Fonte: la città futura

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GEN 2 2020

 

Il futuro dei movimenti nel XXI secolo

di Giovanni Bruno

 

Movimenti sovranisti, ambientalisti, democratici caratterizzano lo scenario politico internazionale. Che cosa rappresentano?

 

Si stanno diffondendo nel mondo attuale tre tipi di movimenti: quelli cosiddetti sovranisti, che sono sostanzialmente critpo o esplicitamente fascisti; quelli transnazionali, come il Fridays For Future e Extinction Rebellion per la salvaguardia del pianeta contro i cambiamenti climatici e il rischio di estinzione dell’umanità e della vita in generale; e movimenti politico-sociali che insorgono contro politiche antipopolari e iper-liberiste e governi illiberali e autoritari.

Il primo movimento rappresenta un vizio antico riproposto in forme apparentemente nuove: la tendenza autoritaria e protezionistica che emerge nelle fasi di crisi del sistema, quando da un ciclo espansivo si passa ad un ciclo recessivo, si presenta con caratteristiche costanti, pur nelle novità dovute all’epoca storica nuova.

Dopo la crisi del ’46-’47 del XIX secolo, allo scoppio rivoluzionario del “biennio rosso” ottocentesco 1848-49 seguì una “seconda restaurazione” (con l’avvento del Secondo Impero in Francia, e il riassetto del potere assolutistico in Germania, Austria, Italia), così come il crollo che provocò la prima “Grande Depressione” (1873-1896) indebolì i regimi liberali inasprendo gli elementi di autoritarismo (ad esempio in Germania, dove Bismarck fece emanare una legislazione anti-socialista, o in Italia in cui, dopo il governo Depretis, vi fu una svolta dai tratti bonapartisti con Francesco Crispi).

Ovviamente, il caso più eclatante della piega autoritaria nella funzione della sovrastruttura politico-istituzionale, al servizio dei rapporti economico-sociali dominati dalla borghesia, fu quello del fascismo prima e del nazismo dieci anni più tardi: la torsione “cesarista” e “bonapartista”, nella categoria utilizzata da Gramsci, incarna la tensione che subirono le istituzioni liberali, e liberaldemocratiche, a fronte di una crisi di sistema la quale, provocata dalla sovrapproduzione di merci e di capitali, si materializza col crollo della valorizzazione del capitale e dell’estrazione del profitto. La sospensione delle “garanzie” liberali e la conseguente concentrazione del potere nelle mani di un solo uomo è funzionale a gestire la crisi, a rafforzare il controllo sociale e politico delle inevitabili e immanenti mobilitazioni delle classi lavoratrici, a contrastare possibili manifestazioni popolari. La torsione autoritaria si ammanta di totalitarismo che si manifesta sia con la repressione violenta di chi si oppone sia attraverso una massiccia propaganda che blandisce e attrae i settori più deboli e colpiti dalle crisi.

Non è un caso se anche oggi il 48% degli italiani vuole l’uomo forte che aggiri parlamento ed elezioni, percentuale che si innalza nelle fasce basse della popolazione [Rapporto Censis 2019, dicembre 2019]. Questa fotografia del paese è un indicatore piuttosto significativo che riflette, come epifenomeno, la struttura profonda della società: la personalizzazione del potere, focalizzato e acutizzato nella forma “bonapartista” (il cesarismo regressivo gramsciano) e decisionista, rappresenta la proiezione feticistica dell’impotenza delle classi subalterne rispetto ad una crisi che genera contrazione salariale, disoccupazione, precarizzazione, distruzione del salario indiretto (servizi) e differito (pensioni).

L’affidarsi all’uomo forte ha un duplice significato: da una parte la rinuncia del proletariato, e precipuamente della sua avanguardia, la classe operaia, a rivoluzionare la società, cioè ad assumersi la responsabilità di diventare classe dirigente (a seguito dell’arretramento subito a partire dagli anni Ottanta e culminato nella sconfitta storica del Novecento); dall’altra l’alienazione delle masse popolari, a cui è ormai preclusa una rappresentatività di carattere sociale nelle istituzioni, nel potere diretto e immediato, con la rinuncia alla mediazione istituzionale e la fuga nell’astensione. Salvini e Meloni stanno emergendo come figure di riferimento per i settori popolari disgregati e frammentati, che trovano un riflesso identitario non più in rivendicazioni sociali a carattere universalistico(com’era nella tradizione della sinistra di classe novecentesca), ma nella protezione dei propri interessi materiali delimitati nel particolarismo comunitario (ma sostanzialmente subalterni agli interessi generali della piccola-media borghesia produttiva e speculativa, nelle sue variegate sfaccettature localiste, regionaliste, nazionaliste).

