Francesca Borri

9 febbraio

 

IN EXTREMIS. THE LIFE AND DEATH OF MARIE COLVIN

 

Aveva scelto il giornalismo, non il fronte: si era ritrovata in guerra per caso. E come tutti i corrispondenti di guerra, non amava definirsi così. "Scrivo della vita ai suoi estremi", diceva di sé. "Nient'altro". Ma è una vecchia storia, come diceva Michael Herr. Pensi di seguire una guerra: e invece è la guerra, alla fine, a seguire te.

Fino a quando, per sentirti a casa, torni in Afghanistan. Torni al fronte.

Perché il fronte vero non è più quello che hai davanti, ma quello che hai dentro.

Con la sua vita sregolata, i suoi mille amori, uno più sbagliato dell'altro, e l'alcol, le feste fino all'alba, le risposte ruvide, e soprattutto, con quella benda nera sull'occhio sinistro, perso in battaglia, l'americana Marie Colvin, firma di punta del Sunday Times fino alla sua morte a Homs, in Siria, il 22 febbraio 2012, era destinata a diventare un personaggio da romanzo. Ma avrebbe credo detestato molto di quanto è stato detto e scritto in questi anni: la reporter traumatizzata e ormai drogata di adrenalina che nei suoi uomini, e nel successo, nei premi, nelle esclusive mondiali, ancora cercava suo padre, ucciso da un cancro improvviso - molto, ma non questo libro. Che non tralascia niente, nessun dettaglio, e non nega tutta la sua vulnerabilità, ma poi dice l'unica cosa che abbia senso dire: "She knew where the story was, and would stop at nothing to get it".

Marie Colvin sapeva dove era la storia. E voleva arrivarci.

Tutto qui.

Ma sapeva anche come arrivarci. Con quale approccio. A Yale, studia con John Hersey, l'autore di Hiroshima. E da John Hersey impara che più che di equilibrio, e equilibrismi, il giornalismo è questione di verità. La sua carriera inizia in realtà con un colpo di fortuna. Intervista Gheddafi, che in quel momento per l'Occidente è il terrorista numero uno: e che la sceglie semplicemente perché è giovane e bella. Ma dalla Libia in poi, non è più un caso: è talento e coraggio. E molto altro. Ha non solo il fegato di andare a Beirut, che nel 1986 è la città più pericolosa al mondo, ma si infila nel campo profughi palestinese di Bourj el-Barajneh, sotto assedio da mesi. Tra i civili: imponendoli all'attenzione del mondo. Fino a quando la Croce Rossa non viene infine autorizzata a entrare. Come nel 1999 a Timor Est. In cui, come tutti gli altri giornalisti, sta nel compound dell'ONU, rifugio di sfollati. Ma quando nell'imminenza di un attacco, vanno via tutti, e vanno via anche i diplomatici, resta lì, a trasmettere in diretta televisiva l'attesa dell'assalto. Della morte. Fino a quando i miliziani non si ritirano. Marie Colvin ha raccontato tutti i principali conflitti del suo tempo. L'Intifada, il Kosovo, la Cecenia. Le due guerre del Golfo. Ogni volta con lo stesso obiettivo: non solo esserci, ma fare la differenza.

Non solo testimoniare, ma costringere all'azione.

I corrispondenti di guerra in genere dicono: Sono qui perché un giorno nessuno possa dire di non avere saputo. Marie Colvin non pensava al futuro: pensava al presente. Non era lì per i lettori, ma per le vittime.

Ed era questa la forza con cui superava ogni difficoltà, e soprattutto, ogni paura, e stava al fronte più avanti di tutti gli altri, e più a lungo: la motivazione. La cosa più dura, diceva, è convincersi che quello che racconterai interesserà a qualcuno.

Perché Marie Colvin non si è mai illusa: i suoi palestinesi, i suoi ceceni, i suoi kosovari non interessavano neppure a quel Sunday Times di cui era l'icona. Soprattutto quando il giornale viene comprato da Murdoch. E cambia filosofia. Per il suo direttore, Marie Colvin non fa la differenza: fa profitti. Non importa avere storie rilevanti, o che gli altri non hanno. Importa solo rischiare la vita.

Tanto, è la vita del giornalista. Mica la tua.

E quindi, quando decide di sfidare l'assedio, di nuovo, e attraverso un tunnel, rientrare a Homs, da cui ha appena inviato quello che sarà il suo ultimo reportage, scritto in uno scantinato affollato di donne e bambini, o più esattamente, vedove e orfani, da Londra si sente dire: Ma è inutile. La storia è la stessa. E invece, è una storia che ha già raccontato, sì: ma è una storia che non è ancora finita. Anzi. Che è appena iniziata. E Marie Colvin sa che solo da lì, solo da quello scantinato, come già a Timor Est, a Bourj el-Barajneh, in diretta televisiva sotto il tiro dell'artiglieria, può fare la differenza. E lo sa bene anche Assad. Che ordina di tracciare il suo satellitare, e bombardare.

Ora sono in tanti a dire che era andata a Homs solo per dimenticare l'ennesimo tradimento. Perché era alcolizzata, depressa. Allo sbando. Che avrebbe avuto bisogno di uno psicologo. Ma chi ha più bisogno di uno psicologo: chi davanti a 500mila morti è pronto a tutto per parlarne, o chi continua a parlare d'altro come se niente fosse?

 

Lindsey Hilsum, In extremis. The life and death of the war correspondent Marie Colvin, Farrar Straus & Giroux 2018

 

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