Fonte: Arianna editrice

15/01/2020

 

Il concetto di salvezza nel presente storico

di Flores Tovo

 

Il concetto di salvezza, in quanto tale, esprime un bisogno che si è rivelato costitutivo nell’essenza dell’esserci umano, il quale, essendo un ente finito autocosciente, è consapevole della propria finitudine e della propria precarietà su questa terra. Ciò lo spinge incessantemente a cercare àncore di sicurezza che lo aggancino a qualcosa di solido e sicuro per poter resistere a tutte le difficoltà che la vita presenta in modo inevitabile. Questo bisogno, invero, è assai profondo, poiché riguarda tutti gli elementi che compongono l’esserci in quanto tale: esso infatti può essere di tipo corporeo (salvarsi dalle malattie e dalle sofferenze fisiche), o ancor più di tipo spirituale (salvarsi dalle angosce e paure che il senso del divenire impone). Questo bisogno, inoltre, si accompagna alla razionalità,  favorendo così la nascita delle religioni che indicano una vita eterna, sia la formazione  degli stati politici che col loro sistema di leggi dovrebbero avere la funzione di assicurare la nostra incolumità con un sistema di giustizia efficiente, sia l’espressione delle varie forme etiche che cercano di stabilire cos’è  il bene e cos’è il male. Infine, esso può trasformarsi anche in un sentimento pervasivo che ci spinge a bramare una via di liberazione da tutto ciò che ci opprime, soprattutto dal male nella sua genericità, per ridarci la speranza di una vita migliore. Ad ogni modo questo breve saggio non vuole essere una riflessione soteriologica rivolta al passato, ma semplicemente uno sguardo sulla condizione umana della nostra vita odierna.

Nel mondo attuale il concetto di salvezza fu pronunciato in modo quasi oracolare da Martin Heidegger, che, sia pur con concise parole, ha condizionato alquanto la filosofia del nostro tempo riguardo questa questione. Egli, durante la sua vita, concesse solo due interviste: una del 1966 alla rivista “Der Spiegel” (Lo specchio), con l’obbligo che fosse edita postuma, e un’altra, televisiva, nel 1969. L’intervista pubblicata nel 1976, nell’anno della morte di Heidegger, è, fra le due la più importante, poiché era molto più lunga, e perché essa contiene la famosissima sentenza che “ormai solo un dio ci può salvare” (1). Una frase che è diventata l’emblema della filosofia post-moderna, quella cioè del dopo-crollo delle grandi ideologie comuniste, fasciste e, in parte, liberali;  un crollo che ha segnato così la fine delle grandi narrazioni e delle grandi illusioni, portando l’umanità dentro  l’epoca del cosiddetto disincanto weberiano e della morte di Dio nicciana: l’epoca del nichilismo completo e passivo.  

Cerchiamo ora di commentare questa frase, che filosoficamente è molto più complessa di quel che appare. I due avverbi “ormai” e “solo” indicano l’impossibilità da parte del pensiero filosofico di operare una qualsivoglia trasformazione del mondo d’oggi. Per cui, scrive Heidegger, l’unica possibilità di salvezza è “…quella di preparare, nel pensare e nel poetare, una disponibilità all’apparizione del dio o all’assenza del dio ; nel fatto che noi…non crepiamo ma, se tramontiamo, tramontiamo al cospetto del dio assente”(2).  La grande filosofia è sempre stata lo strumento critico del pensare autocosciente soprattutto riguardo al presente storico. Ciò significa che essa ha avuto il compito di spiegare razionalmente ciò che è accaduto e ciò che accade (portare il reale al Concetto, ossia alla chiarezza razionale, direbbe Hegel), senza avere comunque la pretesa di spiegare esattamente quello che succederà nel futuro (3). Stirner, Dostoievskij e Nietzsche annunciarono per primi l’avvento del nichilismo, Heidegger prima e Jünger ed Anders dopo ne descrissero l’essenza moderna. Il nichilismo è, in sintesi, la fine della sacralità, delle metafisiche, delle religioni e delle ideologie. Al di dentro di esso regna il senso dell’indifferenza, la ricerca spasmodica del piacere individuale, il tramonto di ogni anelito verso la trascendenza. La sua compiutezza si ha quando l’imposizione tecnica razionalizzata allo scopo del profitto universale (il Gestell) riesce ad estendersi e a pervadere ogni angolo del globo. All’oblio dell’Essere, che culmina quando l’uomo, armato di tecnica, crede di sostituirsi ad esso, subentra l’abbandono dell’Essere. Non è più l’esserci, ad abbandonarlo, ma è l’Essere stesso, con cui l’umanità aveva la coappartenenza, ad abbandonarla. Proprio per questo nasce il radicale pessimismo verso il pensiero filosofico da parte di Heidegger. L’uomo, che era storicamente esser-ci, resta così un semplice Ci, un qui ed ora senza senso. E poiché l’Essere, per Heidegger, è tempo e pensiero indissolubilmente legati, il suo abbandono significa, a rigore, la fine del senso delle temporalità passato-presente-futuro e pure la fine del pensiero rammemorante e speculativo: l’unica forma di logica rimane per l’oggi quella della pura descrizione quantitativa proprie delle scienze attuali, prima che anch’esse perdano una qualsiasi capacità di profondità d’indagine.