La radice strutturale di questo baluginante riflesso sovrastrutturale è la transizione, attraverso un rivoluzionamento dall’alto, della struttura produttiva e finanziaria: la forma autoritaria è storicamente la migliore espressione delle classi dominanti per controllare il processo economico-sociale in una fase recessiva, evitando fratture conflittuali che possono preludere a rotture rivoluzionarie, orientando e incanalando disagio e malessere collettivo verso un consenso plebiscitario all’uomo provvidenziale di turno. Questo è in sostanza il succo del populismo in chiave sovranista: se esista un populismo progressivo, una sorta di “cesarismo” che fa avanzare il processo di emancipazione e liberazione delle masse popolari andrebbe verificato, ma certamente le forme che si sono presentate finora (come il “peronismo”, ad esempio) hanno sviluppato una sorta di keynesismo assistenzialistico e paternalistico rivolto alle classi medie e al sottoproletariato che, anziché stimolare i processi di emancipazione democratica, hanno provocato una assimilazione delle classi medie al regime e una passivizzazione ancor più profonda delle classi subalterne.

Se è pur vero che la classe operaia in alcune regioni del mondo non è così sviluppata da poter essere individuata come la classe storicamente in grado di guidare il blocco storico che avvia il processo rivoluzionario, è anche vero che forme alternative di transizione al socialismo non possono essere praticate (nonché teorizzate) senza un processo di collettivizzazione dei mezzi di produzione: non è cioè sufficiente un governo (progressista o populista che sia) che dall’alto promani provvedimenti, senza che vi sia una partecipazione attiva ai processi di trasformazione sociale da parte della popolazione. Inoltre, non si tratta semplicemente di preservare tradizionali forme di socialità e comunità (localismo), ma di sviluppare più avanzate forme istituzionali che costituiscano la formalizzazione dei nuovi rapporti sociali fondati su una progressiva distruzione della lotta di classe, che abolisca la diseguaglianza sociale. I sovranismi e i populismi, anziché intervenire su questa contraddizione, promettono il cambiamento senza incidere sulle cause profonde delle contraddizioni sociali, di fatto consolidando la struttura di classe su cui si fondano le relazioni sociali esistenti, gestendo l’esistente e scaricando sui gradini inferiori della scala sociale le tensioni che si accumulano per la gerarchizzazione della struttura di classe e per la concentrazione della ricchezza verso la zona superiore della piramide. A questo si aggiunge la forma autoritaria che addita il nemico nella base inferiore della piramide, che determina la nascita di razzismo, fascismo, intolleranza.

Il secondo modello di movimento del nuovo secolo si manifesta più chiaramente come espressione della globalizzazione: un movimento transnazionale, di giovanissimi, la cui ideologia si esprime in una contrapposizione tra scienza e politica, in cui quest’ultima si deve sottomettere (ascoltare) alla scienza. A differenza dei movimenti antiglobalizzazione di inizio secolo, la contestazione che emerge in queste mobilitazioni (e non a caso piacciono tanto a tutte le latitudini e longitudini politiche) non va alla radice del sistema economico-sociale, non contesta i rapporti sociali tra dominanti e dominati che creano le sempre più profonde diseguaglianze tra le classi, ma richiede un intervento “dall’alto”, se così posso esprimermi, cioè da parte dei governi, chiamati a correggere il modello produttivo a salvaguardia di un bene senz’altro prezioso come quello ambientale e climatico.

I movimenti come Fridays For Future o Extinction Rebellion rappresentano una forma di mobilitazione con l’obiettivo di rinnovare e innovare il sistema esistente, sollecitando una sorta di New Deal ambientalista. Non è escluso, è anzi molto probabile, che dietro alcune figure emblematiche come Greta Thunberg vi siano operazioni di marketing economico-politico funzionali al rafforzamento di settori della Green Economy. Le pressioni dei persuasori occulti vanno evidentemente a colpire una sensibilità diffusa soprattutto tra le giovani generazioni: tuttavia sarebbe sbagliato pensare che si tratti solamente di ‘lavaggio del cervello’, ma occorre comprendere che c’è una efficace capacità del sistema di incrociare e sollecitare e rilanciare un’attenzione che è stata a lungo marginalizzata. I milioni di giovanissimi che si mobilitano per il clima sono evidentemente appartenenti a gruppi sociali se non privilegiati quantomeno benestanti, e rappresentano un approccio trasformativo sul piano organizzativo dell’economia e della produzione; l’egemonia del movimento da parte di questi strati sociali produce una visione conservatrice e individualista sul piano sociale, dei rapporti tra le classi, e occorre lavorare, come già gruppi di compagni stanno facendo, per spostare l’asse verso una posizione anticapitalista individuando le cause delle trasformazioni climatiche e dei disastri ambientali nel sistema di sfruttamento distruttivo del capitalismo.

