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Al Baghdadi, dalla predicazione al suicidio La morte del più ricercato uomo del terrore, il califfo Abu Al-Baghdadi, è data per certa dall’uomo che ne trae maggiore vantaggio politico: il presidente Donald Trump. Che in un intervento ufficiale dalla Casa Bianca ha rivelato il risultato dell’operazione preparata dalle Forze d’assalto statutitensi, e seguita col responsabile delle medesime Evans, il capo dell’interforze Milley, il segretario alla difesa Esper, il consigliere alla sicurezza O’Brien e il suo vice Pence. Ma l’attuale numero uno d’America dichiara che fondamentale s’è rivelato l’aiuto di Turchia, Russia, Siria, Iraq e delle forze kurde.
Tutte le componenti coinvolte negli sviluppi delle ultime tre settimane in Siria che, col ritiro militare americano, hanno ridisegnato un nuovo assetto a vantaggio di alcuni e detrimento di altri, sebbene attualmente a rimetterci politicamente siano solo i kurdi del Rojava sradicati dal territorio autogestito e tutte le famiglie kurde e siriane che subiscono deportazioni forzate in aree diverse da quelle abitate per rendere possibile la realizzazione della ‘green zone” studiata da Erdo?an e concessa da potenze e alleati. Ma oggi, come nel 2011 per l’azione di Abbottabad che portò all’eliminazione di Osama bin Laden, Trump parla del successo di un’iniziativa, che come quella vantata da Barack Obama, porta gli Stati Uniti e il presidente in carica nell’iperuranio del successo contro conclamati nemici della pace mondiale. Un blitz condotto da reparti antiterrorismo che hanno volato per più di un’ora su elicotteri (certamente partiti da una base Nato turca) rimasta comunque segreta, come segreto è il luogo dell’atterraggio da cui i manipoli d’assalto hanno avviato la caccia al capo dell’Isis. Le esplosioni registrate presso il villaggio di Bashira, nella provincia di Idlib (una delle ultime ridotte dei miliziani dell’Isis) fa supporre che il nascondiglio di Baghdadi, che aveva con sé i familiari, fosse stato individuato in quella zona.
La fine del leader dello Stato Islamico, “codarda” come l’ha definita Trump è avvenuta durante la sua fuga e sarebbe stata determinata dall’esplosivo che l’uomo indossava a mo’ di kamikaze e che avrebbe fatto brillare quando ha visto bloccata ogni via. Assieme al sedicente califfo sono deceduti anche suoi tre figli. La scelta della tempistica per un’operazione che può essere sfruttata mediaticamente e politicamente in primo luogo dal presidente Usa, e in virtù delle sue dichiarazioni da tutti gli attori citati che hanno affossato l’esperienza del Rojava, costituisce anche un approccio per il futuro e un monito per i guerriglieri kurdi, spinti al gaudio per la scomparsa d’un nemico fortemente combattuto, ma indirettamente avvertiti a non opporsi alla pianificazione della pulizia etnica che stanno subendo nella Siria settentrionale. La concordata volontà d’impegno militare, sia pure sotto forma di vigilanza, può evitare un ripetersi dell’esperienza del Daesh su quelle terre, ma l’eliminazione d’un capo, carismatico o meno, non limita il proseguimento d’un piano. Ad esempio per i talebani afghani non è stato così: la scomparsa del mullah Omar (comunque reso inattivo dai malanni ben prima della morte nel 2013) aveva solo prolungato le trattative per la successione fra i vari clan dei turbanti, e anche l’eliminazione del successore Mansour non ha incrinato l’impatto della loro azione politico-militare. Forse la costruzione dello Stato Islamico prende corpo più a Oriente, nelle pianure e nelle vallate dell’ingovernabile Afghanistan, dove i miliziani del Khorasan hanno da un biennio avviato una sanguinaria presenza, rivaleggiando con gli stessi talebani di Quetta. Egualmente non è risolta la furia vendicatrice degli attentatori jihadisti nei territori che intendono conquistare. Dalle città afghane e pakistane, a quelle occidentali che intendono ferocemente punire. Martiri involontari sono finora gli abitanti di Kabul lacerati dalle bombe e i cittadini d’Europa fucilati e squartatati dai camion, gente normale che non si piega al fanatismo.
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