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La malinconia non è più quella di una volta

di Beatrice Ferrara

 

Se le disposizioni d’animo (le strutture del sentire personali e collettive) non fossero tanto difficili da raccontare – ovvero se non fosse tanto complesso definirne anche solo temporaneamente i contorni, puntellandole quanto basta affinché abbiano il minimo di consistenza necessario e sufficiente per essere condivise con un “fuori”, discusse e ripensate “insieme” – probabilmente quell’enorme varietà di letture, ascolti e visioni che da tempo, nel tempo, accogliamo in noi (e in vario modo noi stessi mettiamo al mondo) per venirne a capo non avrebbe ragione d’essere.  Ci sono, in particolare, disposizioni d’animo che, per la loro constante presenza attraverso vari tempi e spazi e trasversalmente a diversi modi d’espressione, paiono quasi essere diventate degli universali. Questo è certamente anche il caso della “malinconia”, struttura del sentire dalla lunga storia, che ha appunto tutta l’iconicità di un universale, come provato dalla immediata riconoscibilità di Melencholia I di Albrecht Dürer, incisione che fa da base al progetto grafico della nostra copertina per questo numero di Quaderni d’Altri Tempi. 

Fortemente presente anche nel contemporaneo, la malinconia insiste con languida, singolare costanza – quasi fosse l’inevitabile corollario umorale “nero” del tempo della crisi globale – anche nel pensiero critico e nella cultura odierni. Se quella dell’invarianza è innegabilmente una delle più affascinanti proprietà della malinconia – di cui colpisce la capacità di conservazione, manifestata dal puntuale ritorno ciclico di motivi malinconici in diversi tempi e spazi – più produttivo sembra però provare a riflettere su questa persistenza a partire non dalle sue costanti, ma da una serie di trasformazioni che la riguardano; concentrandosi, cioè, su alcune variabili congiunturali, ognuna delle quali fortemente legata ad un qui ed ora della malinconia, totalmente situato nella contemporaneità – nella convinzione che in questa differenza vi siano diversi spunti per ripensare, insieme, il momento attuale.

 

Cos’è la malinconia, oggi?

 

La proposizione che dà il titolo a questo intervento, “La malinconia non è più quella di una volta”, allude proprio alla specifica declinazione contemporanea della malinconia, cioè ad una sua particolare manifestazione che potremmo sintetizzare così: se la malinconia è il desiderio struggente di qualcosa che si è perso per sempre o più spesso di qualcosa che non si è mai avuto, il “qualcosa” della malinconia contemporanea è, con grande probabilità, il futuro, inteso come dimensione della potenzialità e del divenire. Futuri perduti, spettri di futuro, nostalgie del domani sono infatti sempre più i nostri silenziosi compagni di viaggio quotidiani: dal cinema alla musica, dall’architettura alla strada, dalla galleria alla rete e oltre, si affollano intorno a noi resti di progetti utopici falliti, residui quiescenti di potenziali epoche d’oro tramontate, sopravanzi di proiezioni duramente interrotte prima del compimento. Ritornano con dolorosa, maligna regolarità, attraverso forme di amarcord che traboccano copiosamente dal calderone dell’estetica coeva ed essudano dalla febbre d’archivio dell’ultimo decennio. Si incarnano talvolta in un morboso attaccamento verso le rovine o le vestigia del “nuovo-che-fu”. Si manifestano nell’ininterrotto bombardamento di forme culturali del passato futuribile, affastellate l’una sull’altra apparentemente senza soluzione di continuità e impacchettate come nuove – nuove tendenze, nuove mode, nuove possibilità aperte dalle nuove tecnologie. Talvolta riappaiono, seducenti e salvifici, per instillare nuova vita in un presente soffocante.

Oltre che dall’attraversamento partecipato di quei luoghi e contesti della cultura contemporanea in cui si agitano questi inquieti revenants del futuro-che-(non)-fu, la preposizione critica che muove queste riflessioni (e cioè l’idea che nella cultura contemporanea la malinconia non sia davvero più quella di una volta) si nutre anche dell’esposizione alle sollecitazioni fornite da una serie di scritture recenti, particolarmente numerose in ambito anglofono e tutte più o meno dichiaratamente scritte “in presenza” di un testo chiave della filosofia continentale, cioè Spettri di Marx di Jacques Derrida del 1993. Nel tentativo quindi di fornire un rapido (e inevitabilmente soltanto parziale) inquadramento concettuale delle tante malinconiche “apparizioni” (è il caso di dirlo) di futuri perduti che perturbano gli interventi presentati in questo numero di Mappe intitolato proprio Ieri, il futuro, sembra utile, in questo testo d’apertura, soffermarsi brevemente su tre di esse.

