https://www.huffingtonpost.it/ 06/07/2019
Il patto Trump-al Sisi per fare di Haftar il "Gendarme" libico
I due hanno un nemico comune e il generale sembra il più adatto in Libia a combatterlo: i Fratelli Musulmani, tutelati dalla Turchia
Lasciate perdere le risoluzioni pilatesche, gli appelli, puntualmente ignorati, al cessate-il-fuoco, le lacrime di coccodrillo dispensate, a New York come a Bruxelles, dopo massacri di civili come quello perpetrato nel centro di detenzione di migranti a Tajoura. Tutto questo fa parte di una stanca recita, messa in scena dalla diplomazia internazionale, che accompagna la guerra per procura combattuta in Libia. Le cose che contano davvero sono altre, e riguardano le alleanze che si stringono tra potenze globali e regionali a sostegno dei due contendenti interni. In Libia, si sta consolidando il patto Trump-al Sisi per sostenere, condizionandolo, l’uomo forte della Cirenaica: il maresciallo Khalifa Haftar. È lui, per The Donald, il Gendarme su cui puntare, l’”Assad libico”. E’ lui, l’ex ufficiale di Gheddafi, l’uomo al quale il presidente-generale egiziano ha affidato il compito di sradicare le milizie islamiste filiere della Fratellanza musulmana.
Quanto all’Italia, c’è solo da prendere atto che di sicuro in Libia c’è solo la morte. E non certo i porti. “In questo momento, no”. Cosi il vicepremier Matteo Salvini risponde a chi gli chiede se attualmente i porti in Libia sono sicuri. Quanto al pericolo che possa arrivare proprio da quel Paese un flusso massiccio di immigrati, replica: “Stiamo lavorando con il governo libico perché la situazione torni tranquilla”. L’obiettivo è evitare che vengano smistati in Europa, “c’è una guardia costiera che lavora bene, c’è un governo legittimamente riconosciuto e con loro ragioniamo”, dice il ministro dell’Interno, di fatto plenipotenziaro, per altrui assenza, del dossier libico.
Ciò che sembra sfuggire al vice premier è che, con l’esclusione di Turchia e Qatar, con Haftar si sono schierati Trump, Putin, al-Sisi, i regnanti sauditi, e, sia pure sottotraccia, la Francia. Quanto alla diplomazia internazionale, dopo giorni di discussione, di limature del testo, e sull’onda della strage di migranti nel centro di detenzione di Tajoura, il Consiglio di sicurezza dell’Onu, con un voto unanime, ha chiesto a tutte le parti coinvolte nella guerra in Libia, una “urgente de-escalation” e “l’impegno per un cessate il fuoco”. Inoltre, ha invitato tutti gli Stati - anche quelli non membri del Consiglio di sicurezza - a “non intervenire nel conflitto o prendere misure che possano esacerbarlo”.
Da New York a Bruxelles: “L’attacco shock al centro di Tajoura è un duro promemoria di come la guerra in Libia stia colpendo i civili. Lo condanniamo nei termini più forti”. “Tutta la violenza contro i civili è inaccettabile. Accogliamo con favore qualsiasi missione di accertamento dei fatti intrapresa dall’Onu e attendiamo con impazienza i suoi risultati”, dichiara L’Alto rappresentante Ue per la politica estera, Federica Mogherini. Per tutta risposta, Haftar ha lanciato la seconda fase dell’offensiva su Tripoli coinvolgendo nuovi battaglioni che già in passato si erano resi protagonisti di violente conquiste a Bengasi e a Derna. Dall’avvio dei combattimenti, il 4 aprile scorso, secondo i numeri ufficiali dell’Organizzazione mondiale della sanità, il bilancio delle vittime tocca quota mille morti e circa 5 mila feriti.
Nel frattempo, in una telefonata al presidente egiziano, Abdel Fattah Al Sisi, il presidente americano, Donald Trump, mostra ancora il suo appoggio all’uomo forte della Cirenaica. “Gli Stati Uniti – annota James Dorsey, ricercatore alla S. Rajaratnam School of International Studies di Singapore, sentito dall’agenzia France Presse - non hanno ritirato formalmente il loro sostegno al Governo di accordo nazionale, ma di fatto vi sono contatti al più alto livello con Haftar”.
