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26/8/2019

 

Barriere palestinesi contro la guarigione da ferite traumatiche

di Samah Jabr

Traduzione di Giorgia Temerario

 

I pazienti traumatizzati che vedo in ufficio esprimono spesso una diffidenza quando domando dei loro sentimenti: “E’ umiliante lamentarsi con chiunque altro che non sia Dio”; “Non lamentarti delle ferite, non ferire nessuno se non te stesso”; “Contieni il dolore nel tuo cuore sofferente per evitare la vergogna di condividerlo”. Tali reazioni non sono limitate solo agli individui. Comportamenti come questi sono divenuti generali per generazioni in Palestina, costituendo un corpus di massime e proverbi che comunicano una perdita di fede nelle relazioni umane, un timore di pericolo diffuso ed un’astensione dall’aprirsi all’altro. Tali reazioni rappresentano delle barriere per la guarigione.

In Palestina il trauma principale è causato dall’uomo e deliberatamente; per di più, il colpevole non viene mai riconosciuto responsabile e ciò raddoppia l’effetto del danno. Quest’ultimo gode infatti di impunità e fa ricadere la colpa di tale trauma sulle stesse vittime. Colpa e vergogna rendono difficile alle persone lamentarsi o fare ricorso. Una donna che è stata molestata sessualmente in prigione mi ha risposto così quando le ho proposto di presentare una relazione sull’accaduto: “Ma se mi lamento non accadrà nulla! Nessuno mi crederebbe; il colpevole verrebbe difeso da tutti e ne uscirebbe trionfante. Io verrei umiliata pubblicamente e diventerei oggetto di pettegolezzi e scherni”.

Il trauma politico in Palestina è sia trans-generazionale che collettivo e la nostra attuale capacità di trattarlo è molto limitata. Mancano i finanziamenti, le risorse professionali e dati clinici concreti per affrontarlo in modo complessivo. La maggior parte delle terapie si basa sul trattamento del singolo individuo e trattano principalmente il qui e ora.

Poiché il trauma in Palestina è così diffuso, ci sono troppe ripercussioni della sofferenza traumatica. Un giovane è afflitto da molteplici ferite: vive in un campo profughi perché la casa e il terreno di suo nonno sono stati sequestrati; sua madre è affetta da depressione cronica da vent’anni, seguita all’arresto e tortura del suo fratello maggiore; la casa del suo vicino è stata recentemente demolita; un suo compagno di scuola è stato ucciso durante una manifestazione. Con un tale background, come possiamo localizzare la fonte di questo dolore al petto se le cause mediche sono state escluse? La sovrabbondanza di eventi traumatici nell’ambiente rendono difficile stabilirne l’eziologia; il ripetersi del trauma è una sfida per chi si sforza di trattarlo.

Un’ulteriore ostacolo alla guarigione è la mancanza di consapevolezza sociale del trauma, dunque i sopravvissuti isolati si scoraggiano nel chiedere aiuto. Chi si batte per la libertà e muore in un contesto violento viene spesso definito terrorista dai media israeliani; per compensare tale rifiuto, la società palestinese spesso glorifica i suoi prigionieri politici e i suoi martiri. In questo contesto, tuttavia, le vittime traumatizzate che sono state danneggiate dal sistema politico palestinese in quanto membri di un gruppo di opposizione riscontrano difficoltà a riprendersi. Precedentemente ho scritto di una donna che ha riferito di “danzare come un pollo macellato” dopo l’uccisione di suo figlio. Temeva che se si fosse aperta con me sul fatto di essere stata un’informatrice israeliana non sarei stata in grado di entrare in empatia con lei e avrei percepito i suoi sforzi nel cercare aiuto come illegittimi. Nonostante questa terapia fosse approfondita lei era profondamente restia nel rivelare l’intera storia. Ha infatti mantenuto numerose parti della sua traumatica storia ambigue e segrete, evitando dunque di fare nomi.

Non esiste un posto sicuro in Palestina, di conseguenza la paranoia è diffusa. La mancanza di fiducia nell’altro è infatti spesso una misura di sicurezza appropriata piuttosto che un sintomo di psicosi. Una volta arrestati, ai prigionieri viene detto che è stato un amico o un parente ad informarli sul loro conto; altri vedono i loro compagni testimoniare contro di loro in tribunale. Il campo medico è particolarmente sospetto ed i miei pazienti sospettano che le loro cartelle psichiatriche possano essere usate contro di loro. I pazienti a Gerusalemme mi chiedono spesso se il mio computer sia collegato al sistema medico nazionale israeliano. La gente teme che i propri telefoni e computer siano delle spie.

