno Unito, quello avvenuto nel contesto della Seconda guerra mondiale. Interrogato dal quotidiano della City di Londra su questo confronto, lo storico dell’economia Duncan Weldon ha giustamente fatto notare che il grado di preparazione delle nostre società a un evento di vasta scala paragonabile a una guerra, con gli sconvolgimenti che ne derivano, è enormemente minore rispetto a ottant’anni fa: “Prima del 1939 chiunque era in grado di notare che c’era la possibilità dello scoppio di un conflitto e che c’era tempo per prepararsi”. Il paragone più funzionale potrebbe essere fatto con l’impatto psicologico dello scoppio della Grande Guerra sulle società borghesi, di impronta principalmente urbana, della tarda Belle Epoque. Lo scoppio del conflitto, nel 1914, travolse in poche settimane le grandi capitali d’Europa. Ben consce che il “cigno nero”, manifestatosi nell’attentato di Sarajevo a Francesco Ferdinando d’Asburgo, avrebbe potuto portare a uno smottamento sistemico di un instabile equilibrio politico europeo verso il conflitto generale, corti e cancellerie furono comunque travolte dall’esponenziale sviluppo degli eventi. Al contempo, la Grande Guerra fu una vera e propria “Apocalisse della modernità” (come scrive Emilio Gentile in un omonimo saggio), portando alla rapida emersione dei limiti un sistema in cui nei grandi centri politici, economici, finanziari e culturali si era sviluppata una concezione del presente inadeguata a valutare con dovuto equilibrio gli effetti di una catastrofe generalizzata. Su queste colonne è stato ampiamente sottolineato il ruolo che la capacità di adattamento dell’essere umano può svolgere nel rafforzare la capacità di risposta e di resilienza delle società di fronte agli shock e alle crisi. Tuttavia, è certo che a livello di percezione globale degli equilibri sociali nel contesto occidentale la crisi del coronavirus darà il là a un’ampia riflessione che non mancherà di far sentire i propri effetti. Demandando alla capacità dei decisori politici e alla fibra dei vari contesti nazionali l’impatto del cambiamento sul lungo periodo. Allora a essere messe definitivamente in discussione furono l’illusione del positivismo razionalista, la prima, per quanto incompleta “globalizzazione” economica e finanziaria, il mito del commercio come generale creatore di pace concordia, il quieto torpore delle città. Oggigiorno, nelle società contemporanee, già minate da disuguaglianze sistemiche e problematiche di mobilità interna, a essere messe fuori gioco sono tre fattispecie: la retorica della cessione di diritti sociali (sicurezza, salute, tutela del lavoro) in cambio della cosmesi dei diritti civili, la cui crescita non lenisce gli effetti dell’erosione dei primi in momenti di crisi; la stessa ideologia della supremazia di questi diritti, a ogni costo, su ogni tipo di dovere e solidarietà (di classe, famigliare, di patria); l’individualismo consumista, che pone il benessere del singolo sopra ogni ragione di benessere collettivo e sociale, e che si sostanzia in un ridotto capitale sociale collettivo. La conta senza fine dei decessi e i racconti strazianti associati a molti di essi richiamano la debolezza delle società di fronte al rapporto con la morte. Non è facile parlare del rapporto tra l’uomo vivo e la morte in un’epoca che ha respinto la morte dal discorso collettivo in maniera radicalizzante. Specie perché, in molti casi, i morti che piangiamo sono gli uomini e le donne della generazione della rinascita. Come scriveva Joseph Ratzinger in Der Gott Jesu Christi nel 1976, è l’illogicità della morte a dare senso alla vita stessa: ma la nostra società, radicata su un presentismo molto spesso fine a sé stesso, è impreparata ad accoglierla nella misura con cui si palesa nel contesto della pandemia. Al senso di crescente fragilità si contrappone tuttavia una serie, luminosa di messaggi di speranza. L’impegno costante di chi si confronta con l’epidemia in tutte le sue forme, che abbiamo visto in Italia con sommo orgoglio, unita alla riscoperta della necessità di un crescente senso di comunità, della solidarietà sociale, economica e di patria e alla consapevolezza della necessità di vincere un nemico comune aiutano a creare solidi anticorpi i cui effetti dovranno farsi sentire nella ripresa dopo la fine dell’epidemia. Prima ancora della conta dei danni economici e finanziari della crisi, sarà importante capire gli impatti di lungo corso della percezione di sé e del loro ruolo nel mondo delle società maggiormente colpite. La spinta a una correzione politica, economica e materiale degli eccessi di un’era globalizzata di cui emergono in queste settimane le contraddizioni e le debolezze verrà innanzitutto dalla tenuta dei legami sociali e collettivi delle società in esse immerse. Non è vero, forse, affermare che nulla sarà più come prima. Ma la sfida più grande per la ricostruzione dopo il virus sarà comprendere che, sotto diversi punti di vista, sarà necessario rimuovere gli ostacoli del recente passato per evitare che una nuova ondata di crisi trovi noi e i nostri sistemi deboli ed impreparati. 13 – continua
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