In questo contesto potrebbe inquadrarsi il costante contatto telefonico tra il presidente americano e quello egiziano. I due hanno un nemico comune, e l’uomo forte della Cirenaica sembra il più adatto in Libia a combatterlo: i Fratelli Musulmani, tutelati dalla Turchia. L’azione del generale, secondo Dorsey, “soddisfa due criteri agli occhi di Washington: la difesa dal terrorismo islamista, incarnato secondo Trump dall’organizzazione spazzata via in Egitto da al-Sisi e l’appoggio che gli arriva da Riyadh e dagli Emirati, gli alleati più importanti nel Golfo”.
Gli stessi nemici di Ankara, che ha intensificato nelle ultime settimane la fornitura di armi al premier Fayez al -Sarraj e consentito a quest’ultimo di guadagnare terreno negli scontri militari, come nel caso della riconquista di Gharyan, a pochi chilometri da Tripoli. Infine, Haftar è ben conosciuto dall’amministrazione americana, che vent’anni fa gli concesse la cittadinanza e gli consentì di vivere a Langley, dove ha sede il quartier generale della Cia. “Per lui, sottolinea Karim Bitar, analista del think-tank Iris di Parigi, potrebbe valere la frase che Franklin Delano Roosevelt formulò per l’allora dittatore nicaraguense Anastasio Somoza: ‘È un figlio di puttana - disse il 32mo presidente degli Stati Uniti - ma è il nostro figlio di puttana’. La posizione americana – aggiunge Bitar - si allinea con quelle espresse degli ultimi anni, che hanno premiato le azioni degli alleati a dispetto dei diritti umani. L’amministrazione Trump e questi ultimi hanno abbracciato i metodi duri di Haftar e la sua agenda autoritaria”.
Sul fronte delle Piramidi, oltre a interessi militari e politici, l’Egitto è spinto a partecipare attivamente nello scenario libico anche da interessi economici, tanto fragili quanto importanti per il governo di al-Sisi. Il presidente egiziano ha di fatto mostrato la propria preoccupazione per i cittadini egiziani in Libia, lavoratori emigrati da decenni che, una volta iniziati gli scontri militari, hanno cercato protezione in patria pur senza avere la possibilità di essere riassorbiti nel tessuto lavorativo e sociale (scenario attualmente inattuabile per il fragile Egitto).
Le stime dei lavoratori egiziani in Libia si aggirano intorno a una cifra che va dai settecentomila al milione e mezzo di unità. Lavoratori che versano sotto forma di rimesse in Egitto quasi venti miliardi di dollari, linfa vitale per le casse di uno stato in estrema difficoltà economica nonché politica e sociale. A far gola ad Al-Sisi c’è anche il futuro energetico dell’Egitto. Un paese che intende sviluppare la propria infrastruttura industriale ha sempre necessità di petrolio. Necessità che può essere soddisfatta da Haftar, qualora diventi leader riconosciuto della Libia.
La vittoria del governo di Tobruk offrirebbe un’opportunità non da poco per l’Egitto, che intende rilanciarsi economicamente anche grazie alle fonti energetiche presenti in una regione nella quale vuole tornare a fare la voce grossa. Linfa vitale per le imprese del settore energetico egiziano, nei decenni passati tagliate fuori quasi del tutto dalla francese Total e dall’italiana Eni.
La Libia sembra destinata a diventare per il Mediterraneo quello che nel Golfo è lo Yemen, dove si combatte una guerra per procura tra Arabia Saudita e Emirati da un lato e l’Iran dall’altro (in Libia il ruolo di Teheran è preso da Ankara). Se al-Sisi è lo sponsor regionale più influente di Haftar, Recep Tayyp Erdogan lo è per al-Sarraj, Il presidente della Turchia ha chiesto la fine degli “attacchi illegali” da parte delle forze di Haftar durante un incontro con al-Sarraj a Istanbul.