Inoltre, la vita quotidiana è piena di cose riferimenti al trauma. Conosco gente sopravvissuta al trauma che circoscrive la propria vita a delle sfere limitate per evitare gli attacchi; ad esempio, si muovono solo all’interno di un piccolo vicinato e perdono il lavoro per evitare di passare i controlli, oppure smettono di usare il televisore e i social media per evitare immagini di aggressioni da parte di soldati. Tali reazioni sono anche delle risposte alle condizioni circostanti opprimenti, nelle quali anche l’espressione simbolica della realtà traumatica viene proibita. La gente è stata arrestata per essere andata a teatro, scritto poesie o commentato su Facebook.

Queste pratiche opprimenti ci aiutano a capire perché alcune vittime del trauma sono portate alla ripetizione tramite la riproduzione dell’evento traumatico.

Il senso di colpa del sopravvissuto è un altro elemento che complica il recupero dal trauma. Ho trattato un adolescente che ha tentato il suicidio molte volte dopo che il cugino è stato ucciso. In seguito ho capito che il ragazzo aveva incoraggiato il cugino a partecipare a delle manifestazioni politiche prima gli sparassero. I sensi di colpa sono una componente importate della reazione al trauma nel nostro contesto politico: le donne detenute si sentono in colpa per aver “lasciato” i figli e la casa; i padri di prigionieri minorenni si sentono in colpa di aver “fallito” nel proteggerli; i prigionieri si sentono colpevoli di aver “fatto” investire ai loro genitori i risparmi di una vita in avvocati nella speranza di ricevere una sentenza ridotta. I sensi di colpa vengono innescati generalmente nelle persone sotto tortura quando vengono dette loro frasi del tipo “Porteremo qui anche tua madre, tua moglie e tua sorella” e “Demoliremo la tua casa”. In molte delle interazioni con l’opprimente sistema amministrativo israeliano, le persone sono considerate responsabili della sanzione che viene loro imposta; ad esempio, le case vengono demolite perché la gente “non è riuscita” ad ottenere l’adeguata (e solitamente inconseguibile) licenza.

La dipendenza palestinese da Israele è un’altra barriera che si oppone al trattamento del trauma attraverso il rafforzamento dell’identificazione regressiva con l’aggressore come gruppo superiore. Tale dinamica aggiunge al danno la beffa. Un palestinese in cerca di una terapia all’avanguardia per una condizione medica critica deve recarsi in un ospedale israeliano. Se un palestinese vuole fare ricorso per tortura deve affidarsi a un avvocato israeliano.Quando una storia viene raccontata da un giornalista israeliano, il racconto è percepito come più valido e credibile di quando viene riportato da un mezzo di comunicazione palestinese. Il sequestro di autorità e competenze tra gli israeliani genera ulteriore confusione nelle menti dei tanti palestinesi vittime del trauma.

La mancanza di fiducia nelle capacità palestinesi e i continui racconti di nepotismo, tradimento, disorganizzazione e corruzione tra agenzie e istituzioni palestinesi sono parziali lasciti degli effetti traumatici dell’occupazione israeliana. Il trauma si irradia attraverso molteplici aspetti della vita, con un impatto sulle tradizioni sociali e culturali, distruggendo la sicurezza e le relazioni, minando il senso di integrità comunitaria ed offuscando la nostra speranza nel futuro. Il trauma si forma all’interno e distorce il processo di sviluppo dei bambini, la personalità, i rapporti interpersonali, il concetto di sé, i valori sociali e l’intera prospettiva di vita.

È confortante avere fiducia nelle forze massime della giustizia. Tuttavia, un tale credo può risultare pericoloso per le società traumatizzate poiché ciò implica anche che le persone ricevano quel che meritano. Le persone affette da traumi arrivano facilmente alla conclusione che le cose spaventose sono accadute a loro perché in difetto. Si convincono facilmente di essere essenzialmente cattive e non poter meritare di meglio; le loro azioni e comportamenti combaciano con tale convinzione.

Il terapeuta in Palestina non è immune a tali pressioni e, a volte, non è emotivamente preparato alle sfide legate al trattamento del trauma; il medico sopraffatto rischia di assecondare involontariamente il rifiuto del paziente a ricordare ed aprirsi. Il terapeuta che non è pronto a chiedere, ascoltare o vedere deve lavorare sulle sue stesse barriere interiori; lui o lei dovrebbe fare pratica sul personale rifiuto del trauma che avviene inconsciamente in complicità con la resistenza del paziente.

Il nostro lavoro nel trattare il trauma individuale provocato dalla violenza politica è parte di un lungo percorso di risanamento che viene affrontato dall’intera comunità palestinese. Bisogna guarire dal trauma riacquistando la normalità persa attraverso sistemi sociali e culturali rimasti latenti nel corso dell’occupazione per generazioni. Questo lavoro non può essere compiuto completamente dalla sola pratica in studio, bensì richiede un rinnovo collettivo ampio della vita psicologica sotto le condizioni di intervento e giustizia autonome.

 

 

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