Il terzo modello esprime una crisi dei sistemi politici che sono emersi tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo: vi confluiscono movimenti con varie ispirazioni e finalità, che esprimono la dialettica politica tra destra e sinistra, conservatori/reazionari e progressisti/rivoluzionari: Santiago, Beirut, Teheran, Baghdad, Hong Kong esprimono la classica manifestazione politica dicotomica, i cui tratti comuni sono l’opposizione ai rispettivi sistemi politico-istituzionali, distinti e contrapposti dalla specifica radice sociale e ideologica (ad esempio: progressista in Cile, liberale a Beirut, anticorruzione a Teheran e Baghdad, filo-ccidentale a Hong Kong). In tutti questi movimenti emerge un tratto comune: la mobilitazioni si manifestano contro regimi e governi che adottano provvedimenti antipopolari, in congiunture economiche recessive, mescolandosi con rivendicazioni sostanzialmente democratiche.

Le differenze tra le proteste in America Latina, in Libano, in Iraq e in Iran, a Hong Kong sono profonde: la contemporaneità delle sollevazioni popolari è però un segnale che gli equilibri di un sistema con profonde integrazioni economico-produttive e finanziario-speculative qual è quello globalizzato stanno saltando, producendo spinte contrastanti tra aspettative di modernizzazione sociale, economica, politica e conservazione di sistemi politico-istituzionali esistenti. La modernizzazione è parte fondamentale di un processo di sviluppo e di ristrutturazione del capitale su scala planetaria: l’obiettivo di un mutamento di sistema sociale, di una trasformazione in senso rivoluzionario non è purtroppo in agenda. Occorre fare molta attenzione a decifrare gli interessi reali e profondi, interni e stranieri, che soffiano sulle mobilitazioni e le rivendicazioni: dietro forze apparentemente progressiste e democratiche possono esserci suggerimenti dell’imperialismo anglo-americano ed euro-atlantico, ma queste spinte non possono essere frenate o controllate basandosi sulla conservazione stratificata di settori privilegiati, né tantomeno su ideologie di matrice oscurantista e religiosa. Solamente la ricostruzione di movimenti con connotati e obiettivi di classe può offrire una soluzione diversa e feconda tra conservazione autoreferenziale e progressismo modernizzatore fondato sul libero mercato di matrice liberal-liberista.

Il caso che sta riscuotendo un eclatante successo in Italia è quello delle Sardine. Esso esprime una novità rispetto ai movimenti anti-globalizzazione, ma anche rispetto a quelli di scopo come i No-Tav o i No-Tap: manifestano una nuova forma di partigianesimo, cantando Bella ciao, inno internazionalista (da Gezi Park a Istanbul, ai Kurdi, alla Chiesa….), ma hanno tratti di ambiguità che produce troppo spesso scivoloni ideologici (come sostenere che la piazza è aperta anche a Casa Pound nonostante la marcia indietro – che nel movimento ci sia chi si fa sfuggire simili dichiarazioni che successivamente devono essere rettificate mostra la debolezza ideologica delle Sardine).

Le Sardine richiamano i principi fondamentali della Costituzione, l’antifascismo e l’antirazzismo, ma presentati in modo così generico che rischiano di scadere nell’ambiguità. Sul piano politico mostrano un allegro profilo indefinito, collocandosi nettamente in un campo largo sostanzialmente moderato, di centrosinistra tendente al centro, alimentato dal mondo cattolico: non è casuale infatti che l’antifascismo originario si stia via via sbiadendo con l’arrivo di tendenze variegate, tra cui associazioni di matrice sostanzialmente conservatrice come i cosiddetti Papaboys (nati sotto il pontificato reazionario di Wojtyla e divenuti ormai una costante di mobilitazione del mondo cattolico giovanile).

Ancora non è stato avanzato alcun obiettivo politico definito: l’antirazzismo, la tolleranza e l’accoglienza si consoliderebbero con la cancellazione dei decreti sicurezza di Salvini; perché non ne viene richiesta la rimozione? Si ha paura di disturbare il manovratore (amico)? Non si dovrebbe combattere l’incostituzionalità del Jobs Act che introduce differenziazioni tra lavoratori e lavoratrici, chiedendone la rimozione? Solo con temi sociali sarà possibile riconquistare i settori del proletariato sempre più attratti dalla demagogia violentemente xenofoba e parafascista della Lega e di Fratelli d’Italia.

La Costituzione è un bene comune, prezioso, che va difeso con chiarezza di principi e di proposte politiche che siano in grado di ricostruire un blocco storico sostanzialmente progressista e democratico.

 

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