Erdogan “ha rinnovato il suo sostegno al governo riconosciuto a livello internazionale e ha sollecitato la fine degli attacchi illegali delle forze di Haftar”. Oggi, la Libia è il terzo partner commerciale della Turchia in Africa. Sono innumerevoli i trattati bilaterali tra i due paesi, tra i quali vanno ricordati l’Accordo per il rafforzamento della cooperazione economica e tecnica (1975) e l’Accordo bilaterale per gli investimenti e la protezione (2009). I due paesi hanno inoltre deciso di dar vita, l’anno prossimo, a un accordo di libero scambio. Non basta. La Turchia è tra i maggiori investitori in Libia. Sono stati firmati accordi per realizzare progetti d’intervento in Libia, in particolare nel settore delle infrastrutture, che superano i venti miliardi di dollari. In termini di quantità di lavoratori impiegati nella realizzazione di opere all’estero da parte della Turchia, la Libia è il secondo mercato dopo la Russia. Quello che cresce in Libia è il bilancio delle vittime della guerra. L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) in Libia in un tweet ha affermato che “il bilancio dell’attacco di questa settimana contro un centro di migranti a Tajoura è di 53 morti e 130 feriti, che fa salire il bilancio totale degli scontri a Tripoli (iniziati il 4 aprile, ndr) a quasi 1.000 morti e oltre 5.000 feriti. L’Oms invita a una soluzione rapida e pacifica che metta al sicuro tutte le persone in Libia”. E tra esse, i più indifesi tra gli indifesi: i migranti imprigionati.
Sono 24 i centri di detenzione (Dc) per migranti in Libia come emerge da una mappa stilata dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) e aggiornata al maggio scorso. La cartina dell’Oim sui “Libya Detention Centers - May 2019”, consultabile sul sito del sistema di monitoraggio degli sfollati (il “Displacement Tracking Matrix” o “Dtm”) dell’agenzia collegata all’Onu, comprende 55 “Dc” ma 31 vengono indicati come “non funzionanti”. Sei di questi centri sono concentrati a Tripoli, altri quattro sulla costa a ovest della capitale nella zona di Zuara e Azzawya e ulteriori cinque a sud e ad est della città (senza contare uno a Sirte). Viene dunque confermato che sarebbero una quindicina i centri di cui il governo del premier Fayez al- Sarraj sta valutando la chiusura dopo il raid aereo in quello di Tajoura.
Lontano da Tripoli, nel profondo sud e nella Cirenaica (est), aree considerate sotto il controllo di Haftar, ci sono otto altri centri di detenzione indicati con pallini rossi e quindi “funzionanti”: e sarebbero dunque questi quelli sui quali il portavoce del sedicente Esercito nazionale libico (Lna), Ahmed al-Mismari, giovedì ha potuto dichiarare la disponibilità cooperare” per un’ “uscita immediata” dei migranti che vi sono rinchiusi. Una cosa unisce Haftar e Sarraj: usare i migranti come armi di ricatto.
Su proposta italiana - come evidenziato dal ministro degli Esteri, Enzo Moavero Milanesi - ha espresso una “forte condanna” per l’attacco e ha accolto “con favore la missione di accertamento dei fatti intrapresa dall’Onu”. Ha chiesto inoltre la fine immediata dei combattimenti”.
La Ue ribadisce il sostegno al processo di mediazione guidato dalle NazionUnite e nei confronti del rappresentante speciale Ghassan Salamè “nei suoi sforzi per ripristinare la fiducia, ottenere una cessazione delle ostilità, promuovere un dialogo inclusivo e creare le condizioni per la ripresa del processo politico guidato dalle Nazioni Unite”.
Sono 24 i centri di detenzione (Dc) per migranti in Libia come emerge da una mappa stilata dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) e aggiornata al maggio scorso. La cartina dell’Oim sui “Libya DetentionIn una telefonata a Haftar, Trump “ha riconosciuto il ruolo significativo del feldmaresciallo Haftar nella lotta contro il terrorismo e la sicurezza delle risorse petrolifere della Libia, e i due hanno discusso di una visione condivisa per la transizione della Libia verso un sistema politico democratico stabile”, ha detto una dichiarazione della Casa Bianca. L’elogio di Trump per Haftar è stato visto a Tripoli come un’inversione nella politica statunitense in Libia, in quanto il segretario di Stato Mike Pompeo ha chiesto l’arresto immediato dell’offensiva di Haftar all’inizio di quel mese.
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