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Libano, la cecità della politica di Enrico Campofreda La speranza e la paura sembrano viaggiare a fianco nel Libano ribelle. Il primo sentimento è risuonato sin dai primi passi della protesta, nata per una tassa sulla messaggeria Whatsapp presa da molti ragazzi come un’usurpazione e per i meno abbienti per uno dei tanti balzelli del governo Hariri.
Quindi giorno dopo giorno, a nord e a sud, sunniti, maroniti, drusi, sciiti alzavano la voce contro il sistema della spartizione che accontenta etnìe e partiti, non una larga fetta della popolazione. Quella che inevitabilmente appartiene all’uno o all’altro fronte, ma non necessariamente a un clan e dalla stessa militanza - come avviene in tutto il mondo - osserva come non ci sia parità di vantaggi. Nel tuo stesso gruppo, nel tuo partito puoi scoprire che c’è chi trascina il carro e chi ci sta comodamente seduto. Per questo la protesta, nel dolce autunno libanese che sa di primavera, ha chiesto le dimissioni di Hariri junior e il superamento della partizione del Paese, col suo meccanismo delle quote che doveva aiutare a superare gli asti della guerra civile e il liberismo sfrenato di Rafiq Hariri, sgradito alla parte povera della popolazione. In realtà quest’orientamento non è mutato, a tal punto da incrementare divari sociali. Certo, le bandiere gialle di Hezbollah, un tempo nemiche giurate del clan Hariri (tanto da essere sospettate dell’attentato del 2005 in cui il capostipite venne assassinato), accrebbero rispetto e peso grazie al contributo alla resistenza armata contro la seconda invasione di Israele, quindi con ‘la dimostrazione’ del 7 maggio 2008, quando i suoi reparti paramilitari esibirono kalashnikov, squadre e tattiche di controllo delle maggiori città libanesi, mettendo in crisi lo stesso esercito e i politici che da quel mondo provengono. Uno di questi è l’attuale presidente Aoun, ex generale auto esiliatosi per tutti gli anni Novanta e rientrato in Libano nel caldo 2005. Durante il critico biennio seguente, già si proponeva come Capo di Stato, ma non avendo appoggi da maroniti e sunniti guardò al fronte sciita. Una vicinanza che s’è consolidata nel tempo quando, pur presente nell’agone politico quale capo del Movimento Patriottico Libero, nel 2016 venne eletto presidente della Repubblica. Fu uno sblocco collettivo cui contribuì la leadership d’ogni etnìa coi partiti di riferimento. Ora, pur sotto la storia recente legata a spettri noti: l’ingerenza armata israeliana e siriana, e quella più subdola di aiuti esterni sauditi e iraniani, indorati da finanziamenti bancari e missilistici, oltre alla presenza di profughi (non più solo il quattrocentomila palestinesi, ma i quasi due milioni di siriani) la vita ordinaria libanese sembra soffocare per la cecità della classe politica. L’ottimismo di stirpi che ne hanno viste tante chiede a essa, a certi politici di farsi da parte, di far circolare speranze e progetti nuovi. Ma quel che accade in queste ore, rinnova visioni “rassicuranti”, cercate da alcuni nell’inneggiare alle Forze Armate, rimaste peraltro finora lontane da qualsiasi frenesia di protagonismo e tantomeno di volontà repressiva verso i manifestanti oppure creare spaccature fra quest’ultimi. Questo l’atteggiamento di chi li pensa oggetto di speculazioni alimentate dall’esterno, come fa il leader del Partito di Dio Nasrallah oltre agli alleati del gruppo Amal. Diventano costoro i più rigidi assertori della conservazione d’un sistema che non va archiviato per non offrire il fianco ai nemici. E quando com’è accaduto domenica notte a Tiro, le tende della protesta antigovernativa vengono attaccate e incendiate da attivisti delle due fazioni che inneggiano a se stessi, alla propria forza, alla loro egemonia sul Libano di oggi e di domani riappare una regìa settaria che rischia di risultare controproducente per la popolazione. L’egemonia che Hezbollah è riuscita a sviluppare sulla scena interna, assai più dei chiusi orizzonti di Amal, era basata sull’autorevolezza d’un patriottismo unitario, sull’attenzione all’azione sociale, sulla lungimiranza d’una politica che deve evitare l’isolamento. Bollare il malcontento popolare come reazionario, soffiare sul fuoco della polarizzazione non sembra una mossa garantista neppure per il potere. Può solo riavviare il distruttivo tribalismo politico già conosciuto, e prestare il fianco a vere ingerenze mai morte.
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