https://www.internazionale.it/ 29 aprile 2020
E se ricominciassimo dall’iperfamiglia? di Annalisa Camilli giornalista di Internazionale
Uno dei primi giorni di quarantena la scrittrice Elena Stancanelli ha pronunciato una parola esatta. Descrivendo i legami che all’improvviso le sono mancati con l’isolamento ha parlato di “iperfamiglia”: quella rete di relazioni che ci costituisce come persone nell’arco della vita. Solo alcuni di questi legami sono biologici, solo alcuni di questi rapporti possono avere un riconoscimento istituzionale. E non stiamo parlando solo di tradimenti e di amori irregolari, per quanto un pensiero per i poveri amanti lo abbiamo avuto. Mentre impazzava la discussione sui “congiunti” e sugli “affetti stabili” ho ripensato che se non avessi avuto un’iperfamiglia, nemmeno sarei nata. Ho ricordato il giorno della mia nascita per come me lo ha sempre raccontato mia madre: una domenica di dicembre a Roma negli anni ottanta. Tutto chiuso, anche i bar e i fiorai. Proprio come ora. Dovevano farmi nascere con il cesareo perché ero podalica, ma siccome sono sempre stata una rompipalle ho rotto le acque come in un parto naturale alle sei di mattina, diverso tempo prima della data prevista. Mia madre era sola in casa, non c’erano cellulari, era scassato anche il citofono del palazzo. Così ha dovuto chiamare al telefono fisso la sua migliore amica, che però non guidava e allora si è fatta passare a prendere da un altro amico che aveva la macchina. Quando sono arrivati sotto casa si sono messi a fischiare, perché il citofono era rotto. Gli altri, la famiglia di sangue, era fuori città ed è arrivata solo diverse ore dopo. Io ero già nata. Se non ci fosse stata l’iperfamiglia, sarebbe stato un problema. Sono sicura che ognuno di noi avrebbe da raccontare decine di episodi del genere. E invece non ne parliamo, perché non vogliamo mettere in discussione il postulato secondo cui è la famiglia di sangue la cellula fondamentale della società, anche se così di fatto non è, anche se la famiglia mononucleare è un’invenzione relativamente moderna. Quello che non capiscono o non vogliono capire i sostenitori della famiglia naturale è che l’iperfamiglia è una forma di welfare e per questo andrebbe riconosciuta in qualche forma, anche in questa fase critica. Che non vuol dire legittimare feste e cene tra amici o allentare le misure di sicurezza necessarie per contenere l’epidemia, ma consentire che ciascuno stabilisca chi è il proprio “congiunto”. È necessario che sia introdotto questo principio soggettivo, senza che siano alterate le regole generali a cui tutti dobbiamo attenerci. Una specie di welfare
Credo che sia per questo che qualcuno ieri ha scritto sotto a un mio post ironico su Facebook che non avrei dovuto fare battute sulla questione dei “congiunti”, che non era all’altezza delle questioni di cui mi occupo di solito. Invece mi è sembrato che ci fosse una grande continuità tra i temi: si tratta di garantire gli stessi diritti a tutti per la salute di tutti, a prescindere dal sangue. Il tema più in generale è fino a che punto sia lo stato a definire il grado di importanza dei legami affettivi degli individui e il valore delle loro relazioni private, fosse anche per preservare la salute del singolo e della collettività.
Come ha detto l’attivista britannico Richard Brodie è una questione che la comunità lgbt mondiale si pone e pone da tempo. In un paese che giustamente si preoccupa di garantire la libertà di culto, non dovrebbe essere difficile capire quanto sia importante assicurare anche altre libertà individuali, strettamente collegate con il benessere individuale e collettivo. Di fronte a questa crisi sanitaria scopriamo quello che i più vulnerabili sanno da tempo: le relazioni, anche quelle irregolari o non riconosciute, spesso ci salvano la vita. Anzi potrebbe essere proprio l’iperfamiglia uno dei concetti da cui ripartire in questa strampalata fase due, una di quelle parole che porteremo nel mondo che verrà, perché ci avrà aiutato concretamente a uscire dall’abisso in cui ci troviamo.
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