https://it.insideover.com/ 24 aprile 2020
Il Covid-19 e la guerra della (dis)informazione di Davide Bartoccini
Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha definito fin dal primo momento il Covid-19 come un “virus cinese”, e il segretario di Stato ed ex-direttore della Cia, Mike Pompeo, lo ha seguito. Questo perché il virus classificato come Sars-CoV-2 e la malattia respiratoria acuta – letale in oltre 180mila casi ad oggi – si è manifestato per la prima volta sul suolo della Cina, diffondendosi poi nei cinque continenti, diventando una vera e propria pandemia. Benché la definizione sia stata largamente osteggiata, le agenzie d’intelligence americane sono concordi nel riscontrare la presenza di un altro “virus cinese” che deve essere assolutamente debellato. E si tratta di quello che sarebbe stato diffuso da una vasta operazione orchestrata – secondo gli analisti americani – dai piani alti di Pechino: la disinformazione.
Secondo quanto è stato riportato dal New York Times, diverse agenzie di intelligence statunitensi hanno concordato nel denunciare lo sforzo di “operativi cinesi” che si sarebbero impegnati a creare, divulgare e “amplificare” la portata di “messaggi falsi” che avrebbero l’obiettivo di generare insicurezza in collegamento con l’espandersi dell’epidemia negli Stati Uniti e nei Paesi europei – che mai come ora si sono dimostrati “ben disposti” a tendere la mano alla Potenza cinese; in marcia verso il Vecchio Continente sulla “Nuova via della Seta”. Le fonti interpellate, sei diverse e tutte interne alle agenzie governative attive nel campo dell’intelligence, hanno rivelato come “La Cina abbia dato il via ad una campagna di disinformazione negli Stati Uniti con la tecnica inedita di far arrivare messaggi di allarme direttamente sui cellulari degli utenti”. Le direttive per agire secondo un preciso “schema”, una strategia ben pianificata e diversificata, sarebbero state “impartite da Pechino” che attraverso il suo ordine avrebbe dato “il via a una campagna globale” di disinformazione.
All’esercito di “Troll russi” scesi sul campo di battaglia cibernetico per “viziare” i risultati delle elezioni presidenziali del 2016 negli Stati Uniti, dunque, si sarebbero quindi aggiunti i cosiddetti “Bot cinesi”: ossia degli “account creati ad hoc per aumentare, attraverso post, like, retweet, citazioni, la portata e l’efficacia di un preciso messaggio e assumendo la forma di una eco chamber” secondo la descrizione fatta dagli analisti di Alkemy, che per Formiche.net hanno eseguito uno studio sull’attività che si è generata anche in Italia. Atta invece a magnificare l’intervento cinese per sostenere il governo nell’emergenza Coronavirus.
Tra gli esempi citati dal New York Times, compare ad esempio la fake news diffusa a metà marzo, secondo cui “Donald Trump intendeva blindare l’intero paese” dispiegando “militari nelle strade per evitare saccheggi e disordini”. Per rendere più credibile l’informazione nel “messaggio” veniva citata una fonte della Casa Bianca. Strano ma vero, sembra che il finto messaggio abbia raggiunto una portata cosi vasta da costringere il Dipartimento per la Sicurezza nazionale americano a smentire su canali ufficiali l’informazione che era stata presa per “reale” – onde evitare il completo caos nella popolazione. Un secondo esempio di fake news generata e rilanciata da questi bot, sarebbe stata quella secondo cui “fonti ufficiali cinesi” avrebbero considerato l’ipotesi che l’epidemia di coronavirus in Cina fosse stata “scatenata” da alcuni soldati americani che “a ottobre hanno preso parte ai giochi militari che sono tenuti a Wuhan“. Solleticando la fantasia già fervida degli appassionati delle ipotesi di complotto: che ripudiano le teorie espresse dai ricercatori su cui si è basato il saggio rivelatore di David Quammen (intervistato da Inside Over) – secondo cui si tratterebbe di un caso di zoonosi sviluppatosi forse in un wet market di Wuhan – e preferiscono continuare a battere la via del virus ingegnerizzato e impiegato come arma batteriologica da una potenza mondiale “x” per imporre un nuovo ordine mondiale. Teoria che ha inondato il world wide web di cospirazionisti, e che in questi giorni sembra essere stata apertamente sostenuta dal virologo e premio Nobel per la medicina Luc Montagnier.