Si pone a questo punto la domanda come sarà possibile che “ormai  solo un dio ci possa salvare”?  Si tenga innanzitutto presente che, per il filosofo, una eventuale ri-comparsa di Dio può palesarsi solo al di dentro dell’Essere. Per Heidegger Dio ed Essere sono assolutamente da distinguere. Infatti il Dio, in quanto tale, è Infinito, eterno ed indeterminato: è il Dio Nascosto, ossia  il Dio come fu concepito  da Plotino, Dionigi l’Aeropagita, Eckhart, Cusano, Bruno, Silesio, filosofi che, fra l’altro, egli conosceva molto bene. Per cui Dio può mostrarsi solo attraverso l’Essere, che è il principio primo della manifestazione divina: un principio che acconsente agli enti di esistere, ma che in quanto tale è un principio finito, poiché la somma di enti finiti non darà mai l’Infinito. L’Essere è quindi finito, seppur indefinibile proprio perché principio, e in quanto tale non ha un inizio né una fine, come lo è il tempo.  L’indefinito tuttavia non è mai il vero Infinito, che invece è eterno ed indeterminato; mentre l’indefinito è sempre determinato da un qualcosa (per esempio il cosiddetto “infinito matematico” è determinato dal numero). Dio perciò può rivelarsi soltanto attraverso l’Essere, poiché l’Indeterminato non può essere parte di alcunchè. Anche secondo la teologia cristiana il Dio Padre si rivela attraverso il Figlio, che, essendo un uomo, è finito, sebbene poi  torni all’Infinito. In tutte le religioni il dio incarnato (che non è una prerogativa del cristianesimo) si rivela in varie forme: o come semi-dèi nel paganesimo, avatara nell’induismo, bodhisattva nel buddhismo mahayana, o come gli otto immortali nel taoismo e così via. Certamente nel cristianesimo l’incarnazione è il fondamento stesso della religione, per cui essa ne è la principale peculiarità. Resta il fatto che tutte le religioni storiche stanno subendo un regresso imponente, per cui l’annuncio nicciano che “Dio è morto” trova sempre più conferme nel presente storico: e la causa è, come si diceva, la macchinazione capitalista sempre più globale, che tutto livella ed omologa.

L’Essere, quindi, nel suo distogliersi, ci lascia pure senza il conforto del sacro e della meditazione, senza il sentimento riflettente della bellezza e senza il pensiero profondo speculativo. E non solo: il Ci umano perde il senso della comunità, del mito, della storia. Sorge allora la domanda su come un dio ci possa salvare, se l’Essere stesso non avverte più la necessità di coappartenere all’esserci umano. La contraddizione risulta chiaramente evidente: infatti, “se ormai solo un dio ci può salvare” e questo dio si può rivelare solo all’interno dell’Essere, come è possibile che questo evento epocale possa accadere, se lo stesso Essere ci abbandona? “L’ “essere” parla sempre comunque in modo conforme al destino, quindi intriso di tradizione”(4) scriveva Heidegger: ma se la tradizione e la storicità dei popoli si dissolvono, com’è possibile, appunto, una qualsiasi forma di salvezza operata da un dio “incarnato”? L’abbandono dell’Essere dovrebbe escludere ed impedire l’evento del ritorno di un qualsiasi dio.

 A questo punto Heidegger evoca, o forse invoca, uno sforzo verso il pensiero poetante sentimentale.  Quando tutto sembra perduto, alcuni uomini avvertono dentro di se stessi quella che egli chiama la risonanza dell’Essere: una risonanza che si richiama al pensiero profondo e alla verità sempre più celata, ma non del tutto scomparsa.  Essa è come un’eco che riporta alcuni uomini al desiderio struggente di una ri-presenza di dio. Tali uomini vengono definiti da Heidegger “uomini venturi”.

Chi sono costoro? Essi sono uomini che nel presente attuale vivono in una solitudine cercata: non partecipano a corride, non urlano, non si esibiscono. Scriveva Nietzsche nel suo “Zarathustra” che dove cessa la solitudine, là comincia il mercato, là incomincia anche il rumore dei grandi commedianti e il ronzio delle mosche velenose. I preti, i politicanti, i mercanti sono perciò i bagonghi del non-tragico circo presente. Gli uomini venturi vivono invece nella dimensione esistenziale del ritegno, che non è da intendersi come riserbo o discrezione, bensì come disposizione d’animo da parte di coloro che con coraggio si pongono consapevolmente dentro la situazione emotiva dell’evento del ritorno di un dio. Un ritegno che si lega ad un’altra situazione emotiva fortemente penetrante nell’animo di questi uomini, che è quella dello sgomento. Esso infatti non è un semplice turbamento o una paura depressiva: è piuttosto una sofferenza che prende “totaliter” e alla quale non si può sfuggire. Essa mostra l’abisso spalancato nel cui fondo vi è la distruzione di tutto ciò che è stato grande nella storia umana e  parimenti la distorsione della natura. Un abisso che viene avvertito come l’estremo pericolo di fronte al quale l’umanità sembra inadeguata ed antiquata nel poterlo superare, sebbene Heidegger affermi talvolta che l’esserci umano riscopri il meglio di sé nel momento in cui tutto volge al peggio.

