http://enricocampofreda.blogspot.com/ martedì 3 marzo 2020
Afghanistan, la pace di carta di Enrico Campofreda
Fra la pace stilata su carta e la pace reale, mister Khalilzad e mullah Baradar potrebbero trovare un ostacolo nell’attuale Afghanistan istituzionale che il primo perora, il secondo denigra. Certo già all’atto dell’accordo, sbandierato in pompa magna dal Segretario di Stato Usa Mike Pompeo, alcuni elementi sottoscritti rappresentano un’incognita. I militari statunitensi che prenderanno il volo verso casa saranno inizialmente 3.500, i restanti 8.500 dovrebbero rientrare entro la fine di quest’anno. In più gli americani rinuncerebbero a cinque basi aeree, non dicono quali ma ne resterebbero pur sempre sei. Che fine faranno? I taliban dovrebbero riabbracciare fra pochi giorni i cinquemila combattenti rinchiusi nelle carceri gestite dal governo di Kabul, così è scritto nel patto. Ma il presidente Ghani domenica scorsa è intervenuto sulla questione, sostenendo che questo regalo non è realizzabile, al più dovrebbe esserci uno scambio coi prigionieri detenuti dai talebani nelle province, e non sono poche, che essi controllano militarmente e politicamente. E qui l’intoppo è già palese. Riuscirà Khalilzad a rimettere in riga il “burattino” recentemente proclamato presidente? Peraltro con percentuali di voto bassissime e la contestazione del numero due Abdullah Abdullah, che in un giro stavolta nient’affatto scontato come nel 2014, non vuole fare il vice di Ghani e ne contesta l’elezione, riparlando di brogli.
Comunque il leader della Shura di Haqqani, Sirajuddin, figlio del defunto Jalaluddin a lungo capo indiscusso di questo ramo intransigente, ha dichiarato al New York Times di “lavorare e rispettare sinceramente un nuovo sistema politico inclusivo”. C’è da immaginare che i talib ne faranno parte e qui occorrerà vedere quale formula e quale sostanza avrà un Paese finora definito Repubblica Islamica, che però i turbanti vorranno trasformare in Emirato Islamico, retto da regole religiose anziché da rappresentanze elette più o meno limpidamente. E non osiamo pensare a quali prospettive verranno offerte alla metà della popolazione, i sedici milioni di donne, di cui peraltro i diciotto mesi di colloqui di pace non si sono affatto occupati. In verità le donne afghane accanto alla guerra d’occupazione condotta dalla Nato e quella di contrasto incarnata dai miliziani islamisti, hanno continuato a subìre le violenze private del pashtunwali e le violenze delle Istituzioni dove i “democratici” Karzai e Ghani hanno inserito sanguinari signori della guerra senza offrire contrasto al fondamentalismo oscurantista e maschilista. Le risolute attiviste di Rawa l’hanno denunciato ovunque hanno potuto. Negli stessi organismi rappresentativi dove, fra mille minacce, continuano a rivendicare una vera libertà sociale e di genere. Quell'Afghanistan davvero indipendente e tutto da creare, che non passa per l’asse Washington-Doha-Kabul.
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