Se non si possono avere riscontri fondati sulla provenienza del virus da Covid-19, sembrerebbe invece facilmente riscontrabile l’attività di questi “bot cinesi” che, secondo gli esperti, emulando la strategia russa avrebbero: “imparato a creare account falsi su piattaforme social per rilanciare messaggi destinati agli americani più sensibili e disponibili a rilanciarli a loro volta”. Secondo le fonti del Ny Times, infatti, le tecniche impiegate sarebbero da considerare: “non dissimili da quelle utilizzate dalla Russia per influenzare le elezioni presidenziali del 2016”. La novità – e di non poco rilievo – sarebbe però quella dell’uso di messaggi diretti via WhatsApp; a differenza delle piattaforme che erano state impiegate dagli hacker di Mosca: Twitter e Facebook. Tali messaggi, descritti come “ansiogeni” ed estremamente “fuorvianti”, sarebbero diventati tanto virali che nel giro di sole 48 ore hanno spinto il Consiglio di sicurezza nazionale della Casa Bianca ad attivare una serie di contromisure e smentite per certificare la falsità delle notizie che si stavano diffondendo nella popolazione.
Le ipotesi avanzate dai responsabili dell’intelligence statunitense e che tali “messaggi” sarebbero stati progettati e diffusi da agenti dei servizi segreti cinesi, che attraverso “tecniche di amplificazione” e la capacita di violare “i cellulari di milioni di americani”, avrebbero inondato i dispositivi smartphone degli americani alle prese con l’ondata di contagi da Covid-19 con una pioggia di sms e altri messaggi istantanei che miravano a provocare il panico in tutta l’America, divenute principale focolaio mondiale del virus.
Negli ultimi anni sono stati diversi i casi di “spy-fobia” che hanno riguardato da vicino Washington, in particolare legati alle presunte operazioni cibernetiche (e non solo) mosse da Pechino, Mosca e Pyongyang. Lo scorso settembre, il Dipartimento di Stato ha espulso – senza darne notizia – due dipendenti dell’ambasciata cinese a Washington accusati di spionaggio. “Pechino e Mosca stanno operando per incidere sull’ambiente globale dell’informazione sia in modo indipendente che insieme, attraverso una ampia gamma di strumenti digitali. Hanno istituito diversi canali diplomatici e forum attraverso cui scambiarsi informazioni sulle pratiche in uso”, ha asserito Kristine Lee del Center for New American Security. Secondo l’intelligence Usa, che sta attualmente indagando sul possibile coinvolgimento di diplomatici o dipendenti delle testate ufficiali cinesi che opererebbero sul suolo americano, questa operazione andrebbe collegata all’attività di ulteriori agenti che avrebbero coperto il “settore europeo”: investendolo di messaggi che “enfatizzavano la frammentazione dei paesi europei di fronte all’emergenza” e “l’importanza degli aiuti sanitari inviati da Pechino“.
Nonostante sia ancora un mistero la vera origine di questi messaggi, l’ipotesi di una manipolazione della realtà sarebbe stata confermata dall’analisi di agenzie “bipartisan” che si occupano di sicurezza negli Usa, come Alliance for Securing Democracy e il succitato Center for a New American Security. Un report sulla questione verrà redatto nei prossimi giorni. Molte delle fonti, che hanno richiesto l’anonimato, si sono rifiutate di rivelare ulteriori dettagli che legano i messaggi incriminati agli agenti cinesi facendo riferimento alla “necessità di proteggere fonti e metodi di monitoraggio delle attività della Cina”. Quello che sembra chiaro però, è che Washington sta puntando ancora una volta il dito contro Pechino, che in un modo o nell’altro viene vista come “responsabile” di un attentato alla sicurezza degli Stati Uniti. Un attentato via Short Message Service.
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