In maniera proficuamente complementare, infatti, i tre saggi Dopo il futuro (2013) del filosofo schizo-analista Franco “Bifo” Berardi, Retromania (2011) del critico Simon Reynolds, e Ghosts of My Life (2014) del teorico e blogger britannico Mark Fisher articolano il nesso forte tra la diffusa percezione di un inesorabile e totale esaurimento del futuro-potenziale nell’epoca della crisi globale e il rapporto di questa percezione con il predominio del “modo” malinconico nella produzione e nel consumo di cultura nell’età del turbo capitalismo. Ciascuno di questi testi taglia ovviamente il tema lungo una propria linea, cosicché, presi nell’insieme, i tre testi disegnano una interessante triangolazione fra una prospettiva più dichiaratamente filosofica (Berardi), una più culturalista (Reynolds) ed una più politica (Fisher) – suggerendo, rispettivamente, possibili risposte sul “quando e perché”, sul “dove e in che modo” e sulle “conseguenze” delle trasformazioni che ci portano ad affermare che la malinconia non è più quella di una volta. 

 

Se la malinconia contemporanea è sintomatica della percezione endemica di una chiusura dell’orizzonte del tempo potenziale, il 1977 è per Berardi l’anno-cerniera, quello in cui il secolo che credeva nel futuro inizia a scivolare senza appiglio alcuno nell’epoca del post-futurismo, dominata dal sodalizio – oggi fortissimo – tra tempo, violenza, e accelerazione, sotto il regime del capitale post-industriale, semiotico, finanziario. È l’anno della morte di Charlie Chaplin (e della “modernità gentile”, scrive l’autore); è l’anno in cui Yuri Andropov, ex-leader del KGB, intima a Leonid Brezhnev di considerare la assoluta necessità per l’Urss di colmare il divario tecnologico con gli Stati Uniti entro cinque anni; è l’anno di Radio Alice in Italia e di Sid Vicious che ringhia e geme “no future” (un anno dopo, il 14 gennaio del 1978, Johnny Rotten, a San Francisco, avrebbe aggiunto, citando The Stooges nel bis di chiusura di un concerto, “no fun”); è l’anno in cui Steve Jobs e Steve Wozniak registrano la Apple Computer, Inc. (e molto ancora si potrebbe aggiungere alla lista…). 

Laddove il Manifesto del Futurismo del 1909 si era aperto con il rombo assordante di un motore – la macchina del capitale industriale – per cantare la gloria della velocità, temerariamente in fuga dal passato verso un futuro di progresso, il post-futurismo si apre con i flussi energetici emanati dal cuore di silicio delle macchine cibernetiche, con la loro temporalità reversibile e i loro processi di retroazione. L’indagine di Berardi sulla “lenta sparizione del futuro” a partire da questo momento della storia recente non è solo una riflessione su come il futuro sia diventato un fantasma, precipitandoci in un’età di depressione malinconica; è essa stessa un esercizio filosofico di malinconia, poiché si chiude con una prosa travagliata e tesa tra due proposizioni: quella dell’anelito verso un potenziale tempo post-futurista che possa ritornare ad essere “gentile” (nel suo Manifesto del post-futurismo) e quella in cui l’umor nero fa intravedere cose “paurose e tristi”, spettri – questi sì, futuri – di una possibile guerra europea all’orizzonte. Più specificamente orientato verso un’analisi di quei blocchi di desiderio di cui la sparizione del futuro è simultaneamente sintomo e incarnazione, il testo di Berardi pure fa riferimento ad un uso politico propositivo del post-futurismo (nel Manifesto, appunto); ma questa prospettiva rimane meno esplorata e lo spettro del futuro assume nella sua analisi un carattere quasi esclusivamente maligno.

 

Illustrare “dove e in che modo” sia possibile ravvisare revenants sprigionati dalla malinconia contemporanea è il compito che viene invece portato avanti dal più recente lavoro di Reynolds, già disponibile in traduzione italiana. Restituendo alla cultura pop più immediatamente alla portata del nostro consumo quotidiano (cinema e musica, innanzitutto) la piena dignità di testo-testimonianza di fenomeni sociali più d’ampio raggio, Retromania di Reynolds è una “spettro-grafia” della cultura di oggi. Nel testo, l’autore raccoglie tracce tangibili di una forma patologica di malinco(ma)nia, segnalata dalla “discronia” che affligge gli artefatti contemporanei – ovvero la compresenza, formale, di diverse temporalità e l’attaccamento verso le forme “di ritorno” (il rètro, il vintage, e così via). Lo studio di Reynolds prende le mosse dichiaratamente dalla ripresa di Derrida e del concetto della “hauntology” – l’ontologia spettrale – così come esso veniva agito e performato nella musica e nella critica musicale dei primi anni Duemila. Anche in questo caso, la “spettro-grafia” della cultura contemporanea parte dalla malinconica perdita di un futuro: il futurismo sonoro dell’elettronica britannica dell’Hardcore Continuum degli anni Novanta. Di fronte allo spegnersi repentino di un pullulare di “scene/tribù” sempre diverse (fagocitate dalla “normalizzazione” della cultura rave e dalla relativa “cattura” di quelle sperimentazioni di nuove forme di vita del tipo “work/play” che erano state liberate dalla rave culture e sono poi divenute strutturali al lavoro precario – come scrivono, da diverse posizioni, autori come Tobias Van Veen e Angela McRobbie), Retromania è uno studio sulle ceneri del futuro che già fu, solo pochi anni dietro le nostre spalle.