Nella maggior parte degli uomini, comunque, il senso dell’indifferenza e dell’impotenza verso il tutto è dominante, proprio perché  l’Essere li ha abbandonati. Questi ultimi uomini accecati si autocelebrano, e non provano altro che  un compiacimento ottenuto attraverso  un consumismo d’accatto senza eleganza, stile e qualità. Dentro di essi non sorgono domande, pensieri, forti sentimenti: è come se vivessero in una specie di stupefazione bestiale. A loro non importa nulla della salvezza, se non quella del proprio corpo. Vivono perché vivono. Nel contempo gli uomini venturi, nel silenzio, sentono sempre più acuto il turbamento dell’esistere.  Heidegger scrive che bisogna prepararsi  per l’attesa del dio che verrà. La filosofia non potrà essere più d’aiuto; solo il pensiero sentimentale della risonanza e dello sgomento può preparare gli uomini venturi all’evento della comparsa dell’ultimo dio.

A riguardo c’è però da osservare che lo stesso pensiero heideggeriano sembra del tutto vacillante proprio a causa della sua vaghezza. Se è vero che lo sgomento e la risonanza  possono pervadere la coscienza  di alcuni uomini, è pur vero che questi sentimenti “pensanti” si risolvono nella nebulosità di una ineffabile attesa, per cui anche questi uomini non saprebbero concretamente cosa fare. Inoltre il dio che eventualmente dovesse rivelarsi non potrebbe più farlo nelle forme tradizionali delle metafisiche trascorse, né nelle forme consuete delle religioni positive, in quanto “il dio di queste è morto”. “ L’ultimo dio sarà (se ci sarà, aggiungiamo noi) “quello diverso rispetto agli dèi già stati, specie rispetto al dio cristiano” (5). Il “che fare” diventa quindi una domanda fondamentale mentre si attende. L’attesa, inoltre, non è una disposizione d’animo atta ad osservare l’inevitabile consunzione mentre si sta all’ombra di un cipresso.  Di conseguenza il pensiero poetante è una pia illusione. E’ assai verosimile che gli stessi “uomini venturi” siano già, nel frattempo, molto invecchiati. Il rischio di uno scacco matto nei confronti della proposta heideggeriana, per quanto sia espressa in modo sublime in termini filosofico-poetici, è estremamente elevato. Un secolo fa il “che fare” poteva ribaltare un mondo. Uomini come Lenin, Mussolini, Hitler seppero proporre un disegno che realizzarono  in modo grandioso e terribile ad un tempo. Oggi non è più possibile, poiché non esistono più classi sociali di riferimento come la classe operaia o il ceto medio, ma esiste solo una massa informe che nelle grandi città tende  al meticciato, cioè ad una società senza radici. La salvezza quindi non avverrà all’interno di tali classi. Non ci sono più soggetti vivi e reali che possano davvero accogliere un nuovo dio. Il “Gestell” ha ormai travolto tutto, persino Heidegger stesso.

La storia umana ad ogni modo non è finita: il capitalismo in questa fase assoluta genera contraddizioni insanabili. Nell’epoca della imposizione tecnica il mondo cambierà sempre più indipendentemente dalla nostra volontà. E allora, con l’acuirsi dei drammi, potranno forse nascere fra le rovine i veri uomini venturi , i quali, senza aspettare che giunga o meno un dio, accetteranno i rischi del mutamento con competenza, coraggio anche fisico e con rigorosa dirittura etica: solo con dei nuovi guerrieri spirituali si riuscirà a far ritirare le mosche velenose nei loro luoghi naturali: cioè tra i rifiuti e gli escrementi. E così, solo così, si potrà ridiventare degni di un ritorno di un dio.

 

Note:

1)    M. HEIDEGGER, Risposta ad un colloquio con Martin Heidegger, Guida Editori, Napoli 1992, p. 124.

2)    IDEM, p.124.

3)    G.W.F. HEGEL, Lineamenti di filosofia del diritto, Ed. Rusconi, Milano 1996, p.65.

4)    M. HEIDEGGER, Identità e differenza, Adelphi ede., Milano 2009, p. 65.

5)    IDEM, Contributi alla filosofia, Adelphi ed, Milano 2007, p. 395.

 

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