A chiudere questo ideale triangolo concettuale, che vuole essere un compendio-guida per i differenti articoli che compongono Ieri, il domani, è un testo pubblicato soltanto pochi mesi fa – e di cui in questo numero vi presentiamo un estratto in traduzione italiana, preceduto da una esclusiva intervista all’autore. Ghosts of My Life di Mark Fisher – studio sui futuri perduti e la malinco(ma)nia nella cultura britannica contemporanea – si apre con una affermazione dal tono epigrafico: “There’s no time here, not any more”. La frase lapidaria, come l’autore spiega, è una citazione da un artefatto della cultura pop britannica di fine anni Settanta, a lungo perduto e poi ritrovato e riedito in versione dvd nel 2008: la serie televisiva di fantascienza Sapphire and Steel, nata da un’idea di Peter J. Hammond e trasmessa dal canale ATV tra il 1979 al 1982 per un totale di trentaquattro episodi. Sorta di ‘nonni’ britannici (più “poveri” nel budget di produzione, meno cool ma con più aplomb e profondamente più inquietanti) dei ben più noti Mulder e Scully (X-Files), “Zaffiro” e “Acciaio” sono indagatori del mistero preposti alla risoluzione di casi inspiegabili collegati al Tempo: incroci dei piani temporali, anomalie che bucano la regolare cronologia della quotidianità, e così via… “Non c’è tempo qui, non ce n’è più” – frase d’apertura del saggio di Fisher – è in effetti la frase chiave dell’ultimo episodio della serie (in inglese a questo link: www.youtube.com/watch?v=hWkv2wAIlrg), in cui il sipario cala, tetro, sui due protagonisti spaventosamente intrappolati in una stanza che è in sé tutto un mondo – un mondo “senza tempo” e che pure contiene tutto il tempo in un pastiche (appena accennato ma percepibile) di varie epoche; una stanza-mondo eternamente galleggiante da qualche parte (da nessuna parte?), perduta nelle profondità del cosmo. Per Fisher, la condizione esperita in questa scena da Sapphire e Steel – creature di fantasia di un’epoca della cultura pop-televisiva a suo modo, per l’autore britannico, sperimentale e irripetibile, come egli stesso chiarisce nell’intervista – diventa emblematica di una condizione esistenziale che caratterizzerebbe, oggi, la nostra esperienza di vita tout court, marcata da anacronismo e inerzia.

 

Basterebbe questo veloce riferimento al contenuto delle primissime pagine di Ghosts of My Life per mostrare come questo testo sia in effetti il perfetto anello mancante che tiene (dichiaratamente) insieme l’approccio filosofico di Berardi sulla sparizione del futuro e l’analisi culturalista di Reynolds sulla retrospezione endemica nella popular culture. Anche qui, però, le differenze sono la chiave di volta. Laddove infatti Reynolds identifica nella rete la causa primaria della retrospezione endemica, Fisher si occupa maggiormente delle condizioni sociali ed economiche alla base dell’umore malinconico dei tempi attuali, come la precarietà, il declino della sicurezza sociale, e così via. Inoltre, in Ghosts of My Life, la vocazione allo studio della cultura quotidiana si combina con una proposizione politica originalissima sul ruolo che la malinconia e i fantasmi del futuro possono assumere nel presente – proposizione in cui la malinconia stessa, piuttosto angosciosa nel testo di Berardi, si ritrova ad essere affiancata da un’altra forma di malinconia più spiccatamente propositiva, che contempla la possibilità di ritrovare, nei revenants che ci accompagnano, anche presenze “benigne”, capaci di squarciare il velo di “apatia” politica istillato da trent’anni di “realismo capitalista”. Nelle parole di Fisher, “il libro nella sua interezza fa del Regno Unito il proprio caso studio, seguendo le tracce di molti e diversi spettri – alcuni maligni, alcuni benigni. Gli spettri maligni sono le persistenze del passato e tra questi ci sono i traumi dell’Impero che continuano a ripetersi anche a tanti anni di distanza dalla fine dell’Impero stesso. Gli spettri benigni sono gli spettri di futuri perduti, i futuri diversi e talvolta intrecciati che venivano proiettati dalla democrazia sociale, dal pop elettronico, dal rave, e così via.”

Questa dimensione, a conclusione di questo excursus, ci pare preziosa da sottolineare, poiché non solo diagnostica (come già in Berardi) lo stato malinconico-depresso della nostra epoca; non soltanto rintraccia (come già in Reynolds) nei segni della cultura la dimensione ideologica del tardo-capitalismo semiotico; piuttosto, essa allarga i confini dell’analisi, muovendo dalla critica dell’ideologia verso la costruzione di una ritrovata fiducia nel mondo, in cui i fantasmi – gli spettri d’Occidente – non siano soltanto il ritorno di un futuro-ormai-passato, ma piuttosto il seme latente di un tempo ancora, pienamente, a-venire.

 

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